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Quando l’economia guarda al futuro ma non vede il presente

di Loretta Napoleoni - 28/01/2010


Quest’anno i personaggi di spicco a Davos non provengono dal mondo dello spettacolo (come dimenticare agli inizi del 2000 la presenza di Sharon Stone) né dall’alta finanza, settore che per anni ha dominato la scena di questo villaggio alpino, ma dai luoghi di culto religioso dove negli ultimi 14 mesi la gente ha cercato conforto e protezione dalla crisi economica. A chiudere la cinque giorni sull’economia e le sorti del mondo sarà infatti Rowan Williams, l’arcivescovo di Canterbury. Ed è molto probabile che il suo discorso riprenderà temi già toccati dall’enciclica del Papa, Caritas in Veritate.

Tema del quarantesimo incontro del World Economic Forum Annual, che si apre oggi, sarà «Migliorare le condizioni del mondo: ripensamenti, ristrutturazione e ricostruzione». Titolo sufficientemente vago per farci entrare sei sottotemi: come rafforzare il sistema di sicurezza sociale, assicurare un’economia sostenibile, rafforzare la sicurezza, creare una struttura di valori etici e costruire istituzioni che funzionano. Ad aiutare gli organizzatori del forum a scegliere come argomento il rapporto tra etica ed economia è stata un’indagine condotta su Facebook alla quale hanno partecipato 130.000 iscritti provenienti dai Paesi del G20. I risultati erano del tutto prevedibili: soltanto un quarto degli intervistati crede che le grandi multinazionali seguano un codice di comportamento etico negli affari. Il 40% è però convinto che sia più facile trovarlo nella gestione della piccola e media impresa e circa la metà dei residenti in Francia, Germania, Turchia, India, Indonesia, Israele, Messico, Arabia Saudita, Sud Africa e Stati Uniti pensa che esitano valori etici universali, applicabili quotidianamente nel mondo degli affari.

Il campione statistico del pianeta fornito da Facebook conferma i risultati del «World Economic Forum’s Faith and Global Agenda: Values for the Post-Crisis economy», uno studio condotto durante il 2009 sul ruolo che la fede svolge nel mondo degli affari. Secondo questo documento due terzi della popolazione del villaggio globale attribuisce la recessione alla crisi di valori che affligge l’umanità, alla fonte insomma c’è un problema etico dal quale sgorga quello economico.
Klaus Schwab, fondatore e presidente del World Economic Forum sembra convinto che la mancanza d’etica nel ricco occidente sia la radice di tutti i nostri mali economici ed infatti quest’anno si sentirà la presenza massiccia delle economie emergenti, tra le quali in primo piano il Sud Africa. «Il sistema attuale non ha adempiuto agli obblighi nei confronti di tre miliardi di persone. La nostra cultura civica, politica ed economica deve essere trasformata per porre fine a questa discriminazione». Naturalmente con questa frase Schwab si riferisce a quella fetta di popolazione che non conosce neppure il significato della parola neo-liberista e che non è a conoscenza dell’esistenza del Forum di Davos, che questa dottrina, per almeno dieci anni, l’ha celebrata ostentatamente con i super ricchi e super famosi personaggi del villaggio globale.

Gli fa eco l’arcivescovo di Canterbury, da sempre critico nei confronti dei neo-liberisti, una figura imponente nella lotta contro la celebrazione del mercato. Rowan Williams giustamente si domanda «che tipo di economia è quella al servizio della famiglia e della società, un’economia che offre sicurezza ai cittadini, inclusi coloro che non possono contribuirvi in termini di profitti accumulati o produzione industriale». Ma è difficile che la risposta provenga da Davos. L’esperienza degli anni passati, l’ostentazione della ricchezza dei capitani d’industria, la celebrazione del credo liberista e l’appoggio che questa classe di nuovi ricchi ha dato alla follia di Bush non sono certamente le premesse giuste.

Davos nasce con l’intento di guardare al futuro, di offrire attraverso il network, il sistema di contatti e conoscenze, una finestra sul domani a disposizione del mondo degli affari e di quello dell’economia. Oggi sarebbe però ridicolo descriverlo in questi termini, il discorso sull’etica e gli affari andava fatto nel gennaio del 2007, pochi mesi prima del primo crollo dei mutui subprime. Meglio invece descrivere quest’incontro annuale come una diapositiva del mondo in cui viviamo, un’istantanea degli errori ma anche delle conquiste della societa’ globalizzata. Tra queste c’è sicuramente la presenza quest’anno di un intellettuale della portata dell’arcivescovo di Canterbury. Ma, c’è da domandarsi, abbiamo bisogno di questa foto?

Coloro che da anni mettono in guardia contro la pericolosa tendenza neo-liberista del Forum di Davos ne farebbero volentieri a meno. Tra questi «Public Eye on Davos», un’organizzazione creata nel 2000 dalla sezione svizzera di Greenpeace e dalla Dichiarazione di Berna, una Ong che monitora il comportamento etico delle imprese svizzere. «Public Eye on Davos» premia ogni anno la peggiore impresa in termini di contaminazione dell’ambiente e di etica negli affari. Durante la cerimonia dello scorso anno, la deputata socialista Leutenegger ha fatto riflettere la platea sul costo del Forum di Davos per il contribuente svizzero, circa 8 milioni di franchi svizzeri in sussidi per garantire la sicurezza. Secondo le sue stime però il costo totale è molto più alto e si aggira intorno ai 20 milioni di franchi svizzeri. Nel calcolo sono inclusi i 5 mila soldati di stanza a Davos durante la settimana del Forum, l’aviazione, che insieme a quella austriaca, ne pattugliano i cieli e la polizia, presa in prestito, dagli altri cantoni.

A queste cifre vanno aggiunti i contributi dei partecipanti al Forum. Le mille società più ricche al mondo, che fanno parte del World Economic Forum, donano annualmente circa 40 milioni di franchi svizzeri all’organizzazione che in Svizzera è una fondazione filantropica. In totale, incluso i costi di partecipazione a Davos e le donazioni una tantum le entrate del Forum ammontano a circa 100 milioni di franchi svizzeri. Per questa cifra, viene spontaneo pensare che almeno negli ultimi tre anni, il World Economic Forum avrebbe potuto contribuire di più a chiarirci le idee sulle cause della crisi economica.
Ma è ormai chiaro che quest’istituzione ha perso il carattere indipendente e critico che possedeva in passato ed ha finito per essere condizionata dalle mode del momento. Se questo è vero c’è da domandarsi se anche il sistema di relazioni che la sostiene continua ad offrire a chi vi partecipa buone e durature opportunità d’investimento.

Altre organizzazioni, che hanno lo scopo di offrire una visione spassionata e oggettiva del mondo in cui viviamo, stanno nascendo. Tra queste c’è «Ted», una fondazione filantropica americana con lo scopo di diffondere idee nuove nel mondo attraverso conferenze via internet. Queste sembrano più adatte del World Economic Forum a descrivere i cambiamenti in atto e le opportunità del futuro. È possibile che il modello creato da Schwab quarant’anni fa sia ormai obsoleto e che la crisi del credito, la recessione e la risposta dei governi a queste calamità ne siano la conferma? Nel clima attuale solo un miracolo potrà farci rispondere negativamente a questa domanda.