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Gli Usa in Iraq: ritorno sulla scena del crimine

di Noam Chomsky - 21/04/2006


Crimini di guerra e atrocità in Iraq dall'inzio dell'occupazione straniera: un brano adattato dal secondo capitolo del nuovo libro di Noam Chomsky, "Failed States: The Abuse of Power and the Assault on Democracy" (Metropolitan Books, 2006)

Nel 2002, Alberto Gonzales, consulente legale della Casa Bianca, ha passato a Bush un memorandum sulla tortura, sottoscritto dall’Ufficio di consulenza legale del Dipartimento di Giustizia Usa (‘Office of Legal Counsel’ – OLC). Sanford Levinson, professore di Diritto costituzionale, ha commentato: "Secondo l’OLC, ‘le azioni devono essere di natura estrema per essere considerate al pari della tortura… Il dolore fisico associato alla tortura deve equivalere, in termini di intensità, al dolore che accompagna gravi lesioni fisiche, come per esempio danni organici, menomazioni fisiche rilevanti o persino la morte'". Levinson ha proseguito dichiarando che secondo Jay Bybee, l’allora direttore dell’OLC, "infliggere dolori meno intensi rispetto a quelli estremi appena descritti, non sarebbe da considerarsi, tecnicamente parlando, tortura. Si tratterebbe semplicemente di un trattamento disumano e degradante, un tema che apparentemente non preoccupa più di tanto gli avvocati dell’amministrazione Bush".

Gonzales ha inoltre consigliato al presidente Bush di uscire dalla Convenzione di Ginevra, che, nonostante rappresenti "la legge suprema della terra" e il fondamento del moderno diritto umanitario internazionale, conterrebbe clausole che agli occhi di Gonzales appaiono "bizzarre" e "obsolete". Abbandonare la Convenzione, ha fatto sapere a Bush, "riduce notevolmente la minaccia di essere perseguiti penalmente in base al War Crimes Act (la legge sui crimini di guerra)". Entrata in vigore nel 1996, la legge prevede punizioni severe per coloro che commettono "gravi violazioni" della Convenzione: la pena di morte è prevista per violazioni che provocano “la morte della vittima". Gonzales è stato in seguito nominato procuratore generale e avrebbe anche ricevuto la nomina per la Corte Suprema se gli elettori di Bush non lo avessero considerato "troppo liberale".


Come distruggere una città con lo scopo di salvarla

La consulenza legale di Gonzales al fine di proteggere Bush da eventuali accuse ai sensi del War Crimes Act è stata legittimata non molto tempo dopo essere stata impiegata in un caso molto più grave rispetto persino agli scandali delle torture. Nel novembre 2004, le forze di occupazione statunitensi lanciarono il secondo grande attacco alla città di Falluja. La stampa riportò subito i principali crimini di guerra, con il benestare generale. L’attacco era iniziato con una campagna di bombardamenti finalizzati a cacciare l’intera popolazione locale, fatta eccezione per gli abitanti di sesso maschile: gli uomini di età compresa tra i quindici e i quarantacinque anni che avevano tentato di abbandonare Falluja vennero fatti tornare indietro. I piani ricordavano lo stadio preliminare del massacro di Srebrenica, sebbene gli aggressori serbi portarono donne e bambini fuori dalla città coi camion anziché bombardare le loro case. Mentre il bombardamento preliminare stava per iniziare, la giornalista irachena Nermeen al-Mufti lavorava come corrispondente dalla "città dei minareti [che] un tempo echeggiava l’Eufrate nella sua bellezza e tranquillità [con le sue] acque copiose e la lussureggiante vegetazione… un luogo di villeggiatura estivo per gli iracheni [dove le persone si recavano] per trascorrere il proprio tempo libero, per una nuotata nel vicino lago Habbaniya o per un pasto a base di kebab". La reporter ha descritto il destino delle vittime di questi bombardamenti, nei quali qualche volta intere famiglie – comprese donne gravide e neonati, senza possibilità di fuga – sono state uccise perché gli assalitori avevano isolato la città, chiudendo le strade d’uscita.

Al-Mufti ha chiesto agli abitanti in merito al coinvolgimento di truppe straniere a Falluja. Un uomo ha dichiarato di “aver sentito che c’erano combattenti arabi in città, ma non ne vide mai uno”. In seguito venne a sapere che avevano lasciato la città. "A prescindere dalle ragioni di quei combattenti, essi hanno fornito un pretesto per distruggere la città", ha continuato, ed "è nostro diritto opporre resistenza". Un altro uomo ha affermato che "alcuni fratelli arabi erano tra di noi, ma quando i bombardamenti hanno cominciato ad intensificarsi, abbiamo chiesto loro di andarsene, e così hanno fatto" e ha posto una domanda personale: "Perché l’America si è arrogata il diritto di chiedere aiuto agli eserciti di Gran Bretagna, Australia ed altri paesi, mentre noi non abbiamo lo stesso diritto?"


Sarebbe interessante chiedere quanto spesso tale quesito sia stato posto nelle telecronache e nei giornali occidentali. Oppure con quale frequenza una domanda del genere sia stata formulata dalla stampa sovietica negli anni ottanta del secolo scorso riguardo l’Afghanistan. Con quale frequenza un termine come "combattenti stranieri" è stato utilizzato per riferirsi agli eserciti invasori? Quanto spesso è capitato che la stampa evitasse di chiedersi chi fossero quei “nostri” che stavano andando bene, e quali fossero le prospettive per il "nostro successo"? È a malapena necessario indagare per rispondere a questa domanda. Le premesse sono ben fondate. Persino dubitarne sarebbe impensabile, costituirebbe la prova di "supporto al terrore" o "addossare la colpa di tutti i problemi del mondo al paradigma America/Russia" o a qualche altro ritornello familiare.

Dopo diverse settimane di bombardamenti, gli Stati Uniti iniziarono l’attacco di terra a Falluja, inauguratosi con la conquista dell’ospedale generale di Falluja (Falluja General Hospital). Un articolo di prima pagina del New York Times riportava: "I pazienti e il personale ospedaliero sono stati cacciati dalle corsie dai soldati armati e sono stati costretti a sedersi o sdraiarsi sul pavimento, mentre le truppe legavano loro le mani dietro la schiena". Una fotografia che ritraeva la scena accompagnava l’articolo, e la vicenda veniva presentata come una conquista meritevole. "L’offensiva ha anche provveduto a chiudere ciò che gli ufficiali hanno definito un’arma di propaganda per i ribelli: l’ospedale generale di Falluja, con i suoi continui racconti sulle vittime civili".

Chiaramente, uno strumento di propaganda del genere è considerato un obiettivo legittimo, soprattutto dopo che "le cifre gonfiate di vittime civili" – ‘gonfiate’ è il termine usato dagli ufficiali Usa – "hanno infiammato l’opinione pubblica in tutto il paese, facendo aumentare i costi politici del conflitto". Il termine "conflitto" è un eufemismo comune per indicare l’aggressione statunitense – come quando leggiamo, sulle stesse pagine, che "ora gli americani si stanno precipitando dagli ingegneri e tecnici vari chiedendo chi inizierà a ricostruire quello che il conflitto ha appena distrutto": solo "il conflitto", senza nessun responsabile, come si stesse parlando di un uragano.

Di alcuni rilevanti documenti nulla si è saputo, forse perché considerati anch’essi bizzarri e obsoleti: per esempio, la clausola della Convenzione di Ginevra che afferma che "strutture fisse e unità mediche mobili del servizio sanitario non possono in nessuna circostanza essere attaccate, bensì rispettate e protette in ogni momento dalle parti in conflitto". Pertanto, la prima pagina del quotidiano più autorevole del mondo stava serenamente raffigurando dei crimini di guerra per i quali la leadership politica potrebbe essere condannata a gravi sanzioni in base alla stessa legge americana, persino alla pena di morte se i pazienti strappati dai propri letti e ammanettati al pavimento fossero morti come conseguenza di tali azioni.

Queste questioni non sono state degne né un’indagine né una seria riflessione. Le stesse fonti mainstream ci hanno raccontato che le forze armate statunitensi "hanno raggiunto quasi tutti i propri obiettivi, persino ben prima del previsto", lasciando "quasi tutta la città sommersa da rovine fumanti". Tuttavia, non si è trattato di un completo successo. Sono state trovate poche prove di "topi mercanti" morti nelle loro "tane" o nelle strade – che restano, quindi, "un mistero imperituro". L’esercito Usa ha scoperto "il cadavere di una donna su una strada di Falluja, ma non era chiaro se fosse un’irachena o una straniera" – evidentemente l’unica domanda cruciale che ci si pone.

Un altro articolo di prima pagina riporta le dichiarazioni di un anziano comandante della Marina, secondo il quale l’attacco a Falluja "merita di essere annotato sui libri di storia". Forse dovrebbe. Se così fosse, sappiamo in quale pagina della storia troverebbe il proprio posto. Magari Falluja apparirà proprio di fianco a Grozny [la capitale della Cecenia distrutta], una città all’incirca delle stesse dimensioni, con una bella immagine di Bush e Putin che si guardano l’un l’altro dentro le rispettive anime. Coloro che elogiano o quantomeno tollerano tutto questo possono scegliere le proprie pagine di storia preferite.


Un paese letteralmente bruciato

I resoconti dell’assalto forniti dai media non sono stati coerenti. Al-Jazeera, il network televisivo più importante del mondo arabo, di sede nel Qatar, è stato aspramente criticato da alti ufficiali statunitensi per aver "enfatizzato le perdite civili" nel corso della distruzione di Falluja. In seguito, il problema dei media indipendenti è stato risolto nel momento in cui l’emittente televisiva è stata cacciata dall’Iraq, in preparazione delle libere elezioni.

Scrutando all’interno della corrente dei media Usa mainstream, scopriamo anche che "il Dr. Sami al-Jumaili ha descritto in che modo i caccia Usa hanno bombardato il Centro Sanitario Centrale nel quale egli stava lavorando", uccidendo trentacinque pazienti e ventiquattro operatori sanitari.

Il suo rapporto è stato confermato da un cronista iracheno della Reuters e della BBC, e dal Dr. Eiman al-Ani dell’ospedale generale di Falluja, il quale ha dichiarato che l’intera struttura sanitaria, da lui raggiunta poco dopo l’attacco, era letteralmente crollato sui pazienti.

Le forze d’attacco hanno definito il rapporto "infondato". In un’altra madornale violazione del diritto umanitario internazionale, e persino della minima decenza, le forze militari statunitensi hanno negato l’accesso a Falluja alla Mezzaluna Rossa Irachena. Nigel Young, direttore generale della Croce Rossa inglese, ha condannato l’azione definendola "estremamente indicativa". Tale atto costituisce "un pericoloso precedente" e ha affermato che: "La Mezzaluna Rossa aveva ricevuto mandato per soddisfare i bisogni della popolazione locale che stava affrontando un’enorme crisi". Forse questo ulteriore crimine è stato una reazione ad una dichiarazione pubblica piuttosto insolita avanzata dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa, la quale condannava in toto la guerra in Iraq per il suo "completo disprezzo dell’umanità".

Il Dr. Ali Fadhil, iracheno, ha dichiarato – in quello che sembra essere il primo rapporto di un visitatore di Falluja a operazione completata – di aver trovato una città "completamente devastata". La città moderna ora "sembra una città fantasma". Fadhil ha notato pochi cadaveri di combattenti iracheni nelle strade, poiché era stato ordinato loro di abbandonare la città prima dell’inizio dell’assalto. I medici hanno riferito che l’intero staff sanitario era stato bloccato nell’ospedale principale quando l’attacco statunitense iniziò, "trattenuto" sotto gli ordini statunitensi: "Nessuno poteva entrare nell’ospedale, nel frattempo le persone stavano morendo dissanguate nella città".

L’attitudine degli invasori è stata ben riassunta da un messaggio scritto loro col rossetto sullo specchio di una casa in rovina: "Al diavolo l’Iraq e tutti gli iracheni". Alcune delle peggiori atrocità sono state commesse da membri della Guardia Nazionale Irachena, impiegata dagli invasori per perquisire le case, soprattutto di proprietà "poveri sciiti provenienti dal sud... disoccupati e disperati"; l’iniziativa probabilmente aveva il fine di "alimentare il germe di una guerra civile".

Reporter embedded ("arruolati" al seguito delle truppe – NdT), giunti alcune settimane più tardi, trovarono diverse persone "tornare alla spicciolata verso Falluja”, città dove "si entra in un mondo desolato di edifici scheletrici, abitazioni bombardate da carri armati, linee elettriche danneggiate e palme distrutte". La città distrutta di 250.000 abitanti era descritta ora "priva di elettricità, acqua, scuole e attività commerciali", sotto un rigido coprifuoco e "visibilmente occupata" dagli invasori che l’avevano appena distrutta e dalle forze locali che essi avevano adunato.

I pochi rifugiati che osarono ritornare, sotto stretta sorveglianza militare, si erano trovati davanti a "piccoli laghi di acque putride lungo le strade, l’odore dei cadavere all’interno di edifici carbonizzati, né acqua né elettricità, lunghe attese e morbose perquisizioni compiute dai soldati americani ai checkpoint, segnali di avvertimento per le mine terrestri e le trappole esplosive disperse ovunque, improvvisi scontri a fuoco tra truppe e rivoltosi".

Sei mesi più tardi avvenne forse la prima visita da parte di un rappresentante internazionale, Joe Carr, del ‘Christian Peacemakers Team’ di Baghdad, che in precedenza si era già recato nei territori palestinesi occupati dagli israeliani. Giunto il 28 maggio, trovò una situazione dolorosamente simile: parecchie ore di attesa nei pochi punti d’accesso alla città, più per compiere vessazioni che per questioni di sicurezza; regolari distruzioni delle derrate alimentari nelle aree devastate della città, dove "i prezzi degli alimentari sono aumentati in maniera drastica per la presenza dei checkpoint"; ambulanze bloccate, e altre forme di brutalità riportate dalla stampa israeliana. Le rovine di Falluja, ha scritto Joe Carr, sono persino peggiori di quelle di Rafah nella Striscia di Gaza, quasi interamente distrutta dal terrore israeliano guidato dagli americani. Gli Stati Uniti "hanno abbattuto interi quartieri, e distrutto o danneggiato circa un terzo degli edifici". Solo un ospedale con possibilità di curare degenti è sopravvissuto all’attacco, ma l’accesso è stato impedito dall’esercito occupante, il che ha provocato molti decessi a Falluja e nelle zone rurali. In certi casi, dozzine di persone sono state stipate in "strutture completamente bruciate". Solo un quarto delle famiglie le cui abitazioni sono state distrutte hanno ricevuto una sorta di risarcimento, generalmente inferiore alla metà del costo dei materiali necessari per la ricostruzione.

Jean Ziegler, relatore speciale dell'ONU per il diritto all'alimentazione, ha accusato le truppe statunitensi e britanniche in Iraq di, mentre danno la caccia ai militanti, "violare il diritto internazionale privando i civili di cibo e acqua", a Falluja come in altre città attaccate nei mesi successivi. La stampa internazionale così informò sulle azioni delle forze capeggiate dagli Stati Uniti: "Hanno sospeso o ridotto la fornitura di cibo e acqua per incoraggiare gli abitanti ad abbandonare la città prima degli assalti, usando la privazione di acqua e cibo come arma di guerra contro la popolazione civile”, un atteggiamento in evidente violazione della Convenzione di Ginevra. Al pubblico americano queste notizie sono state ampiamente risparmiate.

Persino a prescindere da efferati crimini di guerra come l’assalto a Falluja, esistono prove più che sufficienti a supporto della conclusione avanzata da un docente di studi strategici del ‘Naval War College’ Usa, ovvero che il 2004 "è stato un anno davvero orribile e brutale il martoriato Iraq". L’odio degli Stati Uniti, ha continuato, sta ora dilagando in un paese soggetto ad anni di sanzioni, che già avevano condotto allo "sfacelo del ceto medio iracheno, al collasso del sistema scolastico laico e all’aumento di analfabetismo, disperazione e anomia : tutto ciò ha favorito una ripresa dei fondamentalismi nel paese, per cui sempre più iracheni ricercano nella religione una fonte di salvezza". I servizi primari sono compromessi persino di più rispetto al periodo in cui erano in vigore le sanzioni. "Gli ospedali regolarmente esauriscono i medicinali più essenziali… le strutture sono in condizioni pietose [e] numerosi specialisti e medici esperti stanno lasciando il paese perché temono di diventare obiettivi della violenza o perché si sono stancati delle precarie condizioni in cui sono costretti a operare".

Nel frattempo, riporta il Wall Street Journal, "il ruolo della religione nella vita politica irachena ha stabilmente raggiunto livelli più elevati da quando le forze militari capeggiate dagli Stati Uniti hanno rovesciato Saddam Hussein nel 2003". Dall’invasione, "nessuna singola decisione politica" è stata presa senza la "tacita o esplicita approvazione del Grande Ayatollah Ali al-Sistani”, dichiarano gli ufficiali governativi, mentre “l’allora poco conosciuto giovane clericale ribelle" Muqtada al-Sadr è riuscito a "dare vita a un movimento politico e militare che ha attirato decine di migliaia di seguaci nel sud del paese e nei quartieri più poveri di Baghdad".

Simili sviluppi sono avvenuti nelle aree sunnite. Il voto per la bozza della costituzione irachena nell’autunno del 2005 si è trasformato in "una battaglia delle moschee", con i votanti che si conformavano perlopiù agli editti religiosi. Pochi iracheni avevano preso visione del documento perché il governo ne aveva distribuite pochissime copie. La nuova costituzione, fa notare il Wall Street Journal, contiene "pilastri islamici molto più estremi rispetto all’ultima costituzione irachena risalente a mezzo secolo fa, la quale si basava sul [laico] diritto civile francese", e aveva garantito alle donne "parità di diritti" rispetto a quelli di cui godevano gli uomini. Tutto ciò è stato ribaltato da quando gli Stati Uniti hanno occupato il paese.


Crimini di guerra e calcoli di vittime

Le conseguenze di anni di violenze e oppressioni occidentali diventano fonte di enorme frustrazione per gli intellettuali civilizzati, i quali si sorprendono nel scoprire che, per usare le parole di Edward Luttwak, "la grande maggioranza degli iracheni, assidui frequentatori di moschee e semi-colti, nel migliore dei casi" sono semplicemente incapaci di "credere ciò che per loro risulta completamente incomprensibile: il fatto che gli stranieri abbiano fatto uso in maniera disinteressata del loro sangue e siano davvero grati di aiutarli". Per definizione, nessuna prova è necessaria.

I cronisti hanno fatto notare che gli Stati Uniti si sono trasformati "da paese che condannava la tortura e ne impediva il ricorso, a paese che abitualmente esercita questo genere di pratica". La realtà è, se possibile, ancor più tragica. Tuttavia, la tortura, per quanto orribile, difficilmente è paragonabile ai crimini compiuti a Falluja e altrove in Iraq, o alle conseguenze dell’invasione statunitense e britannica in generale. Un esempio, annotato di sfuggita e subito respinto dagli Stati Uniti, è l’attento studio realizzato dagli illustri specialisti americani e iracheni pubblicato sulla rivista medica più autorevole del mondo, The Lancet, nell’ottobre del 2004. Le conclusioni della ricerca attestano che "il conteggio delle vittime associate all’invasione e all’occupazione dell’Iraq tocca quasi le 100.000 unità, ma potrebbe anche essere superiore".

Le cifre includono circa 40.000 iracheni uccisi direttamente durante i combattimenti o nel corso di episodi di violenza armata, secondo un successivo resoconto svizzero dei dati ricavati. Uno studio successivo condotto da “Iraq Body Count” ha rivelato che nei primi due anni dell’occupazione si sono registrati 25.000 decessi di individui non appartenenti alle forze della guerriglia – a Baghdad, uno ogni 500 abitanti; a Falluja, uno ogni 136. Le forze armate Usa ne hanno ucciso il 37%, i criminali il 36%, le "forze anti-occupazione" il 9%. Gli omicidi sono raddoppiati nel corso del secondo anno di occupazione. La maggior parte delle morti sono state causate da dispositivi esplosivi, due terzi da attacchi aerei. Il conteggio di “Iraq Body Count” si basa sui resoconti dei media e quindi, sebbene sufficientemente scioccante, è senz’altro al di sotto delle reali stime.

Dopo aver esaminato questi rapporti e quello stilato dall’UNDP (United Nations Development Programme), intitolato "Iraq Living Conditions Survey" (aprile 2005), l’analista inglese Milan Rai conclude che i risultati sono in larga misura coerenti, e che l’apparente variazione in termini numerici è sostanzialmente il risultato di trascurabili diversità rispetto agli argomenti specifici trattati e ai periodi di riferimento. A sostegno delle conclusioni raggiunte giunge uno studio condotto dal Pentagono, che ha stimato in 26.000 il numero dei civili iracheni e dei soldati delle forze di sicurezza uccisi e feriti dal gennaio del 2004 dai "rivoltosi".

Il servizio del New York Times sullo studio del Pentagono ne menziona anche molti altri, ma omette il più importante, quello condotto da The Lancet. Il quotidiano nota di sfuggita che "non sono state fornite cifre per il numero di iracheni uccisi dalle forze armate Usa”. L’articolo del Times è apparso esattamente il giorno successivo a quello in cui gli attivisti internazionali avevano commemorato tutte le vittime irachene, proprio in occasione del primo anniversario della pubblicazione del rapporto di The Lancet.

La misura della catastrofe in Iraq è talmente enorme che a malapena si è in grado di riportarla. I giornalisti sono in gran parte confinati nella zona verde di Baghdad rigorosamente fortificata, oppure viaggiano sempre scortati. Ci sono state alcune eccezioni per quanto riguarda la stampa ufficiale; ad esempio i casi di Robert Fisk e Patrick Cockburn del britannico The Independent, due reporter che affrontano rischi estremi. Ma, generalmente, le opinioni del popolo iracheno vengono riportate solo occasionalmente. Una di queste occasioni è stata un rapporto su una nostalgica riunione di colti membri dell’alta società occidentalizzata di Baghdad, la cui discussione si rivolse verso il saccheggio di Baghdad da parte di Hulagu Khan e le sue cruente atrocità.

Un professore di filosofia ha anche commentato che "Hulagu, rispetto a ciò che hanno fatto gli americani, è stato anche umano", strappando qualche risata, ma la "maggior parte degli ospiti sembrava voler evitare di affrontare i temi della politica e della violenza, che qui dominano la vita di tutti i giorni". Al contrario, parlarono dell’impegno profuso per dare vita a una cultura nazionale irachena che superasse le antiche divisioni etnico-religiose alle quali il paese sta ora "regredendo" sotto l’occupazione; discussero inoltre della distruzione dei tesori iracheni e della civilizzazione del mondo, una tragedia mai vissuta dai tempi delle invasioni mongoliche.

Tra gli effetti scatenati dall’invasione, troviamo anche la diminuzione del reddito medio degli iracheni – passato da 255 dollari nel 2003 a circa 144 nel 2004 – così come "una notevole scarsità a livello nazionale di riso, zucchero, latte e alimenti in polvere per i neonati", secondo il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (World Food Program), che da questo punto di vista aveva messo anticipatamente in guardia riguardo l’invasione, ovvero che non sarebbe stata in grado di reiterare l’efficace sistema di razionamento vigente quando Saddam Hussein era al potere.

Le testate giornalistiche irachene riportano che le nuove provvigioni contengono limatura di metallo, una delle conseguenze dell’enorme corruzione sotto l’occupazione anglo-americana. I casi di malnutrizione acuta sono raddoppiati nel giro di sedici mesi dall’occupazione, nei termini di una percentuale simile a quelle del Burundi e molto più alta rispetto ad Haiti o Uganda, una cifra che "si traduce in circa 400.000 bambini iracheni che soffrono di tisi, condizione caratterizzata da diarrea cronica e deficienze pericolose di proteine". Si tratta di un paese dove centinaia di migliaia di bambini erano già morti a causa delle sanzioni anglo-americane. Nel maggio del 2005, il relatore speciale all’ONU Jean Ziegler ha pubblicato un rapporto del ‘Norwegian Institute for Applied Social Science’, che ha confermato le cifre di cui sopra. I livelli nutrizionali – relativamente soddisfacenti – degli iracheni durante gli anni settanta e ottanta, persino durante la guerra con l’Iran, iniziarono a decrescere pericolosamente durante il decennio delle sanzioni, con un ulteriore disastroso crollo in seguito all’invasione del 2003.

Nel frattempo, la violenza contro i civili si è estesa oltre gli occupanti e la rivolta. I reporter del Washington Post Anthony Shadid e Steve Fainaru hanno riferito che "miliziani sciiti e curdi, spesso operativi come parte delle forze di sicurezza del governo iracheno, si sono resi protagonisti di numerosi rapimenti, uccisioni e altre azioni intimidatorie, grazie ai quali hanno consolidato il proprio controllo sul territorio lungo il nord e il sud dell’Iraq, intensificando la divisione del paese secondo linee etniche e settarie".

Un indicatore delle proporzioni della catastrofe è l’enorme ondata di rifugiati "che fuggono dalla violenza e dai problemi economici" – solo dall’inizio dell’invasione Usa un milione si sono diretti verso la Siria e la Giordania – la maggior parte dei quali "professionisti e laici moderati che avrebbero potuto contribuire a far funzionare il paese".

Lo studio condotto da The Lancet ha suscitato significativo scalpore in Gran Bretagna, tanto che Londra è stata costretta a diffondere un’imbarazzante smentita; negli Stati Uniti, invece, è prevalso un silenzio virtuale. Solitamente viene definito “il rapporto controverso" che riporta che “non meno di 100.000" iracheni sono morti come risultato dell’invasione. 100.000 era la stima più probabile, su caute supposizioni; sarebbe almeno altrettanto accurato descriverlo come il rapporto secondo il quale "almeno 100.000 persone" morirono. Nonostante lo studio sia stato pubblicato all’apice della campagna presidenziale americana, sembra che nessun candidato influente sia mai stato pubblicamente interrogato sulla questione.

La reazione segue lo schema generale, il caso di enormi atrocità perpetrate dal personaggio sbagliato. Un esempio lampante è rappresentato dalle guerre in Indocina. Nell’unico sondaggio (di cui io sia a conoscenza) in cui è stato chiesto alle persone di stimare il numero di vittime vietnamiti, la stima media era stata 100.000, circa il 5% di quella ufficiale; la stima reale è sconosciuta e non interessa più dell’altrettanto sconosciuta stima delle vittime della guerra chimica statunitense.

Gli autori dello studio spiegano che è come se gli studenti universitari in Germania stimassero le vittime dell’Olocausto a 300.000, nel qual caso dovremmo concludere che la Germania è affetta da qualche problema – e se la Germania dominasse il mondo, i problemi sarebbero ancora più seri.

1. Termine che letteralmente significa "assenza o mancanza di norme" (dal greco “a-nomos”). In sociologia, indica la mancanza o carenza di norme in determinati campi della società. In senso più generale, è mancanza di regole e disciplina negli individui e conseguente carenza di motivazioni nella vita associata [NdT].

2. Nel 1248 i Mongoli al comando di Hulagu Khan invasero Baghdad e danneggiarono la città [NdT].

 

Noam Chomsky, professore presso il Dipartimento di Linguistica e Filosofia del Massachusetts Institute of Technology, risiede a Lexington, Massachusetts. Vedi i libri di Noam Chomsky su Nuovi Mondi Shop.

 

Fonte: http://www.motherjones.com/commentary/columns/2006/04/iraq_war_crimes.html
Tradotto da Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media