Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ascetismo metropolitano

Ascetismo metropolitano

di Andrea Sciffo - 19/01/2010

 

 Il grande errore della filosofia moderna e contemporanea è ritenere che i sensi non siano intelligenti, e che l’unica conoscenza attendibile sia quella razionalizzabile: peccato, però, che ci siano campi nei quali usare il solo razionalismo significa pretendere di accarezzare una guancia con la carta vetrata.Duccio Demetrio, in questo suo libro cupo, non commette un simile errore: il suo pensiero non percorre le città occidentali (magari entro luoghi chiusi e ben climatizzati, preferibilmente) accettandone il degrado per giustificarlo o per contestarlo. Si astiene persino dal gesto inumano di attribuire al Caso o a Dio o all’assurdo la colpa delle sventure della condizione umana, perché sin dall’inizio del discorso scopre implicitamente che l’orrore della metropoli contemporanea è in tutto e per tutto un problema “umano”.Con asciutta severità, le centocinquanta pagine di Ascetismo metropolitano (uscito nel settembre del 2009) fanno constatare come la città “a misura d’uomo” non sia affatto a servizio degli uomini: Demetrio la elegge a sua “scuola d’ascetismo” proprio a causa del male di vivere che vi serpeggia, per i luoghi anonimi, per l’intontito labirinto di luci e germi, per le sue viscere intrise di urbana rassegnazione. Ne nasce un’opera di riflessione ostica, una tavolozza grigio-cinerina come la desolata copertina di Sironi che la sigilla con umor nero: del resto, il colore delle metropoli deve sempre mescolarsi alla tinta fosca del nero asfalto su cui sfregano le gomme dei neri pneumatici… La voce narrante del testo demetriano appartiene alla tradizione riflessiva dell’intellighenzia occidentale tra XX e XXI secolo: da un capo all’altro del libro, si dialoga filosoficamente con le meditazioni di Hans Jonas, Rilke, Salvatore Natoli, Remo Bodei, Karl Jaspers ma anche (sorprendente accostamento!) con Thomas Merton, Chiara Lubich, Edith Stein, Abram J. Heschel e madre Teresa di Calcutta. Il profilo su cui Duccio Demetrio acquarella da più di un decennio ormai è il ritratto del “non credente indocile” cioè dell’individuo che rivendica un proprio irriducibile “stato di religiosità” e che, benché si senta incredulo, “non si rassegna all’idea che tutto sia vano e puro sogno, illusione, apparenza. Non accetta che l’inutile e l’assurdo dominino incontrastati ogni anfratto dell’esistere. Non può fare a meno di sporgersi oltre i crinali di una ragione che, da sola, non riesce né a consolarlo né a saziarlo (p.17)”. E questa sola breve citazione basti a illustrare la differenza tra le cogitazioni di Demetrio e il grande errore del filosofare contemporaneo, già stigmatizzato all’inizio. Professore ordinario da decenni presso l’Università prima Statale poi Bicocca di Milano, il suo corpus di scritti e di pubblicazioni sta dirigendosi verso mete poco accademiche, affini (e credo Demetrio percepisca inconsciamente) a quella posizione filosofica di rifiuto della complicità con il male che nel 1935 portò Augusto Del Noce all’incontro e all’amicizia con il teorico della non-violenza Aldo Capitini, perché “è proprio la sensibilità al problema della violenza […] che distingue i filosofi autentici dai filosofi accademici”. Assorti nei propri passiCerto, questo coltivare l’inquietudine per mantenerla sempre inquieta, questo accettare il disincanto, e restare presso le tristi latitudini della metropoli è un rischio per i meditabondi seguaci del sentiero intellettuale inaugurato da Duccio Demetrio: molti, mentre attraversavano le Terre Guaste, sono assaliti dalla disperazione. È il pegno da pagare quando si  viaggia in “pattuglia… senza chiese o fedi, senza guru e maestri (p.63)”: un prezzo elevato, quasi un azzardo, dato che la ricompensa può essere inestimabile (una canzone del bardo irlandese Van Morrison che proclama un simile stato d’animo: No guru, no method, no teacher, del 1986). Via via che il tragitto si snoda, ai silenziosi compagni di carovana anche un libro scabro come questo sa somministrare gli elisir: si veda almeno il gesto dell’asceta metropolitano che “si reclina su di sé, per indagarsi in ogni piega dell’essere, e si reclina sull’altro per dimenticarsi di sé quando necessario. Per raggiungere questo intento ci vuole disciplina… occorre saper sostare in attesa davanti al consueto: occorre riuscire a sopportare il tanfo dei corpi ammassati senza odiarli, consapevoli che anche il nostro trasuda… (p.78)”. Qui è la vittoria della riflessione demetriana sulla disincarnazione, sull’inanimato, cioè su quanto va installandosi sulla Terra da quando si è lasciata libertà d’azione al nemico dell’umanità della condizione umana. Voglio dire che siamo a un passo dal detto di Clemente Alessandrino hai visto il tuo fratello? Hai visto il tuo Dio.Da vent’anni a questa parte, però, la riproduzione e la reduplicazione della realtà reale in realtà virtuale è sfociata nella società “del progetto” (che nell’etimo significa “proiettile”) cioè nell’opera di demolizione del mondo esistente per rifarlo ex novo: nel frattempo, per ora, dilagano i cantieri e il deserto urbano che impediscono ai più di vedere i visi, di guardare in faccia uomini e cose. Una vecchia tragedia, che risale agli albori della storia: non siamo molto distanti dalle culture tribali, dal feticismo animista per cui si trafiggono idoli o totem che “hanno orecchi e non odono, hanno occhi e non vedono”. C’è continuità tra l’attuale disperazione metropolitana, l’uomo protostorico che chinava il capo davanti alle divinità inesorabili e un Michelangelo che, scagliato il martello alla statua di marmo, le urla perché non parli. È il dominio della mente sul mondo reale, cioè la prigione dell’intelletto: perché la mente sa essere una serva eccellente ma è una terribile padrona, e comanda su tutto, se la si lascia incontrastata.  Gesti d’amore invisibiliLa poetica di Duccio Demetrio è, da anni, per molti l’itinerario possibile per praticare “l’inquieta religiosità dei non credenti” in un tale deserto-cantiere; una traiettoria sorprendente, se vista dal vertice di un antico lavoro demetriano con Riccardo Massa e altri, Linee di fuga (La Nuova Italia, 1989): ma in tempi recenti, libri come Di che giardino sei? (Meltemi, 2000) o Filosofia del camminare (Raffaello Cortina, 2005) o anche La vita schiva (Raffaello Cortina, 2007) riescono a dare corpo alla “comunità mnemocense” della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Arezzo) nella quale gli incontri avvengono in cammino, di sosta in sosta nella Val Tiberina, proponendo pratiche personali di ascetica della scrittura (www.lua.it). Quest’ultimo è invece un libro dolente e doloroso, dunque è tutta un’altra cosa: suscita smarrimento, sperdutezza, abbandono; esige una risposta, chiede di essere completato.Come? Innanzitutto, il dipinto in copertina lo si sceglierà tra le tele di Georges Rouault, magari il Nocturne chrétien (1952, Centre G.Pompidou, Parigi). Poi, occorrerebbe parafrasare l’esergo di Rilke e renderlo così: “io ho fede in tutto quello che ho abbracciato”. La postfazione vada a un Olivier Clément postumo, che ribadirebbe alcuni suoi assiomi, quali “un Dio infinitamente vicino, più interiore di noi stessi, tale che, per quanto profonda sia la nostra disperazione, lui è là e si frappone tra noi e il nulla”; oppure ricorderebbe come nella giovinezza si stupisse “di esistere, di respirare e camminare, ma ero anche angosciato dal nulla in cui tutto sembrava inabissarsi…”. Infine, si legga in parallelo La perdita dei sensi di Ivan Illich (L.E.F., 2009), un libro pubblicato, guarda caso, in contemporanea.Infatti è possibile, di un’opera, immaginarne l’alter-ego, l’altra anta del dittico: io mi figuro che questo Ascetismo metropolitano possa produrre il proprio doppio in un “manuale per la resistenza alle tentazioni gnostiche” per la nostra epoca. L’ideologia della gnosi appare come seduzione ma poi costringe a credere che “il finito, in quanto finito, è male” fomentando, così, la violenza. Demetrio sostiene, senza proclamarlo, l’esatto opposto e si pone così nella schiera di quanti combattono segretamente l’hegelismo ininterrotto che ci domina: coloro che accolgono l’incerto e l’imprevedibile, come si raccoglie un uccellino ferito sul ciglio della strada per sottrarlo alle auto, come si gusta un frutto difettoso e ammaccato apprezzando la parte buona. L’ultima frase del saggio è di conforto, ma per i filosofi dominanti costituirebbe il capo d’imputazione di un processo mai celebrato ma sempre minaccioso: “perché come si può amare anche il nulla, averne pietà” dice Demetrio “così anche una metropoli è disseminata di domande e di gesti d’amore invisibili”(p.149).

Nel solco di Simone Weil, eppure in pieno XXI secolo, qui la violenza viene trasformata in sofferenza per mezzo di un esercizio (askésis) che accumula tesori altrove.

 

Ascetismo metropolitano.L’inquieta religiosità dei non-credenti, secondo Duccio Demetrio (Ponte alle Grazie, 2009; pp.155 €13,50)