Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le tre società della crescita

Le tre società della crescita

di Eugenio Orso - 08/02/2010

Fonte: pauperclass


Continua la presentazione dei capitoli della mia parte [Alienazioni e uomo precario] di un futuro libro, scritto a due mani con il filosofo Costanzo Preve.

Oggi pubblico la prima parte del quarto capitolo, che riguarda i lineamenti principali di quelle che io chiamo le tre società della crescita: la società postfeudale e precapitalistica caratterizzata dal superamento dell'Evo Medio, della sua dimensione culturale, e dall'affermazione delle pratiche e delle politiche mercantilistiche, la società caratterizzata dal modo di produzione capitalistico del secondo millennio e la nuova società che si è delineata, nel periodo di transizione che abbiamo alle spalle, 1989/1990 - 2009, in cui l'ordine sociale precedente e i rapporti [sociali] di produzione hanno subito rilevanti modificazioni.

Inzio con la prima società della crescita postfeudale e precapitalista.  

 

La svalutazione del Lavoro non avviene soltanto nel processo produttivo e nei rapporti di produzione, ma raddoppiata nei nuovi contesti ideologici, e parimenti la precarietà – che contiene in sé la flessibilità occupazionale e delle prestazioni, ma da queste non è esaurita – estende i suoi confini ben oltre la dimensione lavorativa.

Ecco apparire all’orizzonte della storia l’uomo precario, un nuovo tipo biopsichico adattabile a contesti sociali e culturali ai quali né gli operai d’altra epoca, animati dalla coscienza di classe e legati da vincoli di tipo comunitario, né i borghesi classici, provvisti di una loro etica e legati alle comunità d’origine, e neppure i membri dei ceti medi postbellici, figli della breve stagione del Welfare e delle aspettative crescenti, potrebbero aderire così bene.

Le forme di estraniazione direttamente legate al capitalismo contemporaneo descritte nel capitolo precedente – Neoschiavismo precario e Meta-alienazione – hanno una parte rilevante nella genesi di questo tipo umano, destinato a convivere in futuro con le logiche e le dinamiche di un nuovo modo di produzione sociale.

Le “vecchie” forme di alienazione – Schiavismo classico precapitalistico, Alienazione marxiana e forme simili –, pur manifestandosi nel tempo presente con grandi numeri e spesso convivendo con le nuove, sono destinate a sfociare nell’esclusione di massa, o pian piano ad esaurirsi, trasformandosi in qualcosa di inedito.

Non posso certo prevedere, come tutti gli altri del resto, quel che sarà fra venti, trenta o quaranta anni, ma pur con grande sforzo e non senza incertezze, credo di essere riuscito a fare un po’ di ordine in una materia controversa e delicata.

Personalmente, sono convinto che le questioni dell’alienazione e dello sfruttamento dell’uomo siano di centrale importanza, nello studio del capitalismo “transegenetico” che ha assunto lo stato liquido/ finanziario, come lo sono state nell’ottocento per Marx in relazione al primo capitalismo borghese, e sono altresì certo che non si tratta di esercizi inutili, di ozioso moralismo o addirittura di concessioni alla metafisica.

Le trasformazioni culturali e nei rapporti sociali e di produzione, che interessano questo periodo di passaggio da un modo di produzione all’altro, sono rilevanti e traumatiche.

Il cambiamento è ancora in pieno corso e probabilmente, a meno di eventi imprevisti di grande portata [guerre convenzionali su vasta scala, guerre non convenzionali, nucleari, con pesanti fall-out in vaste aree del pianeta, disastri ambientali “cataclismici”, estese rivolte delle popolazioni e frantumazione degli stati], continuerà nell’arco dei prossimi due o tre decenni, prima che la metamorfosi della crisalide capitalistica si compia.

Ma c’è un processo storico che ha portato alla situazione di profondo cambiamento, culturale e sociale, che oggi stiamo vivendo, e che non può essere trascurato.

Un processo di trasformazione storica che ha interessato la cultura, la religione, l’ideologia, l’ordine sociale, le attività economiche, la distribuzione della ricchezza, le strutture di potere politico, i rapporti di forza fra le diverse aree del mondo, fino ad arrivare ai giorni nostri, e che ha causato guerre, devastazioni, sfruttamento generalizzato, e centinaia di milioni di morti, oltre che un prodigioso avanzamento tecnico-scientifico, un “miglioramento delle condizioni di vita”, ma non certo accessibile a tutti, con velocità mai raggiunte prima nella storia umana.

Per completezza di analisi, quindi, di seguito presento un breve excursus riguardante quelle che io chiamo le tre società della crescita.

 

 

**** ****

 

La prima società della crescita fu indubbiamente suscitata dalle grandi scoperte geografiche –  le Americhe, l’esplorazione del Pacifico, la circumnavigazione del globo, Colombo, Magellano e Pigafetta –, in cui covavano già i germi della mondializzazione economica, dalle riforme che investirono gli stati, dal mercantilismo come rottura definitiva degli angusti spazi dell’economia medioevale, e ne costituiscono altrettante prove l’atto di navigazione anti-olandese di quel Cromwell, espressione della gentry puritana, che giustiziò Carlo I, le politiche, le riforme finanziarie e dell’amministrazione dello stato di Colbert, ministro di Luigi XIV e creatore delle regie manifatture, la lotta contro le barriere doganali interne ma nel contempo il protezionismo come arma di difesa nei confronti dei concorrenti esteri, la formazione dei mercati nella dimensione nazionale e le premesse per un loro ulteriore allargamento, eccetera.

Quel mondo era caratterizzato dalla presenza dei residui tardosignorili che convivevano con la protoborghesia e il popolo calati in ordine sociale nuovo, rispetto al precedente che aveva connotato le dinamiche sociali dell’Evo Medio.

Era una società che si distingueva dalle altre per peculiari dinamiche di produzione e concezione della ricchezza, di gestione del potere e dei rapporti sociali, di protezione delle produzioni nazionali, nonché per le nuove relazioni internazionali stabilite fra le entità statuali, e nel contempo per un cambiamento culturale che ha archiviato la metafisica medioevale ed ha generato l’illuminismo, tanto da poter essere considerata l’espressione di un’”etica della modernità europea” che subentrava all’”etica gerarchica del modo di produzione feudale”, con le parole di Costanzo Preve[1]

Non poteva dunque trattarsi che di una società diversa ed autonoma, rispetto a quelle precedenti ed anche a quella successiva, contraddistinta, questa ultima, dall’affermazione del modo di produzione capitalistico vero e proprio.

Di fondamentale importanza è stato il diffondersi di una nuova concezione della ricchezza, legata agli scambi mercantili e alla bilancia commerciale, più articolata e dinamica della precedente concezione [protomercantilista], definita bullionista – dall’inglese bullion, o creisoedonismo – e decisamente statica, perché identificava la ricchezza, nonché la stessa potenza dello stato, nel semplice stock di metalli e monete preziose possedute.

Un paradigma che caratterizzava il modo di produzione di allora era strettamente collegato alla bilancia commerciale dei paesi, e riguardava direttamente i volumi delle esportazioni, che dovevano essere superiori a quelli delle importazioni, in un quadro di regole, norme e dazi non certo favorevole ad un mercato “libero” di grandi dimensioni, come quello attuale e come oggi si intende, essendo l’economia subordinata all’interesse dello stato, spesso identificabile con la monarchia assoluta, con gli “interessi della corona”.

La barriere doganali e le politiche protezionistiche che connotavano il mercantilismo, erano giustificate dalla necessità della difesa delle produzioni nazionali e dal mantenimento del controllo su stock e bacini di materie prime necessari per tali produzioni, e quindi fioccavano i dazi sulle importazioni di prodotti esteri e si frapponevano forti ostacoli o si impediva, fino al divieto, l’esportazione delle materie prime.

Anzi, le produzioni nazionali protette dovevano essere estese e nuovi bacini di materie, metalli preziosi, braccia per il lavoro acquisiti attraverso l’intervento diretto dello stato, e del sovrano, che promuoveva le conquiste coloniali.

Pur essendo ancora prevalente all’epoca il settore primario e sopravvivendo concretamente situazioni di servitù medioevali, si comprende il perché questa sia correttamente definibile [la prima] società della crescita, caratterizzata com’era da uno “sviluppiamo” di natura mercantile, da un certo allargamento dei mercati, dallo sfruttamento crescente delle risorse naturali e degli umani, con la crescita però misurata dai saldi attivi della bilancia commerciale piuttosto che dal più complesso, artefatto e totemico PIL, come accade ai giorni nostri, fino all’estrema sintesi globalizzante del PIL mondiale.

Nel quadro d’insieme brevemente abbozzato, un ruolo non secondario potevano giocare i mercanti, oltre ai banchieri, i quali, ad un certo punto, non dovettero più temere le “censure” medioevali, quali e in primo luogo la condanna dell’usura, collegata ai prestiti di denaro, o più in generale della stessa creazione di valore non dovuta all’intervento del lavoro umano, e si trovarono a poter esercitare la moderna crematistica senza  dover fare i conti con i limiti imposti da una ferrea morale.

E’ fuori discussione che la rimozione progressiva della condanna dell’usura, iniziata già nell’Evo Medio con la scolastica, ha consentito l’affermarsi di forme più “avanzate” di crematistica – fare soldi con i prestiti di denaro e con la pura intermediazione, senza che il lavoro umano intervenga in un processo di trasformazione della materia[2] – ben rappresentate dal commercio su vasta scala e alle lunghe distanze e dallo sviluppo della dimensione finanziaria, allontanando per sempre le comunità umane, quanto meno e in prima battuta in Europa e nell’occidente del mondo, da quella che per gli antichi greci era l’economia propriamente detta, identificata con la buona ammistrazione della casa e dello stato, ed ha favorito la progressiva affermazione del concetto di Mercato, che oggi è sempre di più un totem, da adorare senza riserve e senza critiche, e perciò anche un inviolabile tabù.

Oggi si tende ad identificare la “sopravvivenza oltre la morte” del mercantilismo con forme tradizionali di protezionismo, per la verità sempre più rare negli spazi quasi completamente globalizzati, ma uno dei punti più alti della “foga” protezionistica si toccò probabilmente nell’Inghilterra del 1651, quando il già citato Atto di navigazione di Cromwell, rivolto in particolare contro il competitore olandese, vietò le importazioni di merci non trasportate da navi inglesi con equipaggi non inglesi, o comunque non appartenenti a compagnie inglesi.

Va precisato, infine, che l’”alleanza” fra mercanti e sovrano per accrescere la potenza dello stato mise in ombra il settore dell’agricoltura e l’intero mondo rurale tradizionale, ancora maggioritario, e la reazione fu affidata alla fisiocrazia “naturalistica” che oltre a rivalutare la funzione del settore primario, rivelava chiari lineamenti liberisti, nella critica delle politiche protezionistiche in atto che connotavano, in particolare, il mercantilismo francese.

Come cultori del diritto naturale, il Quesnay del Tableau économique, De Gournay che ha coniato il celebre motto adottato poi dai veri liberisti, “laissez faire, laissez passer”, i fisiocrati tutti si rifacevano alle leggi di natura ed erano convinti che tali armonie in atto, lasciate libere di esplicarsi, avrebbero spontaneamente generato una società prospera, opponendo alle pratiche mercantilistiche, artificiose e “innaturali”, il libero scambio e limitando così l’interventismo statale, in una sorta di anticipazione di quello che sarebbe stato, in epoche successive, il confronto o comunque il rapporto difficile e altalenante lo Stato e il Mercato, fra quella che era almeno una parvenza di interesse collettivo e l’interesse privato[3].

Vincent De Gournay, in particolare, fu l’esponente di questa scuola più vicino ai futuri liberisti, per la sua attenzione nei confronti di manifatture e commerci, nelle quali si concentrava il lavoro definito “sterile” e non direttamente produttivo come quello agricolo, ma soprattutto per aver coniato il celebre motto “laissez-faire, laissez passer”, fatto proprio, in seguito, dai liberisti delle generazioni successive [fino ai nostri giorni] e simbolicamente all’origine delle più sofisticate ed avanzate forme di crematistica – finanza creativa e senza regole, creazione del valore azionario-borsistico, rischiosi e fumosi prodotti su mercati “over the counter”, eccetera – la cui azione devastatrice oggi scontiamo ampiamente.

In questo ordine sociale, e in tale contesto economico, ha avuto inizio e si è sviluppata l’accumulazione originaria indispensabile per l’avvio delle dinamiche propriamente dette capitalistiche, ed il primo colonialismo, che ha fatto seguito alle grandi scoperte geografiche, la coesistenza di economie di matrice propriamente e classicamente schiavistica con i sistemi economici europei di allora, le fortune cumulate dai mercanti, sotto l’egida della corona, hanno indubbiamente contribuito ad un simile risultato.

La prima società della crescita fu un preludio plurisecolare indispensabile per l’ingresso definitivo nel nostro mondo, mentre la società dell’Evo Medio feudale rappresentò un lungo, lunghissimo congedo dalla civiltà del mondo antico.   

I Cristoforo Colombo, i Ferdinando Magellano, i Jean-Baptiste Colbert ed anche i più bellicosi Oliver Cromwell sono stati gli agenti, non sempre pienamente consapevoli nel loro ruolo, di questa storica trasformazione.

La recinzione delle terre comuni, iniziata nel mille e duecento e proseguita fino al mille e settecento, ingrossò progressivamente le file degli eserciti di forza lavoro “coscritta” che avrebbero alimentato, in seguito, le prime produzioni capitalistiche di beni di consumo.

Ma fu durante la seconda metà del diciottesimo secolo che i tempi si rivelarono maturi, in primo luogo nelle isole britanniche, per il passaggio non certo indolore avvenuto nel corso dei decenni successivi, dal mercantilismo al capitalismo, da una classe dominate tardosignorile e protoborghese alla borghesia che acquisiva consapevolezza della propria forza e raggiungeva l’autocoscienza, dalla manifattura alla fabbrica, dalle produzioni reali di arazzi e oggetti di lusso di Colbert alle moderne spillerie eredi di quella smithiana, dall’agricoltura e dall’artigianato tradizionali all’industria, dal popolo al proletariato, da Cristoforo Colombo a David Livingstone, da Jean-Baptiste Colbert a Jean-Baptiste Say, da Oliver Cromwell a Benjamin Disraeli.

In seguito, assieme all’affermazione progressiva dell’economicismo di Hume [alle origini dell’auto-fondazione dell’economia su sé stessa, come ci ricorda Costanzo Preve], delle teorizzazioni degli economisti classici Ricardo, Say e Malthus, dopo Smith –  che sistematizzavano una teoria del valore funzionale alle nuove dinamiche [David Ricardo] e negavano la possibilità della sovrapproduzione [Jean-Baptiste Say] in vista di uno sviluppo senza fine –, si manifestò in piena luce la classe dominante dei “tempi nuovi”, la Borghesia, provvista di una propria etica e capace, altresì, di una coscienza infelice e di una critica radicale nei confronti del capitalismo, della classe dominante, del suo stesso mondo culturale, come è avvenuto nel caso di Marx.

 

 

--------------------------------------------------------------------------------

[1] Costanzo Preve, Storia dell’etica, Petit Plaisance, Pistoia, febbraio 2007

[2] E’ noto che la condanna cristiana dell’usura riporta al pensiero aristotelico ed in particolare all’Aristotele dell’Etica Nicomachea.

[3] L’altro rilevante aspetto delle concezioni fiosiocratiche era che soltanto l’agricoltura poteva produrre vera ricchezza ed era la base dell’attività economica, ponendo così in ombra i commerci e le manifatture.

Nell’opera più significativa, il Tableau économique di François Quesnay, infatti, le dinamiche economiche avvengono in una struttura circolare che riporta al tempo ciclico, caratteristico del ciclo agrario, data la centralità delle produzioni agricole [e dell’allevamento] per la fisiocrazia, e non certo ad una concezione lineare del tempo caratteristica, questa ultima, del capitalismo propriamente detto.