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Krugman e la crisi americana

di Mauro Tozzato - 09/02/2010

Il premio Nobel Paul Krugman nega che il deficit del bilancio federale Usa possa <<risultare pernicioso per la stabilità economica americana>>. Così si esprime l’economista in un articolo per il New York Times e pubblicato in italiano sul Sole 24ore di oggi (07.02.2010). In effetti Krugman si dimostra “fiducioso”:

<<le obbligazioni del governo statunitense continuano a trovare acquirenti disponibili, perfino a tassi di interesse bassi come non mai[…]. Esaminiamo un momento la realtà del bilancio: contrariamente a ciò che avrete sentito affermare spesso, l’enorme deficit che ha attualmente il governo federale non è l’esito di una crescita incontrollata delle spese. Al contrario: oltre la metà di esso è dovuta alla crisi economica in corso , che ha provocato un drastico calo degli introiti fiscali, ha imposto il salvataggio in extremis da parte dei governi federali  delle istituzioni finanziarie, ed è stata tamponata – come era opportuno fare – da provvedimenti temporanei per stimolare la crescita e sostenere l’occupazione.>>

Krugman sembra non temere molto le ultime rilevazioni che danno in calo gli investimenti cinesi in titoli di stato Usa, ma soprattutto non pone nemmeno la questione della possibile spirale inflazionistica che potrebbe conseguire al crollo della domanda dei bond statunitensi. Non può negare però le difficoltà prevedibili soprattutto nel “lungo termine”:

<< È vero: c'è un problema di budget a lungo termine. Nemmeno una piena ripresa economica potrebbe rimettere in pari il bilancio, e probabilmente non riuscirebbe neanche a ridurre il deficit portandolo a un livello sostenibile a tempo indeterminato. Pertanto, una volta passata la crisi economica, il governo degli Stati Uniti dovrà necessariamente aumentare i propri introiti e tenere sotto controllo le proprie spese. Sul lungo periodo, non ci sarà altro modo di far quadrare i conti che facendo qualcosa di concreto per le spese dell'assistenza sanitaria.>>

Alla fine Krugman conclude addebitando l’allarmismo che si è venuto a creare alla campagna politica che, a suo parere, i repubblicani hanno lanciato contro Obama; secondo l'amministrazione Obama i pagamenti degli interessi sul debito federale, entro dieci anni, arriveranno al 3,5% del prodotto interno lordo e l’economista così commenta questo dato:

<< Vi spaventa questo dato? Ebbene, è la medesima percentuale delle spese sugli interessi del primo mandato alla presidenza di Bush.[…] Perché allora tutta questa isteria? Per ragioni politiche. La differenza principale tra l'estate scorsa - quando avevamo dei deficit e in buona parte (e come è necessario) non battevamo ciglio - e l'attuale sensazione dilagante di panico è che diffondere cupe previsioni sul deficit è ormai un fattore cruciale della strategia politica repubblicana, che serve un duplice scopo: nuoce all'immagine del presidente Obama e al contempo danneggia la sua agenda politica.>>

In effetti il democratico e “keynesiano” Krugman considera prioritaria, certamente con buone ragioni, la lotta alla disoccupazione di massa negli Stati Uniti e in questo, almeno nelle dichiarazioni d’intenti, l’attuale amministrazione sembrerebbe volersi impegnare seriamente come riportato da una nota d’agenzia del 01.02.2010:

<<Il presidente Usa, Barack Obama, presenterà oggi una finanziaria da 3.800 miliardi di dollari che prevede, come aveva annunciato Obama nel discorso sullo Stato dell'Unione, tagli e congelamenti dalle spese, aumenti di tasse per le banche e per i redditi superiori ai 250mila dollari, con l'obiettivo di cercare di almeno bloccare la crescita irrefrenabile del deficit federale. Il congelamento per i prossimi tre anni delle spese pubbliche non collegate alla sicurezza, e all'emergenza lavoro per la quale Obama promette di spendere immediatamente 100 miliardi di dollari nel tentativo di far scendere al più presto il tasso di disoccupazione sotto la soglia psicologica del 10%, investirà i programmi ambientali e per l'Energia.>>

Lo stesso segretario Usa al Tesoro, Timothy Geithner (fonte Rueters):

<< chiede ai repubblicani di aderire ad uno sforzo bipartisan per tagliare il deficit Usa e accusa la precedente amministrazione Bush di aver largamente contribuito a formare il disavanzo. “Quando il presidente Obama si e’ insediato - si legge nel discorso preparato per l’audizione al Senato - il deficit di bilancio era a 1.300 miliardi di dollari, pari al 9,2% del Pil e le proiezioni per i prossimi 10 anni lo davano a 8.000 miliardi di dollari”. “Questi alti deficit - spiega il ministro - sono il risultato delle decisioni della precedente amministrazione di introdurre larghi tagli delle tasse e una legge sui farmaci prescritti”>>.

In realtà, il calo di popolarità di Obama ha messo in ulteriore  evidenza le ambiguità della politica dell’attuale amministrazione: dopo aver salvato i colossi bancari e finanziari senza preoccuparsi di controllare come venissero gestiti i molti milioni di dollari spesi ora si ricomincia a parlare di nuove regole per banche e mercati finanziari oltre che di restituzione di bonus astronomici incamerati dai grandi manager come premio dei loro “fallimenti”. Inoltre la politica estera Usa - che La Grassa aveva definito “politica del serpente” - si è rivelata debole e insoddisfacente anche per l’elettorato democratico e probabilmente stiamo già ora assistendo a una prima svolta, almeno nei confronti della Cina. Adesso qualcuno parla, anche, di “populismo” obamiano cioè del tentativo del presidente di recuperare consensi elettorali in quegli strati di popolazione a reddito medio-basso che hanno contribuito alla sua elezione e che si trovano disoccupati o in difficili condizioni. E certamente il blocco di potere che ha portato Obama alla presidenza farà il possibile per contrastare i gruppi economico-politici di matrice repubblicana anche rilanciando, almeno a livello propagandistico, parziali elementi del cosiddetto neokeynesismo sociale.