Si parla molto in questi giorni delle due Italie, divise per politica, storia, cultura, economia, eccetera. Quest'idea ha un fondamento reale? Esistono le due Italie oppure si tratta di un puro e semplice espediente retorico-politico?
In primo luogo l'idea delle "due nazioni"all'interno di una, ha origini romantiche. Rinvia in particolare alla cultura politica inglese successiva alla rivoluzione industriale e alla critica delle sue conseguenze. Il termine fu coniato dal futuro primo ministro conservatore Benjamin Disraeli nel suo romanzo Sibyl: Or The Two Nations (1845). Disraeli parlava da politico romantico, di una Inghilterra tagliata in "due nazioni" dalla Rivoluzione industriale, mai come nel passato: la nazione dei ricchi e la nazione dei poveri. Frattura che solo il ritorno di una aristocrazia illuminata avrebbe potuto ricomporre. Anche sull'altro versante Marx ed Engels difesero più o meno le stesse tesi, delineando nel Manifesto (1848) una netta divisione del mondo in proletari e borghesi. Alla quale avrebbe messo fine un processo storico-economico, rivolto a edificare prima il socialismo e poi il comunismo universale.
In secondo luogo, questa idea delle "due nazioni", se aveva un fondamento reale (economico e sociologico) nell'Ottocento, non lo ha più oggi, soprattutto in Italia. Dove statisticamente parlando, e pur in presenza di fasce di estrema povertà e grande ricchezza, 3 italiani su 4 appartengono per reddito, consumi e prospettive di vita al ceto medio. L'Italia sociologica è una, ed è soprattutto borghese (nella varie differenziazioni sociali di piccola, media e alta borghesia).
In terzo luogo, l'esistenza di questo "zoccolo duro" sociologico, fa sì che il dibattito attuale sulle due Italie abbia valenza esclusivamente retorico-politica. E questo poi spiega perché sul piano dei programmi destra e sinistra finiscano per sostenere più o meno le stesse tesi. E purtroppo chiarisce pure perché la politica, dal momento che non riflette reali divisioni economiche e sociali di tipo ottocentesco, sia degenerata in brutali ed egoistiche lotte di potere tra gruppi politici rivali. Può non piacere, soprattutto agli "idealisti", ma purtroppo, per ora, la realtà è questa.
In quarto luogo, una sinistra che si rispetti, dovrebbe farsi interprete di quell'italiano su quattro che non appartiene al ceto medio (attenzione, una fascia di disagio e povertà, destinata ad allargarsi sotto l'influsso dei processi di globalizzazione) . Il problema è che, anche la sinistra al di là della retorica politica sulle due Italie, (che come si e visto economicamente e socialmente non esistono), punta soprattutto sul ceto medio ( una piccola e media borghesia, composta di dipendenti pubblici e privati). Mentre la destra punta più o meno sugli stessi ceti, ma privilegiando principalmente l'ambito del lavoro autonomo, del mondo artigiano, dei piccoli professionisti e della piccola e media impresa). E quel che è peggio, è che sia la destra, sia la sinistra (o comunque certa destra e certa sinistra) si sforzino solo di catturare, non tanto il voto, quanto il consenso sostanziale dei cosiddetti poteri forti (mondo industriale e bancario): l'altissima borghesia, quel mezzo milione di persone (inclusi i massimi quadri dirigenti, "excutive cadres"), da cui però dipendono il destino economico e le alleanze politiche dell'Italia. Si pensi solo all'importante ruolo finora giocato da questi settori nel favorire apertamente l'introduzione del lavoro flessibile (allo stato puro) e la scelta occidentalista e filoamericana (gradita non solo a Berlusconi, come insegna la guerra del Kosovo...).
Perché invece di continuare vanamente a discutere sulle "due Italie" che di fatto non esistono, non ci si sforza di dare voce agli esclusi? A quell'italiano su quattro? A quei molti (si parla di un milione di famiglie) che nell'arco dei prossimi cinque anni rischiano di sprofondare nel disagio sociale e nella povertà?