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C’era qualcosa di sbagliato nel colonialismo italiano?

di Francesco Lamendola - 09/03/2010

C’era qualcosa di sbagliato nel colonialismo italiano?
La quasi totalità degli storici italiani, infatti, da quelli della scuola liberale alla Chabod, a quelli dell’area marxista influenzati da Gramsci, hanno sempre detto e ripetuto che esso fu un tragico errore o, nel migliore dei casi, un equivoco e un miraggio; che, in poche parole, l’Italia spese denaro ed energie in una serie di imprese africane sostanzialmente inutili, inseguendo la chimera di un impero che, quand’anche fosse stato resuscitato (come effettivamente accadde nel 1936), non avrebbe giustificato il sangue di un solo soldato o la lira versata allo Stato da un singolo contribuente.
Questa versione dei fatti non ci convince e non ci ha mai convinti e non solo per ragioni di merito, ma anche e soprattutto per ragioni di metodo. Vi abbiamo sempre scorto, infatti, un residuo di quel moralismo deteriore che si ammanta di ideologia umanitaria, per nascondere la sua vera natura di ideologia squisitamente politica.
Che cosa significa, infatti, sostenere che il colonialismo italiano era “sbagliato”? Significa, tanto per fare un confronto, che quello della Germania bismarckiana e guglielmina era “giusto”? E, se le cose stanno così, significa che è “giusto” un colonialismo che riporta dei successi politici e militari, mentre si deve considerare “sbagliato” quello che registra degli insuccessi? Se fosse così, allora vorrebbe dire che la forza e il successo sono gli unici giudici della bontà di una determinata politica: conclusione veramente meschina e anche un po’ ripugnante; ma, soprattutto, conclusione machiavellica, che stona sulla bocca di quanti vorrebbero corroborare il proprio giudizio sulla base di valutazioni morali. Sarebbe veramente la peggiore forma d machiavellismo, in base alla quale - per esempio - non si avrebbe alcun diritto di criticare il nazismo, se non per il fatto che, alla fine, esso risultò soccombente.
Perciò, bisognerebbe che quei signori storici si decidessero, una buona volta: dovrebbero avere il coraggio di dire che il colonialismo in quanto tale, sempre è comunque, è “sbagliato”, ma per ragioni etiche e non per ragioni storiche; oppure dovrebbero smetterla con lo sport nazionale di denigrare sistematicamente tutto ciò che l’Italia ha fatto nella breve parabola della sua storia postunitaria, per gustare l’amara e discutibile soddisfazione di sentirsi sempre gli ultimi della classe, i più inetti e, magari, anche i più “cattivi”.
Alludiamo, con quest’ultimo riferimento alla “cattiveria”, alle atrocità della conquista coloniale della Libia o dell’Etiopia, che certamente vi furono, ma che non furono né peggiori, né più sistematiche di quelle commesse da qualunque altra potenza imperiale: con buona pace di quegli storici, come l’italiano Angelo Del Boca o come l’ungherese Endre Sik, i quali amano dipingere qualunque impresa coloniale come intimamente pervasa di malvagità e ogni società indigena, comunque governata (o sgovernata) dalle proprie classi dirigenti, come intimamente buona, pacifica, prospera e felice.
Insomma, delle due, l’una: o il colonialismo fu il Male Assoluto, e allora quello italiano fu malvagio come lo furono quelli britannico, francese, olandese, belga, americano, ecc.; oppure fu un fenomeno storico che va studiato come qualunque altro, verificando se e in quale misura esso rispondesse a una dinamica “naturale” delle società occidentali che lo realizzarono, ovviamente senza mai perdere di vista i costi umani che esso impose, con speciale riguardo alle popolazioni indigene che vi furono coinvolte.
Ebbene, a noi sembra che il colonialismo italiano, nella sua breve stagione che va dall’acquisto della baia di Assab, nel 1882, da parte del governo italiano, alla resa del generale Messe in Tunisia, nel 1943, davanti alla strapotenza delle armate anglo-americane provenienti dall’Egitto e dal Nordafrica francese (poco più di sessant’anni complessivamente), non sia stato una follia scaturita dalla megalomania di Crispi, Giolitti o Mussolini - si badi: la Sinistra storica, il liberalismo e il fascismo -, ma lo sbocco di forze sociali, politiche, economiche e culturali reali.
Inoltre ci sembra che, se tali forze furono in parte diverse da quelle che, da parte loro, mossero la maggior parte delle altre potenze imperiali, ciò sia dovuto al fatto che esso era per l’Italia più “necessario” di quanto non lo sia stato per la Gran Bretagna, per la Francia o per la Germania (quest’ultima in un arco di tempo ancor più beve: dal 1884 al 1918).
Intendiamoci: l’Italia poteva sopravvivere anche senza le colonie; e ciò fu quanto accadde con la pace di Parigi del 1947, che la privò di ogni suo possedimento d’oltremare e la rinserrò, povera, sconfitta e sovrappopolata, nei suoi angusti confini, peraltro ampiamente mutilati (specie nei confronti della Jugoslavia di Tito).
Ma questo, che cosa starebbe a dimostrare? Secondo noi, soltanto che una nazione vinta deve saper fare buon viso a cattivo gioco. Ma se l’Italia, dopo aver speso tanto denaro per dissodare il deserto della Libia, o per costruire strade e ferrovie sulle montagne dell’Etiopia, avesse poi potuto godere, per un lungo periodo di tempo, dei benefici del suo impero coloniale (si pensi solo a cosa avrebbe significato, per essa, povera com’è di materie prime e di fonti energetiche, poter disporre del petrolio della Libia, scoperto solamente dopo la seconda guerra mondiale), qualcuno se la sentirebbe di affermare, in tutta coscienza, che ciò sarebbe stato ininfluente per la sua economia, per il suo sviluppo successivo, per la percezione medesima che gli Italiani hanno di se stessi, nella propria patria e davanti al resto del mondo?
Certo, l’Italia aveva (ed ha tuttora) dei gravissimi problemi interni, retaggio del Risorgimento e anche dei secoli precedenti; problemi di classe dirigente, innanzitutto, che una più fortunata e una più duratura politica coloniale, diciamo senza la sconfitta di Adua e senza l’umiliante pace di Parigi, avrebbe forse rimandato e messo parzialmente in ombra, ma non certamente risolto e anzi, forse, sul lungo periodo, persino aggravato. E tuttavia, questo aspetto della cosa non deve nemmeno essere sopravvalutato. È noto che l’Inghilterra di William Pitt il giovane, nella seconda metà del Settecento, era afflitta dalla classe politica più corrotta d’Europa; questo, però, non le impedì di mietere una serie di spettacolari successi imperiali (specie nella guerra dei Sette Anni, contro la Francia e la Spagna), affermandosi definitivamente come la principale potenza commerciale, finanziaria e coloniale del mondo e gettando, così, le basi di due secoli di prosperità senza precedenti.
Ci preme, ad ogni modo, chiarire un punto.
Noi non stiamo tessendo l’elogio del colonialismo, del quale abbiamo ben presenti le ombre e le pagine nere. Stiamo solo cercando di sottrarre la riflessione storica sul significato complessivo del colonialismo italiano ad un ambito ambiguo, carico di pregiudizi e di luoghi comuni, per riportarlo sul solido terreno dei fatti, come si fa - o si dovrebbe fare -  nei confronti di qualunque altro evento o fenomeno storico.
Bisognerebbe avere i coraggio di dire la verità: siccome il colonialismo italiano trovò il proprio apice nella conquista mussoliniana dell’Impero, la Vulgata storiografica repubblicana e antifascista dominante dal 1945 lo vede come il fumo negli occhi e, al solo sentirlo nominare, scatta in essa un riflesso condizionato, come quando si agita un drappo rosso davanti agli occhi del toro infuriato, nel bel mezzo della “corrida”. Nessuna obiettività, nessuno sforzo di porsi davanti a quel passato (un passato che non vuol passare, a quanto sembra) in un atteggiamento spassionato, «sine ira et studio», come auspicava Sallustio. Il fascismo è stato il peggiore di tutti i mali; dunque, anche il colonialismo italiano, da esso portato al culmine, non può essere stato che un male irremissibile o, peggio, come avrebbe detto Talleyrand, un errore.
Ma ragionare così, significa tradire il mestiere di storico: il quale non deve servirsi di categorie mentali prefabbricate, ma deve misurarsi con la nuda e cruda realtà dei fatti, sfrondandoli, per quanto possibile, da ogni superfetazione ideologica.
Dunque: torniamo alla domanda che ci eravamo posta, se cioè vi sia stato, nel fatto del colonialismo italiano, qualche cosa di intrinsecamente sbagliato.
Ha scritto lo storico olandese Henri Wesseling, professore di Storia contemporanea e direttore dell’Istituto di storia del’espansione europea all’Università di Leida, ne suo libro «La spartizione dell’Africa, 1880-1914» (titolo originale: «Verdeel en heers. De deling van Africa, 1880-1914)»; traduzione italiana di Giancarlo Errico, Milano, Corbaccio Editore, 2001, p. 335):

«Nell’imperialismo italiano non c’era niente di sbagliato, salvo che era italiano. Era più che logico che l’Italia volesse avere un ruolo nella spartizione del continente africano, tanto più che la riguardava molto da vicino. La Sicilia si trova a un passo dalle coste africane e non occorre essere grandi storici per ricordarsi che secoli addietro l’ascesa di Roma al rango di potenza mondiale era iniziata con la guerra contro Cartagine. A ogni modo lo sapevano molto bene coloro che vissero e fecero politica nel diciannovesimo secolo. L’Italia, oltretutto, aveva un numero sufficiente di ‘coloni’ per popolare l’intera Africa settentrionale. Questo grande esodo contrassegnò la storia di un’Italia povera e sovrappopolata.
A metà degli anni Ottanta l’emigrazione della popolazione assunse forma drammatiche. Complessivamente un milione e trecentomila persone lasciarono il paese. Questa emigrazione fu soprattutto una conseguenza della crisi economica degli anni Ottanta che aveva messo in ginocchio l’agricoltura. In Italia il problema venne acuito da una particolare distribuzione della proprietà terriera e dalla crisi che colpì l’agricoltura a causa della filossera. L’”emigrazione dei disperati” rappresentò una comprensibile preoccupazione degli intellettuali e dei politici, e la perdita d’italianità, in un’epoca di aspirazioni nazionalistiche e di idee social-darviniane, per molti divenne un tormento.
L’Italia nel 1870 era diventata uno stato unitario, ma era un’unità che veniva caratterizzata dalla disunione. Tra nord e sud esistevano grandi contrasti di sviluppo e mentalità. I settentrionali guardavano ai meridionali con maggiore disprezzo d quanto non facesse un colonizzatore nei confronti degli africani. Per i padri del Risorgimento, l’Italia era oltretutto un’unità incompleta. Aveva una capitale imperiale, ma non aveva un impero. Questo impero doveva rinascere. Dopo il 1870, in un primo momento questo ideale imperiale fu praticamente accantonato insieme a quello irredentista.»

Questo parere si integra agevolmente con quello dello storico svizzero Eduard Fueter, il quale, tracciando un parallelo fra la politica coloniale tedesca e quella italiana, capovolge il giudizio corrente e si esprime più favorevolmente circa la seconda che non la prima, nella sua ormai classica opera «Storia universale degli ultimi cento anni» (titolo originale: «Storia degli ultimi cento anni, 1815-1920» (titolo originale: «Weltgeschichte der letzen Jahre»; trasduzione italiana di Ettore Bassan, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1949, pp. 425-26, 441):

«Non si potrà negare che dei due stati [Germania e Italia] l’Italia fin dal principio vide più chiaramente la sua mèta e scelse più abilmente i mezzi da impiegare. Poteva del resto dipendere anche dalla relativa debolezza  militare della penisola se il paese procedete sempre in modo da evitare un aperto conflitto con un’altra grande potenza europea, ma all’Italia (che aveva una massa di emigrati molto più forte, e forse anche maggiori ragioni della Germania per cercare di mantener stretti contatti politici tra i suoi figli residenti  all’estero e la madrepatria) si dovrà tributare il riconoscimento che essa indirizzò la propria politica estera con coerenza in questa direzione, non dimenticando mai l’importanza di una politica coloniale. Della Germania non  si può dire altrettanto. I suoi successi coloniali furono più importanti di quelli dell’Italia, per ciò che riguarda l’estensione delle sue conquiste, ed essa poté ottenere dagli altri stati, mercé pressioni di ordine militare, delle concessioni alle quali l’Italia non poteva ancora pensare. Ma non furono sempre tratte le opportune conseguenze di questo programma nella politica estera; la politica estera della Germania in Europa non fu modificata nel senso che sarebbe stato necessario in conformità alle nuove mète coloniali. […]
L’Italia rappresenta un caso speciale. I suoi interessi si basavano soprattutto sula sua natura di stato mediterraneo; se essa entrò soltanto in questo momento nella lotta per l’Africa, ciò si deve ascrivere unicamente alla circostanza che era diventata una grande potenza più tardi della Francia, e non già perché avesse risentito dei nuovi atteggiamenti nella valutazione dell’Africa. La politica africana dell’Italia si è perciò in generale indirizzata per nuove vie e non può essere considerata quale parte dell’azione collettiva delle potenze europee [come, ad esempio, fu il caso del Marocco]. Rimase invece lontana da ogni partecipazione alla spartizione dell’Africa, nonostante forti interessi mediterranei, la monarchia austro-ungarica, principalmente per ragioni di politica interna. Conseguenza di ciò fu che la politica di espansione austriaca gravitò esclusivamente verso i Balcani.»

Questa, dunque, l’opinione di due insigni storici europei, l’uno dei primi del Novecento, l’altro della fine del secolo: ed è un’opinione abbastanza sorprendente per il lettore italiano, abituato a sentirsi dire, dagli storici di casa propria, che il colonialismo italiano è stato, in tutto e per tutto, un crimine e un errore.
Se fu un errore, fu un errore condiviso da tutte le maggiori potenze mondiali dell’epoca, Stati Uniti, Russia e Giappone compresi (sia pure in forme diverse dagli Stati europei, e con la sola eccezione, già notata dal Fueter, dell’Impero austro-ungarico).
Se non lo fu, poche altre nazioni ebbero più motivi dell’Italia per impegnarsi in direzione della conquista di un impero coloniale; e poche altre nazioni subirono un danno più grave dalla perdita di esso. Non la subì certo la Germania del 1918, che, ricca comunque di ferro e carbone e con una economia industriale in grado di assorbire tutta la propria forza lavoro, non ne aveva bisogno né per procurarsi fonti di energia e materie prime, né per dare uno sbocco alla propria manodopera disoccupata.
E tanto ci sembra che andasse detto per porre le basi di una futura, più serena discussione circa i pro ed i contro di questa pagina della nostra recente storia nazionale, oggi così volentieri rimossa o sottovalutata dagli studiosi di formazione accademica e così volentieri posta in una luce falsa e tendenziosa dall’intellighenzia politicamente corretta.