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La politica non è tutto e la mitezza è l’antipolitica per eccellenza

di Francesco Lamendola - 03/02/2010

 

Una delle più grandi menzogne e una delle più odiose forme di violenza della cultura moderna è la pretesa che tutto sia politica, che tutto sia riconducibile alle logiche della politica e che tutto sia una manifestazione di interessi, più o meno camuffati, più o meno subdoli e nascosti, di natura squisitamente politica.
Gli intellettuali politicamente corretti e, ovviamente, impegnati, sostengono che anche chi non fa politica, in realtà ne fa, e precisamente quella di favorire il sistema politico dominante; e citano ad esempio il famoso cartello che, in epoca fascista, ammoniva dalle pareti delle fabbriche: «Qui non si fa politica, si lavora» (ma si guardano dal citare il cartello che, nelle odierne fabbriche fiamminghe del Belgio, recita: «Qui non si parla, si lavora», come risposta - non diremmo fascista - all’altro cartello che, nelle fabbriche vallone, sentenzia: «Qui si parla francese»).
In effetti, la pretesa che tutto sia politica, e che la forma più sottile e perversa della politica consista nel rifiuto di essere ridotti a categoria politica, discende da quella poliziesca “cultura del sospetto” che Marx e soprattutto Freud hanno sparso a piene mani nella società moderna, secondo il noto dogma psicanalitico secondo cui il non parlare di qualcosa significa, per forza di cose, non volerne parlare e non, magari, pensare a tutt’altro.
Eppure, abbiamo ben visto, specialmente nella storia del Novecento, dove abbia portato la pretesa di ridurre a politica ogni aspetto e ogni manifestazione della vita, sia di quella individuale che di quella collettiva. Nell’arte, dall’architettura alla poesia, ha prodotto in assoluto le cose più brutte che mai siano uscite dal pensiero e dalle mani dell’uomo: valga per tutti l’esempio del cosiddetto “realismo socialista”, abominevole espressione di una visione della vita servilmente appiattita sui canoni del totalitarismo staliniano.
A quell’epoca e in quel clima, parlare dei sentimenti privati e del dramma dell’uomo preso negli ingranaggi della storia appariva quasi un reato e, se non si prestava ad una aperta accusa di fronda controrivoluzionaria e antipopolare, certo era soggetta ad una severa riprovazione morale, in quanto espressione di “narcisismo piccolo borghese”. Tale, ad esempio, è stata l’accoglienza riservata in Unione Sovietica ad un capolavoro come  «Il dottor Živago» di Boris Pasternak; mentre una sorte anche peggiore, vale a dire il silenzio, era stata riservata all’altro capolavoro della letteratura russa novecentesca, «Il Maestro e Margherita» di Michail Bulgakov.
L’ultima ondata di questo imperialismo ideologico della politica si è avuta nel Sessantotto e dintorni, quando chiunque non parlasse e straparlasse di collettivi, di comitati del popolo, di posizioni “oggettivamente” borghesi da combattere senza pietà e non farneticasse di marxismo-leninismo, di maoismo e di castrismo ad ogni pie’ sospinto, poteva star certo di vedersi affibbiare la qualifica di soggetto ambiguo e infido, da tener d’occhio se non proprio da mettere nelle liste di proscrizione dell’odiato nemico di classe.
L’ubriacatura è passata, ma i suoi orfani figli e nipoti raramente hanno avuto l’onestà intellettuale di fare un severo esame di coscienza e di sottoporsi ad una autocritica senza comode indulgenze, col risultato che molti di loro, persa ogni fede nella rivoluzione, sono passati armi e bagagli nel campo dell’ex nemico, vale a dire della detestata e “moribonda” borghesia; quando non si sono addirittura riciclati per fare carriera politica nei partiti d’ordine, tutti Chiesa, Patria e Famiglia, sforzandosi di far dimenticare certi loro peccatucci di gioventù, a cominciare dall’uso più o meno disinvolto di droghe, fino a una certa propensione per spranghe e catene con cui “convertire” i miscredenti.
Tramontate le ideologie, l’ossessione totalitaria della politica - comunque - non ha fatto la stessa fine di quelle, ma si è camuffata sotto abiti nuovi e ha trovato il modo di invadere nuovamente la cultura di questa nostra epoca post-moderna, solo cambiando di segno.
Di questa ossessione totalitaria fanno parte il viscerale, ottuso anticomunismo della borghesia neoconservatrice; il sospettoso, implacabile disegno di controllo globale del sionismo e dei suoi alleati internazionali; il pregiudizio sistematico laicista, scientista, materialista e radicale contro tutto ciò che sappia, anche solo lontanamente, di spirituale; l’avversione dichiarata, che sfiora l’orrore del sacro, proprio dei soggetti indemoniati, al Cristianesimo e a tutto ciò che vi si riferisce; la pretesa che la Storia sia stata scritta una volta per tutte e che il suo Libro sia stato chiuso quando Roosevelt e Churchill firmarono, a bordo della nave da battaglia «Prince of Wales», il 14 agosto 1941, la cosiddetta “Carta Atlantica”.
E allora bisogna ribadirlo con forza: la politica non è tutto; e, se il mondo continua ad andare avanti, ciò non avviene grazie alla politica, ma, in larga misura, a dispetto di essa.
La politica, intesa nel senso più ampio della parola, che comprende l’economia, è stata responsabile dell’ingresso dell’Africa nel mercato internazionale: col risultato che quel continente, prima quasi autosufficiente sul piano alimentare, è sprofondato nel baratro della carestia e della miseria generalizzata. Ebbene, se gli Africani - così come, del resto, tutte le altre popolazioni del Terzo e Quarto Mondo - non sono ancora morti di fame, dal primo al’ultimo (ciò che ci si dovrebbe aspettare, in base agli indicatori del P. I. L.), ciò è dovuto al fatto che esistono forme di scambio, di solidarismo e di legame parentale che se ne infischiano delle leggi economiche e che non si curano della politica, sia essa di destra, di sinistra o di centro.
La vera arte, la vera filosofia, la vera religione, la vera scienza, la vera socialità non hanno alcuna relazione diretta con il mondo della politica; e, anche se i comportamenti concreti delle persone e se le ricerche di artisti e scienziati hanno, indubbiamente, una ricaduta sul piano politico, nel senso più ampio del termine, non bisogna tuttavia mettere il carro davanti a buoi: perché una cosa sono gli effetti e un’altra sono le cause. Il fatto che un’opera del pensiero o uno stile di vita abbiano delle implicazioni “anche” politiche, infatti, non implica che essi scaturiscano da logiche politiche, né che sia lecito considerarli, tout-court, fattori di natura politica.
Se, poi, dal piano del pensiero e dei comportamenti passiamo a quello dei sentimenti, non tarderemo ad accorgerci che esiste tutta una gamma di essi che non ha proprio nulla a che fare con la sfera del politico, anzi - per dirla con Norberto Bobbio - che si colloca agli antipodi della politica. Infatti, se la spregiudicatezza, l’opportunismo, la dissimulazione, l’astuzia, il calcolo, il cinismo, la vendicatività, l’arroganza, la protervia, la prevaricazione, sono indubbiamente delle qualità che si addicono al politico (anche senza scomodare il Principe di Machiavelli), al contrario la benevolenza, la pacatezza, il pudore, la discrezione, la riservatezza, la fedeltà, la lealtà, la pazienza, la disponibilità e la mitezza sono virtù essenzialmente non politiche.
Non è facile immaginarsi un politico che sia caratterizzato dalla mitezza; mentre è facilissimo immaginarsene uno che sia dominato dall’arroganza, dalla dissimulazione, dalla protervia o dalla prevaricazione.
La mitezza è la qualità umana antipolitica per eccellenza, non perché l’uomo mite rifiuti la politica, ma perché la sua vita ed i suoi valori si collocano su un piano di realtà profondamente diverso da quello ove giace la politica. La persona mite non solo evita la contesa, ma si sforza di comprendere e, se possibile, di perdonare le debolezze altrui, perché sa che esse sono anche le proprie; non giudica, non vuole emergere, non compete con nessuno, non per pusillanimità o per pigrizia, ma perché cerca istintivamente il bene comune, e, in tutte le situazioni, non si preoccupa innanzitutto di se stesso e del proprio interesse, ma di come si possa trovare un armonioso puto di convergenza fra i legittimi desideri e le legittime esigenze di ciascuno.
La sua bontà non è dabbenaggine e non nasce da un ingenuo “buonismo”; sa che la natura umana reca impresso il marchio di Caino; e tuttavia egli preferisce fare leva su un altro aspetto che pure in essa è presente: la tensione verso la perfettibilità, l’aspirazione ad un più elevato piano di esistenza, ove possano emergere le qualità migliori di ciascuno.
Scriveva a questo proposito Norberto Bobbio in «Elogio della mitezza e altri scritti morali» (Milano, Nuove Pratiche Editrice, 1998, p. 39):

«Opposte alla mitezza, come la intendo io sono l’arroganza, la protervia, la prepotenza, che sono virtù o vizi, secondo le diverse interpretazioni, dell’uomo politico. La mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica di tutte le virtù.  In un’accezione forte della parola, in un’accezione machiavellica, o, per essere aggiornati, schimittiana, la mitezza è addirittura l’altra faccia della politica. Proprio per questo (sarà una deformazione professionale) m’interessa in modo particolare. Non si può coltivare la filosofia politica senza cercar di capire quello che c’è al di là della politica, senza addentrarsi, appunto, nella sfera del non politico, senza stabilire i limiti fra il politico e il non-politico. La politica non è tutto. L’idea che tutto sia politica è semplicemente mostruosa. Posso dire di aver scoperto la mitezza nel lungo viaggio di esplorazione oltre la politica.  Nella lotta politica, anche quella democratica, e qui intendo per lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli uomini miti non hanno alcuna parte. I due animali simbolo dell’uomo politico sono - si ricordi il capitolo XVIII del “Principe” - il leone e la volpe. L’agnello, il “mite agnello”, non è un animale politico. semmai è la vittima predestinata, il cui sacrificio serve al potente per placare i demoni della storia. Una massima della sapienza popolare dice: “Chi si fa agnello il lupo se lo mangia”. Anche il lupo è un animale politico: l’”homo homini lupus” di Hobbes nello stato di natura è l’inizio della politica; il “princeps principi lupus” neri rapporti internazionali ne è la continuazione.»

Un uomo mite è un dono del Cielo, è un seme di pace in questa martoriata terra, ove tanto spesso ci si azzuffa come cani intorno a un osso - si tratti di un partner sessuale, di una promozione sul posto di lavoro, di un supposto diritto condominiale da far valere contro tutto e contro tutti; oppure, a un livello diverso, ma solo sul piano quantitativo, del controllo di una fetta di mercato, dell’accesso a determinate materie prime o della disponibilità di forza lavoro sottopagata.
Una persona mite è un coniuge che sopporta con pazienza le intemperanze del marito o della moglie, in vista di un bene più grande dell’orgoglio o della propria gratificazione: la pace e il benessere familiari; è un genitore che segue con discrezione, ma anche con partecipazione, la crescita dei propri figli; è un amico che non pone se stesso al centro di tutto, ma che è sollecito e premuroso verso gli altri; è un collega di lavoro che si mostra disponibile al ben fare e all’interesse generale; è un vicino di casa che non litiga per delle sciocchezze e che cerca di mettersi dal punto di vista altrui; è uno sportivo che non mira a vincere a tutti i costi, magari con mezzi illeciti, né ad oscurare i compagni di squadra per meglio primeggiare; uno studioso che non concepisce il proprio sapere come una forma di potere, ma come un bene da mettere in circuito, nella maniera più disinteressata possibile.
Abbiamo bisogno di uomini e donne miti, non solo perché di loro è il Regno dei Cieli, ma perché la loro benevola presenza è come una boccata di ossigeno nella nostra società competitiva, egoista, indifferente e, a volte, crudele.
Ne abbiamo bisogno, soprattutto, perché essi sono la forza del presente e la fiducia nel futuro: senza la loro mitezza non si potrebbe costruire nulla di durevole, perché tutto ciò che viene edificato sulla base dell’aggressività e della prevaricazione è destinato a durare ben poco, come un castello costruito su delle fondamenta di sabbia.
Ne abbiamo bisogno, infine, perché la mitezza è la vera forza dei singoli e dei popoli. Non sono stati i violenti e i prepotenti a rendere abitabile il mondo in cui viviamo, a lasciarci eredi di tutte le ricchezze spirituali alle quali possiamo abbeverarci, alimentando la parte migliore di noi stessi e trasmettendo fede e speranza alle successive generazioni. Sono stati, al contrario, i miti: con il loro lavoro quotidiano, con la loro abnegazione, con la loro buona volontà, con il loro sorriso e con la loro capacità di perdonare le offese.
In ogni paese ed in ogni città d’Italia e del mondo bisognerebbe innalzare un monumento all’eroe ignoto e silenzioso della storia: l’uomo o la donna mite, tenace ed insostituibile costruttore di bene.