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Il significato dei farmers' markets

di Antonio Felice - 09/11/2009

  
L'Italia sta cercando di sperimentare alternative di mercato per il settore agricolo e alimentare. La saldatura tra un'importante organizzazione di produttori agricoli come la Coldiretti (un milione e mezzo di aziende associate, prima organizzazione agricola europea) e il Ministro dell'agricoltura Zaia su un progetto specifico teso a indirizzare l'intera filiera produttiva è una novità da seguire con attenzione. Il progetto è stato lanciato a Cernobbio, sul Lago di Como, il 16 ottobre scorso.
Si tratta di questo: le aziende agricole associate indirizzano il prodotto da trasformare alle cooperative che aderiscono al progetto, mentre il prodotto fresco viene distribuito dai farmers' markets. Una filiera "chiusa" che vuole avere come elementi distintivi la tipicità, la tracciabilità, il Km 0, l'origine nazionale. Il progetto prevede lo sviluppo di 20.000 punti vendita in Italia. Allo scopo di dare concretezza al progetto è stata costituita una società, la "Consorzi Agrari d'Italia", che dovrà aggregare l'offerta delle aziende agricole.
Che l'agricoltura in Europa stia attraversando un momento critico è sotto gli occhi di tutti. Che il valore aggiunto della produzione si concentri nel risultato finale, e cioè nel cibo, nell'alimento, è anche abbastanza vero. Questo progetto italiano quindi cerca di stringere il cerchio tra il prodotto agricolo di base e il cibo attraverso un sistema chiuso controllato dagli stessi agricoltori. Ciò risponde anche a una certa logica politica che è propria di alcuni partiti italiani che vogliono difendere i prodotti nazionali.

Ma quale valore dare a questo progetto e che cosa esso potrebbe significare anche fuori dal contesto italiano?
Si tratta di una sfida difficile. Non solo perché il mercato è globale, ma perché sono discutibili i presupposti sui quali il progetto stesso si basa.
La costruzione del costo e quindi del prezzo finale di un prodotto alimentare è un fattore complesso, in cui si inseriscono voci come il costo del lavoro e il fisco (che da soli in Italia rappresentano la metà del valore di un prodotto alimentare), la logistica, l'imballaggio, i costi energetici, i costi finanziari e le tariffe di vario genere che gravano sui prodotti importati; alla fine è stato dimostrato da studi accurati che mettendo insieme gli utili dell'agricoltura, dell'industria alimentare e della stessa distribuzione il loro peso sul valore finale del prodotto è intorno al 3% non di più. Non so se questo elemento così importante sia stato tenuto presente nel progetto della Coldiretti. Ma anche uscendo da una dimensione "sofisticata" per scendere terra terra: ovvero ad un confronto tra i prezzi di un farmers' market, di un negozio tradizionale (fruttivendolo) e di un supermercato situati nello stesso quartiere di una qualsiasi città italiana, stando a rilievi giornalisti curati da diversi quatodiani cittadini, si vede chiaramente che solo in casi particolari il prezzo del farmers' market è il più conveniente.
Per i prezzi ci vorrebbe ben altro. Non sono state create a livello territoriale, nazionale ed europeo, da parte istituzionale e politica, condizioni adatte a creare patti più stabili e trasparenti tra la produzione agricola e la grande distibuzione alimentare. Manca a livello europeo un'Authority in materia di prezzi degli alimenti; mancano strumenti che rendano più equi i meccanismi di mercato. Questo probabilmente sarebbe più utile a tutti del tentativo dell'agricoltore di diventare distributore dei propri prodotti, della creazione di un sistema chiuso la cui quota di mercato in Italia non potrà raggiungere dimensioni significative.
E non ci sono solo i prezzi. Che dire della compatibilità ambientale del progetto? Quale lavoro si sta facendo nelle aziende agricole per migliorare in tempi di crisi i livelli qualitativi? Grandi organizzazioni come Coldiretti potrebbero svolgere un ruolo enorme per introdurre criteri di bio-sostenibilità in campagna e i politici potrebbero agevolare al massimo la creazione di distretti produttivi dove far rispettare criteri di bio-sostenibilità a tutti i livelli. Questa sì che sarebbe una direzione davvero innovativa da percorrere a monte dei farmers' markets e insieme un'operazione ben più importante per tutti gli operatori della filiera e per il consumatore. Molti tuttavia s'illudono in questi mesi (o forse fanno finta d'illudersi) che mandare il contadino a vendere fuori dai cancelli dell'azienda le sue mele, le sue zucchine piuttosto che la sua insalata sia la soluzione dei problemi dell'agricoltura e dei suoi clienti.
Ci vuole ben altro.