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La “cultura” moderna: ovvero come rendere la cultura un bene di consumo

di Fabio Mazza - 07/12/2009

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L’ossessione, moderna ma molto recente temporalmente, dell’ “istruzione”, del “titolo” universitario, del “diventare qualcuno”, è diventata quasi un leit-motiv dei nostri giorni.
A parte l’incremento parossistico delle iscrizioni alle facoltà universitarie, che rivela nel contempo la fallacia della scuola post-sessantotto, divenuta più un “diplomificio” che una fucina di leader o quantomeno di “capitani” del mondo del lavoro del domani, ciò di cui parliamo lo si può vedere chiaramente dall’atteggiamento dei genitori, che farebbero ogni sacrificio per vedere il figlio con il prezioso titolo, senza il quale si suppone egli non ricoprirà mai, in società, una “posizione”, e non avrà mai una vita, non solo professionale, veramente appagante.
L’ironia del tutto è che, nella maggior parte dei casi, la tanto decantata “istruzione”, la tanto celebrata “cultura” universitaria, che già dal nome rimanda ad un complesso, ad una conoscenza complessiva del reale e del mondo, si riduce ad un vuoto e spurio nozionismo, ad una conoscenza di elementi slegati e disarticolati, autoreferenziali e inutili per una superiore conoscenza della realtà e della vita, che sola potrebbe garantire la formazione di veri leader.
A parte la disgustosa logica da “ipermercato” che si respira nelle strutture formative, dove la qualità non conta quasi nulla ma si osanna e si santifica la quantità; dove nessuno può delinearsi per predisposizioni o sensibilità particolari, perché il sistema è congeniato per mantenere un'ingiusta e livellatrice “uguaglianza”, figlia del delirante progetto social-egualitario del “mandare avanti tutti”; dove si preferisce insistere sui programmi “taglia unica” ministeriali, piuttosto che affrontare davvero tematiche apicali, capaci di orientare formativamente la formazione e la mentalità dell’allievo, quello che più colpisce è la volontà, non si sa quanto cosciente o quanto figlia dei tempi, di “formare” persone che padroneggino un “sapere” settoriale e meramente tecnico, slegato da una visione della realtà complessiva e unificatrice.
Mentre quello che servirebbe per creare degli “aristocratici” del sapere, sarebbe proprio quello di fornire una “universitas” del pensiero, dello scibile (e forse anche del meno scibile), del sapere e anche, perché no, dei valori caratterizzanti la nostra tradizione.
Ma quello che si preferisce fare è creare degli “specialisti”, leggesi anche degli inarticolati, che sappiano molte nozioni tecniche, ma che difficilmente sappiano articolarle e riunirle nelle varie facce della realtà, al fine di dominarla e padroneggiarla.
Del resto la “democrazia” ha paura di uomini simili, perché sono uomini che difficilmente hanno bisogno degli altri. Perché la “democrazia” conta che il numero assorba e annulli le qualità che rendono gli uomini diversi e diseguali tra loro. Perché la democrazia ha paura per antonomasia delle figure carismatiche, e gli preferisce di gran lunga il “governo dei mediocri”, degli “specialisti” non integrati, degli “esperti” del nulla.
Non a caso in una società che crea sempre nuovi bisogni e nuovi “saperi” che in realtà sono spesso falsi bisogni e falsi saperi, come sarebbe possibile per un solo uomo, se non eccezionalmente integrato e consapevole di sè e della propria natura ontologica, “stare al passo” di una conoscenza che, in tutti i campi, tende a modificarsi e cambiare continuamente?
La natura disarticolata del sapere e della “cultura” moderni e attuali è dunque figlia e portato necessario di un mondo che si basa sul mutamento e vorticoso aggiornamento di tutto, dalla tecnologia al sapere, dalle relazioni interpersonali agli “status symbol” e ai desideri.
Ma quindi la domanda è: che fare? E qui necessariamente la nostra risposta andrà contro corrente, andrà a ricercare un’idea di “istruzione” di ben altra caratura e tipologia. In un'epoca in cui le iscrizioni alle università decuplicano non sarebbe auspicabile ridurre il numero degli studenti, non in funzione di mere possibilità economiche delle famiglie, ma di potenzialità e meriti effettivi che vengano considerati già dall’inizio? In un'epoca in cui l’”istruzione” è considerata un diritto, si ribadisce che non esiste un diritto al sapere: esso va, come tutto guadagnato, meritato.
In un'epoca in cui tutti vogliono, e credono in una certa misura, di poter essere, qualsiasi cosa e di avere qualunque posizione, non è auspicabile la visione delle cose come è sempre stata, che nella società ognuno ha il suo posto? Questo lungi dall’essere una posizione data unicamente dal denaro e dalla “robba”, dovrebbe essere data da ciò che si fa, non meno da ciò che si rappresenta per la propria comunità: di conseguenza l’università non può e non deve essere quello che è ora, una “fabbrica” di inutili titoli e di inutili “saperi”, che illudono chiunque di poter divenire, con il semplice esercizio mnemonico di concetti, una guida e un essere realizzato.