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Per un necrologio onesto del colonialismo

di Francesco Lamendola - 08/03/2010

Abbiamo già tentato di dire una onesta parola di commiato nei confronti di quel fenomeno storico che fu il colonialismo, nell’articolo dedicato a suo tempo al bel film di Jacopetti e Prosperi «Africa addio», realizzato nell’ormai lontano 1966.
Quando cadono un regime politico, un sistema internazionale o una ideologia, la muta dei conigli mannari si scatena ad abbaiare sul suo cadavere, facendo a gara a chi infierisce di più su quel corpo ormai senza vita; e non è un bello spettacolo, come già notava Alessandro Manzoni, ne «Il cinque Maggio», a proposito dell’esilio di Napoleone a Sant’Elena.
Giuseppe Prezzolini, uno dei pochi intellettuali italiani che, nelle tormentate vicende che portarono dal Fascismo alla Repubblica democratica del secondo dopoguerra ,aveva saputo mantenere la schiena dritta, scrisse un «Necrologio onesto del fascismo» che è molto più apprezzabile dello sferzante giudizio emesso da Luigi Barzini junior nelle pagine del fortunato «Gli italiani» (1965), specialmente considerando che Barzini, da giornalista, durante il Ventennio aveva creduto lui per primo a quelle vuote coreografie politiche e militari che, dopo la caduta di Mussolini, con il facile senno di poi, denuncia come il tarlo fondamentale di quel regime.
Uno degli eventi cruciali del XX secolo è stata la fine degli imperi coloniali europei e non ci sembra che su di esso si sia ancora fatta una riflessione «sine ira et studio», anzi, non ci sembra che sia stato fatto alcun genere di riflessione, dato che né il coro di quanti l’hanno applaudito con gioia, né quello (assai meno numeroso, per non dire sparuto) che l’hanno apertamente rimpianto, sono stati capaci di innalzarsi al di sopra della mischia, anche se il trascorrere di due o tre generazioni avrebbero dovuto ormai lasciar decantare le passioni più accese.
Naturalmente, bisognerebbe distinguere fra  le diverse epoche del colonialismo, fra le diverse potenze coloniali e fra le loro differenti politiche nei confronti degli indigeni. Una cosa è il colonialismo della Compagnia delle Indie Orientali inglese o francese del XVIII secolo, un’altra cosa i Dominions creati da Sua maestà britannica nelle terre d’America e Oceania, dopo aver praticamente spazzato via le popolazioni indigene per sostituirle con una numerosa immigrazione di coloni anglosassoni.
Inoltre, è un fatto che non tutte le potenze coloniali si sono avvantaggiate dal colonialismo. La Gran Bretagna e la Francia certamente sì; e, prima di loro, anche il Portogallo, la Spagna e i Paesi Bassi. La Germania e l’Italia, ultime arrivate, certamente no: sia l’una che l’altra perdettero le proprie colonie, in seguito alla sconfitta militare (nella prima guerra mondiale la Germania, nella seconda l’Italia) dopo avervi speso molto più denaro di quanto non ne abbiano ricavato.
È indubbio, inoltre, che una cosa fu il tentativo di un Paese povero e sovrappopolato, come l’Italia, di creare uno sbocco alla propria emigrazione, creandosi un impero coloniale; e una cosa completamente diversa fu l’insaziabile avidità di materie prime per la propria industria e di mercati per il proprio commercio, da parte di una nazione finanziariamente e industrialmente prospera e avanzatissima come la Gran Bretagna: la quale, nel 1914, era giunta a far sventolare la propria bandiera nazionale sopra un quarto delle terre emerse.
E tuttavia, degli elementi comuni al colonialismo in quanto tale vi sono, pur nella specificità dei tempi e delle situazioni particolari; anche se è doveroso guardarsi dalle eccessive generalizzazioni che, inevitabilmente, conducono a delle semplificazioni arbitrarie e finiscono per alterare gravemente la prospettiva storica.
L’olandese Johan Fabricius (nato a Bandung, isola di Giava, 1899 e morto a Gimmen, nei Paesi Bassi, nel 1981) è stato uno di quegli Europei, nati nelle lontane colonie d’oltremare e ivi rimasti per spirito d’avventura e per amore della seconda patria, fino a quando l’ondata dei nazionalismi terzomondisti li scacciò via, con la proclamazione dell’indipendenza delle ex colonie in terra d’Africa e d’Asia.
Il protagonista di uno dei suoi migliori romanzi è un funzionario governativo che, come gli altri suoi compatrioti, ha provato l’umiliazione della prigionia giapponese durante la seconda guerra mondiale, quando le armate del Sol Levante avevano occupato, per una effimera stagione, le Indie Orientali Olandesi, prima di dover sena andare, non senza aver fomentato nei nativi l’idea dell’«Asia agli Asiatici» e aver così reso inevitabile la partenza degli Olandesi e la proclamazione dell’indipendenza indonesiana, il 27 dicembre 1949.
Le sue riflessioni sulla fine del dominio coloniale olandese in Indonesia sono affidate ad alcune pagine del suo romanzo «Setuvo la tigre» (titolo originale: «Setoewo, de Tijger», 1956; traduzione italiana di Luisa van Wassenaer-Crocini, Torino, Carlo Frassinelli Editore, 1958, pp. 47-51):

«… Perfino coloro che in Europa non erano mai stati, erano debitori del’Occidente. La loro lingua comune era l’olandese: soltanto in olandese potevano avere scambi di idee su argomenti che esulassero dalla vita e dal pensiero familiare, e propri dell’affascinante mondo della scienza e della tecnica occidentali. Ognuno di loro aveva avuto rapporti amichevoli copi bianchi ed aveva cercato di capirne i sentimenti sforzandosi perfino di comportarsi e di parlare come loro. Per vanità, per calcolo, per ambizione sociale.  E da allora portavano in sé quel lembo di occidente come una maledizione alla quale non potevano sottrarsi. Ereditavano dai bianchi e a nulla serviva dire a se stessi che quel’eredità non impegnava ad alcuna gratitudine perché era la conseguenza inevitabile di circostanze di cui nessuno aveva colpa.  Che poi quel vasto regno formato da tante isole, quella Indonesia, avesse posseduto cultura e civiltà proprie molto prima della comparsa degli olandesi (che nessuno aveva chiamati) era argomento di ben poca consistenza, visto che al momento della loro partenza tutti gl’indonesiani, invece di ritornare fieramente allo stole di vita indigeno, accettavano benignamente l’eredità di tutto ciò che l’energia, l’acume e la capacità d’organizzazione degli olandesi avevano saputo creare.
Ereditavano le grandi città colle banche, gli uffici, i palazzi del governo costruiti in stile europeo; ereditavano la moderna rete stradale, le ferrovie e tutto il complesso dei trasporti del ventesimo secolo; ereditavano tutti i miracoli della tecnica occidentale: aeroplani, radio, cinema, telefono, telegrafo; ereditavano l’organizzazione sanitaria, gli acquedotti, le bonifiche, i ponti d’acciaio, gli acquedotti, le università, le centrali elettriche, i laboratori scientifici… Ereditavano, ereditavano, ereditavano, senza potersi sottrarre all’umiliazione di tanto ereditare, parlando in tono scherzoso dei “barbari bianchi”, oppure ribattezzando per esempio in Djakarta la capitale, ridandole il nome dell’antico villaggio di canne di bambù sul quale gli olandesi avevano costruito la loro Batavia.
Avessero almeno avuto il coraggio di rifiutare l’eredità! Ma non era possibile, dicevano, appellandosi al fatto che ormai l’Indonesia era stata svegliata di soprassalto dal suo sogno orientale da quei rumorosi e troppo energici olandesi, per venire inserita nel sistema mondiale moderno (come  si diceva nella meccanizzata lingua degli occidentali), senza nemmeno venire consultata. Con una popolazione ormai superiore ai settanta milioni non sarebbe stato più possibile fare a meno della tecnica e del’economia occidentali… E sta bene… non era, forse, nemmeno irragionevole…Ma se lui, Jusuf  Zahir, guardava bene dentro se stesso, vedeva chiaramente che, insieme a tutti i suoi giovani compagni di razza, era in fiondo avido di  sì comoda eredità, e per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto rinunciarvi, Anche se fosse stato possibile tornare indietro…
Egli conosceva l’ammirazione segreta, che nessuno di loro voleva confessare per quell’odiato ed esecrato mondo dell’occidente. Sapeva che ognuno di loro, nessuno eccettuato, moriva del desiderio di possedere uno di quei numerosi giocattoli: una radio, un’auto, un orologio da polso, o nel caso che simili costosi oggetti fossero inaccessibili, magari soltanto una bicicletta, provvista  di una bella lampada che spandesse sulla strada intensi fasci di luce. Conosceva la gioia orgogliosa del semplice  abitante di “kampong” che potesse vantarsi padrone di un veicolo del genere; e conosceva la celata soddisfazione del presidente della giovane repubblica nel prender posto nella sua lussuosa, imponente e comoda vettura americana. Sapeva che quell’orgoglio era anche condiviso dalla folla assiepata lungo la strada a sventolare bandierine bianche e rosse mentre si lacerava la gola con grida di entusiasmo… Certamente, l’eroe nazionale, il “nostro Bung Karno” [cioè Achmed Sukarno, 1901-1970], l’uomo che aveva fatto prostrar nella polvere l’occidente e che tuttavia aveva l’aspetto di uno di loro, passava silenziosamente in una scintillante vettura di gran gala come fosse il “Kangdieng Tuan Besa”, il Governatore Generale in persona.
In altri tempi le cose non erano andate diversamente per i sultani ed i reggenti giavanesi: anche loro erano stati fieri dei beni occidentali come adesso i grandi del nuovo governo indonesiano. Ma come potevano sperare di giungere a sentirsi vera,ente iberi dall’occidente, fintanto che accettavano l’eredità degli occidentali come un male inevitabile, non solo, ma provandone per di più tanta segreta e puerile soddisfazione?  In che modo poteva quel popolo vantarsi di esser libero, fintanto che on costruiva da sé le automobili, gli aeroplani, i treni elettrici nei quali sedeva tanto comodamente e tanto spensieratamente? Quando sarebbe sorto il giorno in cui avrebbe potuto amministrare da sé i beni ereditati, per non parlare di esser capace di aumentarli?
L’eredità veniva pagata a prezzo di complessi di inferiorità.»

Vi sono molte cose che si possono condividere in queste riflessioni e ve  ne sono molte altre che appaiono discutibili, parziali, perfino grossolane nella loro proterva insostenibilità. E tuttavia, Fabricius non è solo un ex funzionario coloniale gonfio di orgoglio europeo e di scarsa comprensione per la realtà indigena; è un uomo colto e riflessivo ed è lui stesso a fare l’autocritica dei propri pensieri, disarmando in anticipo i propri eventuali obiettori.
Infatti, dopo aver riflettuto che, dopo la partenza degli Olandesi, l’Indonesia probabilmente sarebbe piombata nel caos e nell’indolenza, il protagonista del suo romanzo, il funzionario distrettuale Harmen van Rijn, così ragiona (op. cit., pp. 80-82):

«… Noi bianchi crediamo di avere il monopolio della saggezza. : crediamo ai risultati tangibili;  siamo ossessionati dalla volontà di progredire, sempre progredire; dobbiamo a ogni costo migliorar tutto, organizzare, intensificare la produzione; vogliamo che questa gente conosca l’agiatezza e quindi la felicità malgrado la propria opposizione.  Ma chi ci dice che non saranno più felici quando - a nostro modo di vedere - tutto andrà a catafascio? Chissà che tra poco la società non ritorni qui ad un ritmo che esaspererebbe noi bianchi, ma che per questo popolo non sarà altro che il ritmo naturale, ereditario! Non può darsi che coll’intenzione di condurlo al progresso, noi abbiamo soltanto annoiato e stancato questo popolo? Il nostro spirito occidentale moderno si ribella al pensiero di un governo irresponsabile che conduca la massa alla miseria materiale, ma quale importanza ha poi la miseria materiale per questa massa? Che forse l’orientale on l’accetta rassegnato quale una volontà di Allah, insieme all’ingiustizia, degna di vendetta dinanzi al trono d’Iddio, che è lo sfruttamento di quella stessa miseria da parte di dominatori senza coscienza? Non pesano forse più di questi, altri affari, per questa gente? In fin dei conti l’uomo deve decidere da sé quale valore vuole attribuire a questa vita e quali norme sociali desidera accettare come condizione per la felicità terrena. Siamo forse felici, noi occidentali? Noi per i quali la giustizia sociale è la pietra filosofale redentrice?  Noi che soffriamo della quasi comica pazzesca convinzione di risparmiar tempo affannandoci, mentre disponiamo di una sola vita umana che la fretta giunge soltanto ad abbreviare? Noi, che con tutta la nostra venerazione per la ragione e per l’intelletto aggiungiamo errore a errore? No che abolimmo la schiavitù e in seguito condannammo milioni e milioni alla schiavitù nelle miniere e nelle fabbriche? Noi seguaci dell’etica cristiana, che al tempo stesso ci torturiamo il cervello per perfezionare vieppiù gli ordigni infernali della guerra moderna fino a che per legge di una logica inevitabile, essi provocheranno la nostra distruzione? Abbiamo ni diritto di educare e predicare?»

Sono domande, come si vede, e non sono del tutto domande retoriche.
Sono domande alle quali il protagonista, così come Johan Fabricius, stenta a trovare una risposta; e così noi. Ma sono domande oneste, che scaturiscono non da una falsa coscienza, ma da un reale travaglio del pensiero e da una equanime valutazione dei “pro” e dei “contro” del modello culturale che le potenze occidentali hanno esportato negli altri continenti mediante il colonialismo.
Dal punto di vista economico, sociale, politico e culturale si potrebbe osservare che l’odierna globalizzazione sta riuscendo ad attuare, incontrando un minimo di resistenza, ciò che il colonialismo non è riuscito a realizzare interamente nel corso di parecchie generazioni e, in alcuni casi, perfino di secoli: la completa omologazione delle società indigene al modello occidentale, sia in senso materiale che spirituale. Nemmeno i “conquistadores” del XVI secolo, con le loro inconcepibili violenze, erano riusciti a tanto.
Se, poi, ci si volesse domandare se il colonialismo sia stato un bene o un male nel contesto della storia mondiale, avremmo due fondamentali obiezioni da opporre ad una simile domanda: l’una di metodo, l’altra di merito.
L’obiezione di metodo è che, davanti a qualsiasi evento, il giusto atteggiamento dello storico non dovrebbe mai essere quello del giudice, bramoso di assolvere o condannare, ma quello dello studioso spassionato, di null’altro desideroso se non di comprendere come e perché quel tale evento si sia prodotto, e perché si sia svolto in quel determinato modo.
L’obiezione di merito è che bisognerebbe stabilire “per chi” si pretende stabilire se il colonialismo sia stato un bene oppure un male: intendendo non solo, semplicisticamente, differenziare la valutazione per la potenza coloniale e per i nativi di una certa colonia, ma anche e soprattutto per le diverse classi sociali, tanto della madrepatria europea quanto delle società indigene.
Per fare un esempio: altro è chiedere cosa sia stato il colonialismo a un banchiere della City londinese; altro è chiederlo ad un emigrante italiano in Libia, il quale, dopo aver trasformato il deserto in un giardino a prezzo dei più duri sforzi, e dopo aver costruito meravigliose strade e altre opere pubbliche, si è visto cacciare e depredare di tutte le sue fatiche da un “diktat” del colonnello Gheddafi, nel 1969.
Analogamente, una cosa è chiedere cosa sia stato il colonialismo alle élite indigene africane ed asiatiche, le quali, al momento dell’indipendenza, andarono al potere nei rispettivi Stati, dando prova di una corruzione e di una brutalità quasi inverosimili (parliamo dei vari Idi Amin Dada, dei vari Bokassa e dei vari Duvalier); altro è chiederlo ai pastori Masai espropriati delle loro terre dai coloni inglesi del Kenya, oppure chiederlo agli ottentotti Nama e ai bantu Ova Herero i quali, nell’Africa Sud-occidentale tedesca, subirono un vero e proprio genocidio, nel 1904, da parte della potenza coloniale, dopo essere stati privati sia dei pascoli che del bestiame.
Insomma il colonialismo è stato un fenomeno estremamente complesso e variegato, e sarebbe semplicistico e improprio voler emettere un giudizio globale su di esso: sarebbe una operazione puramente ideologica, nel significato peggiore della parola.
Del resto, il colonialismo è morto e il neocolonialismo che lo ha sostituito presenta caratteri totalmente differenti dal fenomeno originario, intrecciandosi ormai con i cento e cento tentacoli della piovra chiamata globalizzazione.
Forse è giunto davvero il tempo di scrivere il necrologio onesto del colonialismo, tenendo conto delle sue numerose ombre, ma anche delle sue luci; ad esempio, tenendo conto del fatto che solo grazie ad esso un pastore del Niger o un pescatore di Sumatra, ad un certo punto, poterono uscire dal proprio ambito tribale per viaggiare e commerciare liberamente nelle regioni limitrofe, senza il timore di venire uccisi o fatti schiavi e potendo servirsi di una lingua comune (che non sempre era la lingua della potenza europea, ma poteva essere un impasto linguistico multiforme e originale, come nel caso dello swahili dell’Africa orientale).
Certo, il colonialismo ha traghettato a forza le società tradizionali dei continenti extra-europei verso la modernità, legandole ad essa nel bene e nel male e distruggendo le culture tradizionali, nel segno di un mutamente radicale e irreversibile, fondato sull’ambigua filosofia del progresso (inteso in senso puramente materiale). Ma, forse, nemmeno l’Occidente sapeva esattamente dove stesse andando, allorché fece propria quella filosofia; ed esso per primo le ha pagato un pesantissimo tributo di devastazioni e di sofferenze, specialmente nel corso del XX secolo.
Forse è tempo che l’Occidente cominci a porsi la domanda su ciò che vuole essere e dove vuole andare; e che, insieme ad esso (e non necessariamente contro di esso, come invece sta avvenendo), se la pongano anche le società sorte dalle macerie del colonialismo: delle società che, raggiunta l’indipendenza formale, non hanno potuto fare altro che raccogliere l’eredità dell’Occidente, e sia pure rielaborandola ciascuna nel contesto della propria particolare cultura e della propria particolare visione del mondo.