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I diversi volti dell’alienazione umana e dello sfruttamento nel nostro tempo [parte prima]

di Eugenio Orso - 26/01/2010

Fonte: pauperclass.myblog

Nel blog presento i capitoli di un nuovo libro che ho in progetto di scrivere assieme al filosofo Costanzo Preve. Li presento, di volta in volta, nella loro prima stesura e divisi in parti.

Ho già pubblicato per intero i primi due capitoli: L'alienazione umana da Rousseau a Marx e L'alienazione umana come guasto prodotto dal capitalismo contemporaneo:alcuni casi di studio .

Oggi pubblico la prima parte del terzo capitolo.

I diversi volti dell’alienazione umana e dello sfruttamento nel nostro tempo [parte prima]

Cos’è la nostra vita oggi, cosa rappresenta, o ancor meglio, è possibile definirla e riassumerla con una sola, breve ma significativa espressione rivelatrice?

Secondo il Bauman di Liquid life, il consumo riveste nella nostra esistenza un’importanza centrale:

La vita liquida è una vita di consumi. Essa marchia il mondo e ogni suo frammento, animato e inanimato, come oggetti di consumo; vale a dire oggetti che perdono la propria utilità (e con essa il lustro, l’attrazione, il potere di seduzione, e dunque il valore) man mano che vengono usati. La vita liquida modella secondo i canoni degli oggetti di consumo il giudizio e la valutazione di tutti i frammenti, animati e inanimati, del mondo.[1]

 

Tutto è destinato a consumarsi rapidamente, dunque, e la velocità con la quale gli oggetti perdono la loro utilità non può che aumentare.

Se gli oggetti perdono la loro utilità con l’uso, come scrive Bauman, mi permetto di aggiungere che questo può accadere anche prima del loro consumo effettivo.

Conservo il ricordo di quando ero bambinello, in un’epoca ormai lontana, e la società dei consumi che renderebbe liquida la vita era già ben avviata.

Il fustino di detersivo Tide, una marca che dovrebbe esistere ancora ed essere nelle mani della Procter & Gamble, addirittura con un gruppo di fan in Facebook, conteneva le mitiche figurine in regalo.

Ciò rappresentava un’evidente incoerenza, perché le figurine nulla avevano a che vedere con la natura del prodotto, le sue applicazioni e la sua utilità, ma allora questa incoerenza non poteva in alcun modo inquietarmi e farmi riflettere, perché io puntavo con decisione al regalo.

Probabilmente la furbata del regalo, legato indissolubilmente al prodotto chimico, il detersivo, si basava sull’intuizione che “ai bambini non si può dir di no” …

Ebbene, convincevo mia madre ad acquistare il Tide anche se, in quel momento, non era strettamente indispensabile, ed anzi, il prodotto non aveva per lei utilità, e questo per il desiderio di mettere le mani sulle agognate figurine, le quali, però, aperto il fustino e individuato un doppione, dopo un po’ inevitabilmente mi annoiavano.

In quei momenti, il mio giudizio sul mondo – e sui suoi frammenti inanimati, quali in effetti erano anche le figurine del Tide – non poteva che essere entusiastico, e lo era anche il giudizio di mia madre, che rifletteva la mia soddisfazione.

Oggi il prodotto di punta della Procter sembra essere il Dash più che il Tide, almeno in Italia, ma resta il fatto che la vita liquida di Bauman è legata a doppio filo al consumo [di massa] che “marchia” in modo indelebile il mondo, contribuendo a modellare il giudizio che diamo su di lui.

L’aspetto del consumo, la riduzione dell’uomo a consumatore, a cliente da sedurre attraverso gli oggetti e i beni rapidamente consumabili è dunque decisivo?

E’ proprio questa la vera “sorgente” di una nuova vita liquida?

Secondo il filosofo Costanzo Preve la situazione sarebbe un po’ diversa da come la descrive il sociologo polacco, e l’origine della vita liquida è direttamente riferibile all’ultima, grande e decisiva metamorfosi della forma-capitale, dallo stato solido a quello liquido:

 

Quella che Bauman chiama società “liquida” è soltanto la società dello scorrimento liquido dei capitali finanziari. Ora, lo scorrimento liquido dei capitali finanziari che si muovono nello spazio liscio della globalizzazione neoliberale richiede lo scioglimento preventivo degli elementi solidi delle due strutture precedenti, le comunità popolari e l’etica borghese. Da un lato, il lavoro diventa flessibile e precario, ed ogni tentativo di contestare il dominio assoluto dell’economia viene demonizzato come “totalitarismo” (di qui la connotazione dell’intero novecento, come secolo delle ideologie assassine). Dall’altro, lo scioglimento del vecchio mondo che si oppone ancora alla divinizzazione integrale dell’economia viene perseguito con metodi differenziati, che in mancanza di una seria teoria generale possono essere solo qui disordinatamente enumerati: distruzione del superio paterno sostituito dal dominio dell’Es del desiderio del consumo; femminilizzazione dell’etica sociale, anticamera del ripiegamento nel privato; esaltazione di gay e trans come alternativa virtuosa alla vecchia e noiosa forma di dimorfismo sessuale maschio-femmina; distruzione della scuola meritocratica sostituita da agenzie di socializzazione al servizio del semplice mercato del lavoro; dominio della simulazione televisiva parallela al mondo reale (non c’è più Tex Willer, ma solo Dylan Dog, non più eroi, ma solo incubi e fantasmi); non ci sono più professori, ma solo prof.[2]

 

Se la merce “appare sugli scaffali”, pronta per essere rapidamente consumata, i capitali finanziari sono liberi di scorrere ovunque, travolgendo qualsiasi diga e qualsiasi ostacolo che incontrano sul loro cammino, come un fiume in piena uscito dal suo letto.

Anche le più solide dighe del passato, o quelle che credevamo tali, sembra che non abbiano resistito alla piena.

Moltissimi sono già stati travolti dalla corrente e sono preda della furia delle acque, dalle pianure del Veneto alle stazioni della storica metropolitana di Budapest, dagli spazi virtuali offerti dal Web ai marciapiedi antistanti la fabbrica che chiude.

La metafora mi è sembrata acconcia – e ringrazio sia Preve sia Bauman – per rendere l’idea dell’invasività di questo capitalismo “transegenetico” allo stato liquido [appunto], in quanto l’acqua penetra ovunque, erode la pietra delle più solide costruzioni sociali, travolge gli ostacoli sul suo cammino [come le barriere politiche e doganali], spegne il fuoco del conflitto di classe, eccetera.

Ma ora è bene proseguire con il discorso delle estraniazioni nate nel nostro presente, alla base della genesi dell’uomo precario, e per descrivere la contemporanea persistenza di forme di alienazione/ sfruttamento che ci riportano inevitabilmente ad altre epoche della storia umana.

E’ un po’ come se il passato ed il presente coesistessero nell’unico tempo in cui viviamo.

Come per gli alberi, in cui i cerchi concentrici che ne segnano l’età coesistono all’un tempo nello stesso tronco, o come in geologia, in cui le stratificazioni del terreno pazientemente si sovrappongono nei secoli e nei millenni l’una all’altra, così accade per quanto riguarda l’alienazione e lo sfruttamento umano.

Ciò accade perché lo sviluppo delle formazioni sociali particolari, nel mondo, non è mai stato “sincronizzato”, come chiunque può rendersi conto osservando i macroscopici squilibri che permangono fra le grandi aree geografiche – Nord/ Sud, Primo mondo/ Terzo mondo, Paesi sviluppati/ Paesi non in sviluppo, Centro/ Periferia, eccetera – oppure le differenze, forse più contenute ma non meno significative all’interno del mondo “ricco”.

Bastino un paio di esempi, in proposito:

Agli Stati Uniti d’America il cuore del potere della grande finanza, che è dilagata ovunque nel mondo come un esercito di invasione, suscitando la globalizzazione, cercando di imporre la sua visione universale, diffondendo gli usi e i costumi congeniali ai nuovi dominati, e “centri di eccellenza” del livello di Silicon Valley, industrie automobilistiche da salvare cannibalizzando quelle di paesi tributari.

All’Italia lo smantellamento dell’industria chimica, la “morte” dell’informatica e l’illusione del Made in Italy, infranta dalla concorrenza asiatica ed emergente, le privatizzazioni e la fragile “struttura ossea” ben rappresentata dalla Piccola e Media Industria, un po’ di calcio e un po’ di turismo, prima Mani Pulite, dopo Prodi e Berlusconi.

Lo sviluppo si è rivelato, perciò, storicamente ineguale, e questo squilibrio tende ad accentuarsi soprattutto nei periodi di passaggio da un assetto geopolitico unipolare [in verità, quasi sempre bipolare] ad uno multipolare, e da un assetto complessivo monocentrico [in verità, spesso con due centri dominanti e concorrenti] ad uno policentrico.

In prima approssimazione e semplificando un po’, possiamo affermare che questo sviluppo ineguale è altresì all’origine della coesistenza di strati sociali “più antichi”, non sempre e soltanto residuali ma in certi casi numericamente prevalenti, e moderne classi nel mondo, oppure all’interno di una stessa area o di una singola formazione sociale, ma è anche la ragione della persistenza di forme di alienazione umana e sfruttamento che riportano ad altre epoche storiche, accanto alle nuove che si manifestano nel tempo presente.

Certe espressioni di cui mi sono valso, quali monocentrismo, policentrismo, sviluppo ineguale delle formazioni sociali particolari, le ho prese in prestito [per la verità, senza chiedere il permesso …] dal lessico utilizzato dai lagrassiani e soprattutto dal loro “capostipite”, che non è un sociologo come Bauman o un filosofo come Preve, ma un economista che a suo tempo è stato allievo di Bettelheim ed anche di Althusser: il professor Gianfranco La Grassa.

Al fine di comprendere il punto di vista teorico di La Grassa e l’uso che fa di tali concetti è bene riportare un passo tratto dall’introduzione del suo ultimo libro, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi?:

 

In realtà, le caratteristiche più consone a capire – per sommi capi e in sintesi, e senz’altro con qualche distorsione – l’odierna struttura capitalistica è la ricorsività delle fasi di mono e policentrismo, nonché lo sviluppo ineguale dei vari capitalismi in lotta nella formazione globale [da lui chiamata altrove anche formazione sociale in generale, n.d.s.] e quello dei vari gruppi dominanti in lotta nell’ambito delle formazioni particolari, ecc.[3]

 

La pluralità di capitalismi in azione oggi nel mondo dovrebbe essere un chiaro effetto dello sviluppo [storico] ineguale, una sorta di “stratificazione” sistemica, mi permetto di aggiungere, che li fa coesistere come gli anelli nell’esempio del tronco d’albero.

Ma non bisogna dimenticare che accanto alle differenze, culturali e di sviluppo storico, vi sono anche delle tendenze comuni che interessano la formazione in generale, quella definibile globale, e che quindi si può già intravedere una direttrice principale dello sviluppo.

Se le differenze culturali e di sviluppo storico, che rendono ineguali le formazioni sociali particolari e non esattamente “sovrapponibili” i capitalismi, ci consentono di osservare nel nostro tempo – e talora anche all’interno degli stessi paesi così detti avanzati – forme di alienazione che riportano all’epoca di Marx, o addirittura forme di schiavitù dai tratti precapitalistici, le tendenze comuni di sviluppo, che impongono ai singoli capitalismi una convergenza con velocità diverse verso un modello più uniforme, aprono la via a nuove forme di alienazione, che attualmente si stanno diffondendo e sono osservabili soprattutto nel nord e nell’occidente del mondo [ad esempio quelle che ho cercato di descrivere nel capitolo precedente].

In un certo senso e con qualche spregiudicatezza di troppo, se i processi di mondializzazione economica, finanziaria, culturale, salariare, continueranno a svilupparsi imperterriti e si ridurranno le differenze fra i principali capitalismi, forse si potrà parlare ad un certo punto anche di “globalizzazione dello sfruttamento e dell’alienazione”, ma per ora conviene evitare di “mettere il carro davanti ai buoi”, limitandosi a trattare la questione della coesistenza, nel mondo contemporaneo, di forme diverse di estraniazione e sfruttamento.

Lo stato liquido del capitale [finanziario] interessa tutto il pianeta, ed anche le aree più dimenticate e lontane dalle direttrici dello “sviluppo”, quale è l’Africa sub-sahariana, ma come ho già scritto nel primo capitolo, le dinamiche del “miracolo” cinese degli anni novanta e dei primi del duemila riportano alle asprezze della prima industrializzazione in Europa, con la mano d’opera rurale implotonata e fagocitata dalla fabbrica, ridotta in condizioni di vero sfruttamento, pur avendo beneficiato, in questo processo di industrializzazione a piè sospinto, dell’ampia libertà di movimento dei capitali occidentali, delle delocalizzazioni in termini di apparati produttivi e know-how, nonché della fame di prodotti a basso costo del mercato nord-americano ed anche di quello europeo.

Nel contempo, vi è stata una riproposizione dello schiavismo in forme che ricordano fin troppo quelle delle economie precapitalistiche, ed il fenomeno ha fatto capolino anche in Europa occidentale, come provano i recenti fatti di Rosarno, nella piana calabrese di Gioia Tauro.

Eravamo abituati da tempo ad acquistare piccoli alberelli di natale a mille lire [quando aveva corso la lira], giocattoli a prezzi stracciati [e in certi casi fabbricati con materiali tossici], capi d’abbigliamento griffati  e non [con false griffe, in molti casi] a prezzi di tutta convenienza, compravamo i soliti marchi alla ricerca del più basso costo di produzione, come Nike e Adidas, Nestlé e Coca-Cola, e sapevamo o almeno sospettavamo che si trattava di produzioni dietro le quali si nascondeva il lavoro coatto, sottopagato e senza diritti, non di rado il lavoro minorile schiavizzato, ma anche in Italia si sono presentate situazioni simili o ancor peggiori in settori tradizionali, quale è quello agricolo in Calabria ad esempio, situazioni che ci fanno arretrare di secoli, e non soltanto per quanto attiene la tutela dei lavoratori e il livello delle retribuzioni.

La raccolta dei prodotti agricoli è comunque un’attività antica, in cui l’eventuale ma sempre più diffuso utilizzo di sementi transgenetiche e l’uso di pesticidi, frutto delle applicazioni della chimica, convivono con la tradizionale fatica del contadino e del bracciante, impegnati nelle attività di raccolta.

I loro gesti hanno un’origine remota, e sono simili a quelli degli schiavi afro-americani costretti nelle piantagioni di cotone degli stati del sud, o dei numerosi schiavi haitiani ridotti in cattività dagli aristocratici francesi, che i “cattivi” giacobini di Robespierre e Saint–Just hanno poi liberato.

Se qualcuno ha mai creduto che questa “piaga” sia stata definitivamente superata e consegnata alla storia, oggi deve completamente ricredersi, perché per un’operaia italiana riassunta e poi immediatamente trasferita in India dall’azienda per la quale lavora, che delocalizza in piena crisi economica, c’è [o c’era] almeno un africano a Rosarno, togolese o di altra provenienza, che a fronte di quindici o venti euro quotidiani per il suo sostentamento – gli schiavi antichi, l’ho già scritto e lo riscrivo, avevano in tutti i sensi un maggior valore –, ridotto senza casa e senza alcuna assistenza sanitaria, lavora dieci o dodici ore il giorno e può essere liberamente preso a fucilate.

Anche all’interno di un singolo paese e non soltanto fra una formazione sociale particolare e l’altra, vi possono essere evidenti situazioni di “sviluppo ineguale” – per usare ancora una volta la terminologia lagrassiana – e questo è ben testimoniato dalla coesistenza di forme di schiavismo nella parte più povera dell’Italia ed in settori tradizionali d’attività, con nuove alienazioni che colpiscono sia il lavoro operaio qualificato sia quello intellettuale, sempre più spesso anche nei settori detti avanzati, nel terziario e nei servizi ad alto contenuto tecnologico.

D’altra parte, questa commistione è facilmente riscontrabile in molti paesi dell’ex terzo e quarto mondo, soprattutto in quelli ribattezzati con espressione politicamente corretta “paesi in sviluppo” [Cina, Brasile, India] ed anche in quelli “non in sviluppo” [Congo, Burundi, Liberia].

Anzi, in certi paesi che in futuro dovrebbero diventare i nuovi “giganti economici”, sostituendo progressivamente Stati Uniti d’America, Europa e Giappone, il contrasto è ben più accentuato e drammatico.

E’ il caso dell’India, ad esempio, potenza nucleare e antica culla di civiltà, in cui il terziario avanzato e le tecnologie informatiche convivono con la fame più nera e l’esclusione più antica.

 

Mi raccontava un viaggiatore che ha frequentato le peggiori strade di Calcutta, che a non grande distanza da un povero disgraziato, magrissimo e seminudo – il quale cercava disperatamente semini o chicchi di riso per nutrirsi, fra le plaghe di sterco delle vacchette sacre agli indù – era attivo un internet point a disposizione dei turisti e di pochi altri fortunati, oppure che a pochi passi da un cadavere abbandonato ai margini della via, che sarebbe stato rimosso da chissà chi e chissà quando, transitava un’automobile europea di grossa cilindrata guidata da un indiano bianco, con tanto di cravatta e pochette.

Lo stesso conoscente, che ha visitato molti paesi nel mondo a diverse latitudini e sui più vari mezzi di trasporto, non mi ha nascosto il suo stupore, davanti a questo sovrapporsi di immagini decisamente contrastanti, che da un lato ad un europeo potrebbero ricordare le immagini stereotipate del peggior medioevo, le icone terribili della fame, dell’ignoranza, dell’abbandono, delle crudeltà che la vita può riservarci, e dall’altro evocare scorci della città illimitata e “tecnologizzata” del terzo millennio, che però non sarà di certo accessibile a tutti, come per altri versi non lo fu l’Agorà di Atene.

Lo stesso mi ha confessato il suo completo spaesamento, davanti ad una mescolanza spesso inintelleggibile, una mélange caotica che chiede di essere spiegata.

La situazione è quindi molto più complessa e confusa di quanto si può credere e forse lo “sviluppo ineguale”, fra le diverse formazioni sociali e al loro interno, non è sufficiente per spiegarla in modo esaustivo, e può non essere sufficiente, come integrazione, il riferimento alle peculiarità culturali e religiose delle singole aree o dei singoli paesi, o alla loro storia sociale ed economica pregressa …

Questa incertezza di fondo investe, com’è inevitabile, anche l’osservazione delle forme di alienazione e di sfruttamento che si mescolano nel nostro tempo e che sembrano convivere, non di rado a breve distanza l’una dall’altra, sempre più caoticamente.

Una spiegazione potrebbe risiedere nella velocità dei cambiamenti imposti dalla globalizzazione e dallo “stato liquido” dei capitali ormai liberi di scorrere ovunque, nel repentino e conseguente sconvolgimento di equilibri che altrimenti avrebbe retto ancora per qualche decennio, rendendo meno traumatici i cambiamenti.

Possiamo affermare, infatti, che ci troviamo in una situazione simile a quella di chi è costretto a vagare fra le macerie dopo un bombardamento, e non trova più i riferimenti, utili per orientarsi, che costituivano per lui altrettanti punti fermi nella sua mappa mentale.

Ma la cattiva notizia è che stiamo attendendo il bombardamento successivo, perché la globalizzazione continua e con lei anche la “guerra scatenata dal Capitale”!

 

Quindi non ci dobbiamo stupire del ritorno, o meglio della riemersione, dello schiavismo dai lineamenti classici in questi ultimi anni, del fatto che gli schiavi si utilizzano anche in Europa occidentale oltre che, furbescamente e in modo più o meno indiretto, nei paesi del sud del mondo, come non dobbiamo stupirci di uno sviluppo, peculiare di certi paesi “emergenti”, che riporta all’alienazione descritta da Karl Marx già nella prima metà dell’ottocento – caratterizzante il primo capitalismo, e da taluni nel recente passato frettolosamente archiviata –, né dobbiamo sorprenderci se da noi si manifestano alienazioni per certi versi ancor più invasive, per altri in forma strisciante, che sono legate alle dinamiche “più avanzate” del capitalismo speculativo, globalizzatore e ri-plebeizzante.



[1]  Zygmunt Bauman, Vita liquida, Gius. Laterza & Figli Spa, collana Economia, anno 2005

[2] Costanzo Preve intervistato da Luigi Tedeschi, Il lavoro stabile e il dogma dell’onnipotenza del mercato, nel periodico Italicum di Novembre – Dicembre 2009, anno XXIV

[3] Gianfranco La Grassa, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi?, Mimesis Edizioni, anno 2009