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La Duchessa di Duras, eroina straniera nel suo tempo

di Stenio Solinas - 03/02/2010


Con Claire de Duras, nata nel 1777 a Brest, il destino fu particolarmente perfido. La fece innamorare di un uomo molto bello, ma non particolarmente intelligente, la fece innamorare di un uomo non particolarmente bello, ma troppo intelligente. Non essendo riamata, fu una duplice sconfitta.

Con il primo si sposò, ma per Amedée de Duras, nobile Ancien Régime, il matrimonio non aveva nulla a che fare con l’amore: era un’istituzione sociale e un sistema di interessi teso, grazie alla dote di lei, a mantenere alto il casato di lui, ridotto in miseria dalla Rivoluzione. Le diede due figli, le fu naturalmente infedele, in linea con una tradizione aristocratica che a partire dal monarca aveva spose legali e «mantenute reali»: primo gentiluomo della camera in esilio di Luigi XVIII, come il nonno lo era stato di Luigi XVI, il sovrano ghigliottinato, gli piaceva andare a caccia, detestava quelli che pensavano, non sopportava le scenate e le discussioni. Come dirà un’amica di entrambi: «Lei si comportava come un’eroina da romanzo con il meno romantico dei mariti».

L’essere un’eroina da romanzo era dovuto al fatto che, a differenza del marito, Claire leggeva e mentre Amedée, chiuso nel suo legittimismo, aveva fermato le lancette dell’orologio della storia al 1789, per riavviarle solo nel 1814 - la Restaurazione dei Borbone che si riprendeva ciò che prima la Repubblica e poi Napoleone le avevano tolto - lei di quell’interregno aveva respirato tutto: mode intellettuali, contrasti politici, fermenti umorali e letterari, intrecci culturali. Capiva che l’Ottocento non si sarebbe limitato a essere un Settecento tutt’al più riformato e corretto. Era il Nuovo mondo che seppelliva l’Antico, con la passione, l’irruenza, la cecità e il disprezzo con cui i giovani si sbarazzano dei vecchi. Tutto ciò in letteratura aveva un nome, si chiamava Romanticismo, e in Francia aveva trovato il suo campione: si chiamava Chateaubriand. Ancora come un’«eroina da romanzo», Claire de Duras pensò che ciò che non aveva funzionato con il «meno romantico dei mariti», sarebbe stato perfetto con chi del romanticismo era l’epitome. E così si sbagliò per la seconda volta.
Rispetto a Amedée de Duras, François René de Chateaubriand era fisicamente un niente. Era alto più o meno come Napoleone, e quindi irrimediabilmente basso, e secondo la descrizione della principessa di Lieven «un gobbo senza gobba», per via di una grossa testa e due spalle asimmetriche. Lo stesso Napoleone nel vederne il ritratto fatto da Girodet commentò: «Sembra un cospiratore caduto dal camino». Il pittore ne aveva fissato l’espressione corrucciata e la gran massa di capelli ribelli a qualsiasi pettine, imperiale o meno...

Se esteticamente la natura aveva giocato al risparmio, era stata però prodiga su altre cose: una fantasia fervida, una vita avventurosa, intessuta di viaggi - gli Stati Uniti, l’Europa, il Medio Oriente - un’erudizione prodigiosa, uno stile di scrittura folgorante nel suo impasto di classicità e modernità, una felice vena di polemista unita a passione e intelligenza politica. Tutto ciò, stipato in un carattere orgoglioso, malinconico, in cui il tedium vitae e l’ossessione della morte si univano a un attivismo frenetico, dava alla sua figura i tratti seducenti dell’irrequietezza, dell’anormalità, ovvero dell’impossibilità a misurarlo, della genialità. L’Enchanteur, l’avrebbero definito, l’«Incantatore». Di cervelli maschili, ma soprattutto di cuori femminili.

Nemmeno Claire de Duras era bella. Nell’imponente saggio, esemplare concentrato della Francia del tempo, che affianca Ourika (Adelphi, pagg. 170, euro 13), il romanzo breve che aureolò la Duras di fama letteraria, Benedetta Craveri cerca un compromesso che sa di solidarietà fra persone dello stesso sesso: «Fu certamente graziosa. I suoi due ritratti canonici ci mostrano un viso piuttosto grazioso, dai tratti regolari e dai grandi occhi neri». Ma di là da un certo vittimismo autodenigratorio della diretta interessata, una frase di quest’ultima coglie bene il punto del contendere: «Una donna che non sia mai stata carina non è mai stata giovane». La bellezza non è democratica e il sesso femminile ha sempre saputo che è lì il proprio spartiacque: effimero, certo, e anche crudele, ma reale.

Del resto, l’essere «graziosa» non avrebbe potuto alcunché. Al tempo in cui Claire si innamorò di René, questi era l’amante di Natalie de Noailles, allora tanto bella quanto poi sarebbe divenuta pazza. E quando cercò di farsi andare bene il ruolo di «sorella» che l’Incantatore aveva ritagliato solo per lei, l’amante in carica era Juliette Récamier, la donna che faceva girare la testa a tutta la Francia maschile, l’allumeuse per eccellenza. Ma si era bruciata solo per lui.

Non potendo giocare la carta della bellezza, Claire de Duras dovette utilizzare comunque con parsimonia quella dell’intelligenza. Ha scritto Jean d’Ormesson che «come la gran parte degli scrittori, anche quando si rifiutano di ammetterlo, Chateaubriand diffidava delle donne troppo intelligenti, vedendo forse in loro delle rivali in potenza o delle creature più in grado delle altre di resistere alla sua seduzione». Al consiglio della già ricordata principessa di Lieven, che gli suggeriva di sfuggire la noia frequentando quelle come lei, dotate cioè di cervello, l’«Incantatore» aveva risposto: «Ah! Signora, non amo le donne intelligenti». «Preferite le stupide?». «Di gran lunga».
La chiave di volta del complicato rapporto fra Claire e René ce la dà forse il secondo, ma è al maschile e va dunque maneggiata con cautela. «Un uomo vi protegge per ciò che vale lui, una donna per ciò che valete voi: ecco perché di queste due dominazioni, l’una è così odiosa, l’altra così dolce». Nel farsi la confidente, l’amica e la «sorella» per eccellenza, Claire si votò a René con una dedizione intransigente quanto assoluta, che appagava l’egoismo e il narcisimo dell’oggetto amato e forniva legna da ardere per il fuoco del soggetto represso. Era eroica, Claire, irreprensibile nei comportamenti e nelle macchinazioni a favore del «fratello», ma era anche tragicamente incompiuta.

Dice giustamente Benedetta Craveri che Ourika ha diversi livelli di lettura, il che giustifica il suo essere sopravvissuto al proprio tempo. Quello più evidente racconta di una bambina senegalese, destinata a essere schiava e salvata da una famiglia della nobiltà francese: è in tutto e per tutto simile ai suoi coetanei, ma è negra e quando se ne rende conto suo malgrado, si illude, eliminando specchi e coprendosi di veli, di «non essere vista». Purtroppo per lei, «ha infranto l’ordine della natura, non ha adempiuto al suo destino: si è inserita nella società senza il suo permesso; la società si vendicherà».
Sotto questo aspetto, Ourika sarebbe la storia di un outsider, l’eterno straniero e l’eterno paria di un sistema sociale, ma quando, a metà degli anni Venti dell’Ottocento, Claire de Duras lo scrive, ciò che a lei interessa non è l’ipotetica quanto irrealistica difesa di un’eguaglianza fra le razze, ma l’analisi di una patologia dell’amore che l’ha fino ad allora accompagnata. Ourika è cresciuta nel culto dell’affetto di Charles, un fratello di fatto, anche se non di nascita. Pensa si tratti solo di questo, di un sentimento fraterno, appunto, ma come tutte le persone dotate di un carattere naturale in un ambiente artificiale, oscilla fra l’uniformarsi a esso e il voler sapere di più quanto a se stessa. «Esaminare il proprio cuore per scoprirne quello che bisognerebbe sopprimere senza averne la forza, è cosa più pericolosa che utile». Questo impasse è ciò che alla fine la condanna, nella stessa misura in cui l’aveva resa viva: «La mia amicizia era per lui come la sua vita; egli ne godeva senza essere consapevole; non mi chiedeva mai né interesse né attenzione; sapeva bene che parlandomi di sé mi parlava di me e che ero più “lui” di quanto lo fosse lui stesso: ah, l’incanto di una simile intimità, che può sostituire ogni altra cosa, persino la felicità».

Ourika era Madame de Duras, bianca di pelle, nobile di nascita, eppure «negra» per chi, come Chateaubriand non aveva mai pensato di poterla amare.