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Colpa delle banche? Si, ma non solo

di Gianni Petrosillo - 21/01/2010

 

 

La riflessione di Nicola Porro sulla situazione delle banche americane, pubblicata nel suo blog al link che vi propongo sotto, è da valutare con attenzione. Il giornalista dopo aver dato qualche numero su fatturato, premi e retribuzioni del circuito finanziario d’oltreoceano si fa una domanda del tutto legittima e cogente: chi ha permesso alle grandi banche americane di raggiungere tali risultati strabilianti? Chi ha loro parato il culo quando i libri contabili, palesemente truccati, avrebbero fatto sobbalzare sulla sedia l’ultimo dei ragionieri condominiali? Chi ha stabilito, soprattutto dopo aver lasciato fallire la Lehman Brothers, che da quel momento in poi le altre banche erano troppo grandi per subire un default?

Interrogativi ovviamente retorici che rinviano ad un solo responsabile oggettivo: l’Amministrazione Americana. Perché? La risposta ce la fornisce un testo inedito di La Grassa del ’98 (presto sul sito), il quale avendo intuito quale strada stesse percorrendo la finanza, in una fase in cui l’unicentrismo americano veniva rimesso in discussione dal timido affacciamento (più economico che strategico-politico), di altri paesi sullo scacchiere mondiale, leggeva il riaccendersi della conflittualità tra aree a capitalismo avanzato, e di conseguenza le prime avvisaglie di crisi sistemica, come un fatto interimprenditoriale che sarebbe potuto divenire successivamente intercapitalistico (come è infatti attualmente): “…si entra in un’epoca di intensa rifinanziarizzazione del capitale, a causa della necessità, da parte delle varie imprese (in specie quelle di grandi dimensioni),  di possedere vaste scorte liquide per investimenti di vario tipo (non solo quelli più strettamente tecnico-economici) ai fini dell’aspra competizione policentrica, con l’autonomizzazione del settore finanziario rispetto a quello dell’economia detta reale, il che comporta frizioni tra i due settori e non armonizzazione dei loro interessi e delle politiche in essi perseguite dalle varie frazioni delle classi dominanti. Si riacutizza inoltre il problema dello stretto controllo delle grandi imprese da parte di nuclei proprietari (il cosiddetto “nocciolo duro”), con ulteriori frizioni tra questi e i gruppi alto-manageriali che sembravano avere preso il netto, e irreversibile, sopravvento nella fase precedente, e che spesso sono costretti, essi stessi, ad acquisire proprietà azionaria delle imprese da loro dirette per non essere messi in difficoltà, in una situazione di precarietà del loro controllo aziendale.

 

Analizzando questo fenomeno La Grassa mostrava perché la crisi si sarebbe quasi certamente acutizzata: “oggi vi sono concrete possibilità di una crisi da “anarchia mercantile”, surdeterminata dalla competitività tipica di una nuova epoca di policentrismo capitalistico. Gli USA restano, e lo saranno ancora per un bel po’ di tempo, il paese e l’economia dominante, ma non più coordinatrice, anzi portatrice di disordine”. Ed è precisamente quello che si è verificato, benché siamo solo in presenza di una fase transeunte di tipo multipolare e non ancora pienamente policentrica.

 

Allorché saremo definitivamente entrati in quest’ultima il disordine, politico prima che economico, diverrà parossistico proprio per l’impossibilità del paese predominante di ripristinare un equilibrio fondato sulla sua assoluta egemonia. La crescita abnorme della sfera finanziaria è quindi legata alla stessa dinamica capitalistica. In primo luogo vi è la naturale inclinazione dei settori finanziari a distaccarsi dall’economia reale per incrementare i propri profitti attraverso la manipolazione dei duplicati delle merce (denaro e tutti i suoi derivati); ma, aspetto mille volte più decisivo, la finanza è strumento nelle mani del Paese predominante il quale se ne serve come un’arma, del tutto particolare per la sua apparente neutralità, per penetrare e legare a sé le economie delle altre nazioni: “La finanza americana è stata spinta al massimo in questo sforzo “imperiale”; e i suoi agenti si sono comportati di conseguenza, approfittando della loro funzione per avvantaggiarsi, facendo così concrescere su se stesso in modo abnorme il settore. Il fenomeno critico è di conseguenza apparso più evidente e macroscopico in quel paese. Tale fatto, mi dispiace per gli speranzosi, non significa ipso facto che quest’ultimo sia più malato degli altri. Non ci si scordi che gli Usa hanno acquisito nei molti decenni precedenti una potenza ben maggiore degli altri paesi; e la fanno e faranno valere nel presente e futuro confronto” (La Grassa ‘Crisi, sviluppo, trasformazione e trapasso d’epoca’, Aprile 2009, on line su ripensaremarx.it).  

 

In termini più astratti potremmo sostenere che ogni strategia politica (elaborata dagli agenti capitalistici) necessità di risorse economiche. La pressione esercitata dagli strateghi del Capitale per concretizzare le loro strategie spinge la sfera finanziaria ad allargarsi in maniera sconsiderata distaccandosi dall’economia cosiddetta reale fino al momento in cui il castello di carta si schianta al suolo. Questa è la crisi.

 

Secondo detta disamina si comprende meglio perché il salvatore del mondo Obama non ha invertito la rotta, nonostante i numerosi proclami contro la speculazione e l’arroganza finanziaria dei suoi esordi presidenziali. Obama, ancor prima di essere nero e democratico, è il Presidente di una Superpotenza. Se costui agisse secondo il cuore (ammesso che ne abbia uno) scontrandosi apertamente contro il sistema finanziario del suo paese lo indebolirebbe e renderebbe vana la strategia di dominazione americana (prima ancora di averne elaborata un’altra) in una fase molto delicata che vede emergere nuove potenze in grado di insidiare il primato statunitense. Solo così si può spiegare la non concordanza tra i proclami presidenziali antibancari e le soluzioni economiche blande fin qui adottate.

Lo stesso Paul Krugman, economista di simpatie democratiche, rileva i medesimi elementi di critica sceverati da Porro e accusa Obama di aver adottato una linea troppo morbida verso il sistema finanziario. Ma non si creda che queste opzioni siano esclusivamente un fatto di debolezza dell’attuale direzione del paese, al contrario si tratta di scelte politiche precise orientate a conservare l’attuale struttura di potere che non muta col mutare dei presidenti. Il problema è dunque un altro: è possibile oggi la conservazione di un approccio egemonico unipolare laddove i rapporti di forza reali a livello geopolitico si sono sbilanciati? Secondo noi no, ma questo non farà che accentuare l’aggressività statunitense complicando la situazione mondiale già di per sé critica.

Tassare i cattivi

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