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I ricordi sono nostri amici o sono i nostri peggiori nemici?

di Francesco Lamendola - 27/01/2010

 

I ricordi sono nostri amici o sono i nostri peggiori nemici? Ci aiutano a vivere meglio o ci fanno vivere peggio di come potremmo?
Incominciamo dalla definizione di “amico”. Certamente un amico ci aiuta a vivere meglio, ma questo è un effetto della sua presenza, non il suo scopo. Il suo scopo è quello di sostenerci, consigliarci, accoglierci: quando vi sono queste cose fra due esseri umani, vi è dell’amicizia, e, di conseguenza, vi è un vivere meglio.
Molte persone sono affezionate ai propri ricordi, ad un punto tale che finiscono per vivere in funzione di essi, specialmente quelle di una certa età. Oppure trasfigurano il passato nel gioco della memoria e, più o meno consapevolmente, vivono di ricordi inautentici, di falsi ricordi: vale a dire di un passato che non è mai stato così come essi se lo raffigurano allorché si compiacciono di rievocarlo incessantemente.
Ciò accade soprattutto a coloro la cui vita è molto vuota, il cui presente è desolatamente arido e che, dal futuro, non si aspettano alcun cambiamento positivo. Allora operano una vera e propria distorsione del passato: come fa Emilio Brentani, il protagonista di «Senilità» di Italo Svevo, allorché, mentre decide di chiudersi un una precoce vecchiaia spirituale, trasfigura la sua triste esperienza sentimentale con Angiolina e vi costruisce il mito della propria “gioventù”, lui che giovane non lo era mai stato; mentre la volgare, l’infedele Angolina della realtà diviene, nella nostalgia del ricordo, una figura nobilmente pensosa, dolce e un po’ malinconica, assorbendo in parte i tratti della scomparsa sorella di lui, Amalia, timida, introversa e tutta dedita a lui.
In linea generale, comunque, potremmo dire che i ricordi sono degli amici quando hanno l’effetto di aiutarci a vivere meglio la nostra vita, e dei nemici quando sortiscono l’effetto opposto. Possono essere, pertanto, degli ottimi amici, così come i nostri peggiori nemici: ciò non dipende da essi, ma da noi, da come li viviamo e da come li gestiamo.
A questo punto, dovremmo spiegare che cosa intendiamo per “vivere bene”; solo allora, infatti, potremo decidere se e in quale misura il nostro rapporto con i ricordi sia tale da migliorare o peggiorare la qualità della nostra vita.
Diciamo che si vive bene, allorché si è realizzata una proporzione ed un’armonia tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra ciò che si desidera e ciò che si è in grado di realizzare; e che si vive male, quando accade tutto il contrario.
Non bisogna pensare, tuttavia, che l’obiettivo di “vivere bene” sia evidente di per se stesso, vale a dire che costituisca un obiettivo naturale per tutti gli esseri umani; perché, in tal caso, rischieremmo di scambiare il punto d’arrivo per il punto di partenza. La persona consapevole non dovrebbe porsi il fine di vivere bene, ma quello di vivere nel modo giusto, secondo ragione e secondo il rispetto della propria verità interiore; nella misura in cui vi riuscirà, troverà anche il bene, e, pertanto, si potrà dire che egli sia riuscito a vivere bene. Insomma, vivendo alla ricerca del bene, si vive bene: ma questo è il premio della ricerca, non il punto di partenza.
Ed ora torniamo ai ricordi.
Indipendentemente dal fatto che siano belli o brutti, piacevoli o dolorosi, i ricordi sono l’ombra del nostro passato, per cui dovremmo trovare un giusto equilibrio fra essi ed il nostro presente, in modo che quest’ultimo non sia soffocato dalla pianta dei ricordi, ma, semmai, che ne venga rinvigorito e che vi trovi nuovo slancio per protendersi verso la luce.
Ma questo può accadere solo se noi siamo sufficientemente soddisfatti della nostra vita, della direzione in cui stiamo andando e, perciò, o del nostro presente, o, almeno, del nostro probabile, immediato futuro; diversamente, la tentazione di ripiegare sui ricordi come evasione della realtà diventa quasi irresistibile. Ed evadere dalla realtà non aiuta mai a vivere bene, specialmente quando consiste in una regressione verso il passato.
Il passato non è così immodificabile come generalmente crediamo, ma la chiave per operare l’operazione alchemica della sua trasformazione non può trovarsi se non nelle mani di colui che ha vinto i fantasmi del proprio passato e che sa guardare al presente con animo franco e con limpido sguardo. Se mancano queste condizioni, il passato diviene un fardello gravoso, un peso insopportabile e una catena che strangola il qui ed ora, che è l’ossigeno indispensabile al nostro ben vivere.
Il passato e il ricordo non sono la stessa cosa: può sembrare una verità ovvia e banale, ma troppo spesso, in pratica, si tende a dimenticarlo. Il passato è un insieme di esperienze che hanno caratterizzato la nostra evoluzione e che hanno fatto di noi quello che ora effettivamente siamo: per cui non è corretto pensarlo come qualcosa che non ci appartiene più, ma piuttosto lo si dovrebbe considerare come un processo continuo, che sfuma insensibilmente dall’ieri all’oggi e che, pertanto, non è altra cosa da ciò che chiamiamo presente, ma solo la sua graduale trasformazione ed elaborazione.
Oltre a ciò, il passato è ambiguo esattamente come lo è il presente: solo a posteriori lo si può legare con uno spago e confezionare come un mazzo di fiori; mentre, nel momento in cui non era passato, ma presente, ogni fiore aveva il suo colore, il suo profumo, e nessuno avrebbe potuto dire che aspetto avrebbe avuto il mazzo alla fine - ammesso che una fine vi sia. È solo la prospettiva del “dopo” che ci fa scorgere una unità, e sia pure articolata, lì dove non c’erano che frammenti isolati e spesso del tutto indipendenti l’uno dall’altro.
Il ricordo è una selezione del passato operata dai meccanismi della memoria e fortemente influenzata dal tipo di lettura che, inconsciamente, ne vogliamo fare. Non è una fotografia obiettiva di ciò che è stato: ancor meno di quanto la percezione sia una fotografia obiettiva del presente. Per cui, vivere di ricordi comporta una duplice distorsione della realtà: perché ci aliena dal presente e perché ci tiene legati a un falso passato, vale a dire a un passato filtrato, edulcorato o esasperato - a seconda dei casi - da elementi del tutto estranei ad esso.
Facciamo un esempio concreto: una vecchia canzone che riporta la mente ad anni passati, carichi di emozioni irripetibili. Appunto: irripetibili. Quelle emozioni, così com’erano, non torneranno mai più; quelle che proviamo ora, a distanza di anni, non sono le stesse, ma altre. È facile cadere nell’equivoco e immaginare che si tratti delle stesse emozioni, ma è anche facile capire che non è così: noi non siamo più gli stessi, le cose non sono più le stesse. Di conseguenza, quella vecchia canzone ci intenerisce, ci commuove e magari ci fa soffrire, perché ci riporta al passato; ma ciò avviene con gli occhiali - per così dire - del presente. Quel che crediamo di ricordare, è altra cosa da quello che fu: perché rivedere il proprio sé di una volta non significa anche farlo rivivere, ma, semmai, rielaborarlo e, in un certo senso, reinventarlo.
Il ricordo, dunque, non si identifica con il passato, così come la storiografia (lo studio del passato) non s’identifica con la storia (l’insieme degli eventi passati).
Al tempo stesso, ricordare non significa, semplicemente, tirare fuori una vecchia cosa dal cassetto della memoria: perché la memoria stessa è, in larghissima parte, un movimento e non uno stato dell’essere. La memoria è l’atto con cui ritorniamo al passato: ma, in esso, vi sono molte cose che ci mettiamo noi, a partire dalla strada che abbiamo percorso in seguito, mano a mano che il presente di ieri diventava, per noi, un passato dapprima recente, poi, poco alla volta, sempre più remoto e sempre più sfumato.
Tornando all’esempio della vecchia canzone: ascoltandola, quel che ci commuove non è la stessa cosa che ci commuoveva allora (ammesso che ci commuovesse: perché il ricordo commuove, raramente commuove il presente). Quel che ci commuove ascoltando la vecchia canzone è il rivedere noi stessi di allora, consci del tempo che è passato e di quanto, adesso, siamo cambiati: non è il passato in se stesso, ma il passato confrontato implicitamente con il presente. È lo stacco temporale che ci commuove e ci turba, la coscienza di non essere più quelli di allora.
Questo implica anche una modificazione dello spessore affettivo ed emozionale dei ricordi, operata dalla memoria creativa. Il passato si ridisegna nella memoria e finisce per assumere dei colori più belli o più brutti di quelli che ebbe a suo tempo, allorché non era passato ma presente: il nostro presente. Una cosa che, da bambini, ci lasciava più o meno indifferenti, o che, comunque, abbiamo vissuto come del tutto normale e ordinaria, rivive attraverso le note della vecchia canzone e ci riempie di nostalgia, apparendoci ora - ma soltanto ora - come straordinariamente affascinante e coinvolgente.
È uno scherzo della prospettiva, per cui le cose lontane sembrano più grandi di quel che dovrebbero essere in base alla distanza reale. Si osservino i paesaggi notturni nella maggior parte delle opere pittoriche: la luna piena vi brilla con delle dimensioni che sono di molto superiori a quelle reali del nostro satellite, osservato dalla superficie terrestre. Gli artisti non si sono resi conto di esagerarne la grandezza, stregati dal suo fascino strano e misterioso.
Possiamo quindi avviarci ad una conclusione, e sia pure provvisoria ed incompleta, del nostro ragionamento.
I ricordi non sono l’immagine reale del passato, ma l’immagine fantastica di esso; e il tipo di fantasia (o, se si preferisce, di simbologia) che vi costruiamo attorno, dipende precisamente dallo stato della nostra attuale evoluzione spirituale. Una persona discretamente progredita e consapevole riesce a ridurre al minimo la sovrastruttura fantastica e mitologica che la memoria edifica sul ricordo del passato; vale a dire, riesce a leggere il proprio passato in maniera abbastanza realistica, senza abbellirlo e senza imbruttirlo troppo. Viceversa, una persona poco evoluta, e quindi incapace di guardare con chiarezza in se stessa, non ne sarà capace, con la conseguenza che permetterà ai propri ricordi di esercitare un’influenza esagerata sul presente. Potrà, ad esempio, rovinarsi la vita, crogiolandosi nel ricordo di ingiustizie immaginarie subite nel passato.
In un certo senso, la memoria ha a che fare con il grado di maturità spirituale delle persone e si può paragonare ad uno specchio in cui osserviamo il riflesso della nostra immagine. La persona spiritualmente evoluta riuscirà a guardare in uno specchio relativamente terso, che gli restituisce le proprie reali fattezze; mentre la persona ancora immersa nelle passioni e nell’ignoranza, e dominata dall’attaccamento alle cose, vedrà un’immagine alquanto deformata di sé. Lo specchio della memoria è una nostra creazione, non un elemento indipendente.
Questi concetti sono un po’ ardui da digerire in una cultura, come la nostra, dominata da una grande quantità di pregiudizi concettuali di tipo razionalistico e positivistico. La maggior parte delle persone crede che percepire la realtà significhi, in un certo senso, fotografarla, mentre esistono studi specifici che hanno dimostrato ampiamente il contrario; e, similmente, pensano che ricordare significhi fotocopiare il passato, cosa ancora più assurda.
Tutto al contrario, quella che noi chiamiamo la realtà non è altro che una interpretazione, parziale e soggettiva, che noi elaboriamo sulla base delle nostre percezioni; e quello che chiamiamo ricordo non è che una interpretazione, ancor più libera e fantasiosa, dell’insieme delle nostre percezioni precedenti, ossia relative al passato.
Ma la realtà in se stessa non è alla nostra portata (se non nei rari, folgoranti momenti di luminosa consapevolezza cosmica), come non lo è il “noumeno” kantiano; e, a maggior ragione, non è alla nostra portata il passato, che è soltanto l’ombra di una realtà ormai trascorsa.
Possiamo discutere - e lo abbiamo fatto altre volte - sulla persistenza degli eventi al di fuori del piano spazio-temporale in cui siamo calati; possiamo, cioè, ipotizzare che nulla sia veramente passato e che nulla sia futuro, ma che, in realtà, esista solo un eterno presente, che noi non riusciamo a percepire come tale unicamente a causa delle nostre limitazioni percettive e concettuali; per cui, ad esempio, dovremmo tener presente che i nostri cari defunti non sono scomparsi, ma sono ancora vicino a noi, in una veste diversa da quella che conoscevamo.
Tuttavia, ciò riguarda la sfera della speculazione filosofica ed alcuni rari, preziosi momenti di intuizione mistica; non l’ambito della vita ordinaria. Nella sfera della vita ordinaria, il passato è passato; e perfino il presente non è quella cosa chiara e di per sé evidente che siamo soliti immaginare.
Comprendere questo, significa avere già imboccato l’inizio del giusto atteggiamento verso il mondo dei ricordi: vale a dire, quello di farceli amici e di rafforzare, non di indebolire, la nostra crescita spirituale per mezzo di essi.