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Iraq: il Giorno del giudizio è davvero dietro l'angolo?

di Tom Engelhardt - 14/03/2010

Il Paese potrebbe effettivamente precipitare nel caos – ma questo potrebbe succedere, ed è successo, anche con la presenza delle truppe Usa.


Siamo in guerra a intermittenza con l'Iraq da quasi 20 anni, e con l'Afghanistan da 30: in tutto fanno quasi mezzo secolo di esperienza, totalmente negativa.

Tuttavia, un gruppo di opinionisti basati a Washington che va allargandosi sta chiedendo al Presidente Obama di prolungare la sventura, esortando l'Amministrazione a modificare i suoi piani – negoziati negli ultimi mesi dell'amministrazione di George W. Bush – per il ritiro di tutte le truppe americane dall'Iraq entro fine 2011. Ritirarsi secondo il calendario previsto, sostengono, sarebbe praticamente garanzia di violenza civile e spargimento di sangue etnico in Iraq.

Secondo questi profeti di sventura, il nostro ritiro in base al calendario stabilito incoraggerebbe le milizie sciite a organizzare un ritorno colmo di violenza; l'ingerenza iraniana negli affari iracheni aumenterebbe – portando ulteriore violenza. E il gruppo "al Qaeda in Iraq" si muoverebbe per riempire qualunque vuoto di potere con la propria agenda distruttiva.

Finora, l'Amministrazione e le forze armate dicono di sperare ancora di ritirarsi secondo il calendario previsto. Il mese scorso, tuttavia, il Washington Post ha riferito che l'esercito statunitense ha messo a punto piani di emergenza per posticipare il ritiro stabilito di tutte le truppe da combattimento dal Paese in agosto. E Tom Ricks, uno specialista in questioni di sicurezza nazionale, ha scritto sul sito di Foreign Policy che il comandante in capo delle forze Usa in Iraq, il Generale dell'esercito Ray Odierno, ha chiesto ufficialmente che una brigata da combattimento rimanga nella città agitata di Kirkuk, nel nord, dopo il termine fissato.

Nel frattempo, un coro dei soliti esperti -- "giornalisti guerrieri", come li definisce Tom Hayden – sta cantando avvertimenti sempre più forti secondo i quali il maggiore di tutti i pericoli sarebbe un ritiro prematuro. Ricks, ad esempio, ha raccomandato sul New York Times che l'amministrazione Obama dovrebbe "trovare un modo" per mantenere una "forza relativamente modesta, su misura" compresa fra i 30.000 e i 50.000 soldati, in Iraq "per molti anni a venire". (Questi numeri, cosa abbastanza strana, ricordano i 34.000 militari Usa che, a quanto scrive Ricks nel suo bestseller del 2006, "Fiasco," il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz aveva previsto come la futura guarnigione statunitense in Iraq nelle settimane precedenti all'invasione del 2003).

Kenneth Pollack, della Brookings Institution, che nel 2003 aveva suonato i tamburi di guerra per invadere l'Iraq, adesso è contrario a rimuovere troppo presto "il gesso" – la metafora che usa per definire la presenza delle forze armate Usa – sul "braccio rotto" dell'Iraq. Kimberly e Frederick Kagan, che a loro volta avevano difeso la guerra fin dall'inizio, hanno scritto di recente un articolo per il Wall Street Journal chiedendo "una partnership militare a lungo termine con l'Iraq oltre il 2011", dicendo che per quella data il Paese non sarà ancora in grado di difendersi.

Bisogna riconoscere che l'Iraq è un casino. Sotto il nostro controllo, il Paese è crollato e bruciato, e non c'è nessuno che sostenga che l'abbiamo rimesso insieme. Molti miliardi di dollari in fondi dopo, gli Stati Uniti continuano a non essere in grado di fornire le cose più semplici, come elettricità costante o acqua potabile, a parti consistenti del Paese.

A anche se l'Iraq è nel caos, la nostra fiducia in noi stessi, il nostro – perché non dirlo? -- narcisismo, rimane intatto. Stiamo ancora, in qualche modo, specchiandoci in quello stagno, innamorati del volto benevolo, disponibile che vi si riflette. Ci siamo autoconvinti di poter vedere il futuro dell' Iraq, e che un futuro iracheno senza di noi sarebbe la desolazione personificata.

A rendere particolarmente forti le argomentazioni degli esperti-guerrieri è il fatto che essi le basano quasi completamente su cose che debbono ancora accadere e che potrebbero non verificarsi mai. Dopotutto, gli esseri umani si sono dimostrati tutt'altro che capaci di prevedere il futuro: la storia ci coglie regolarmente di sorpresa.

Sono ormai in pochi a ricordarlo, ma siamo passati per una versione di questa situazione - 40 anni fa, in Vietnam. Anche in quel conflitto agli americani venne detto ripetutamente che gli Stati Uniti non potevano ritirarsi perché, se ce ne fossimo andati, il nemico avrebbe lanciato un "bagno di sangue" in Vietnam del sud. Questo futuro bagno di sangue dell'immaginazione compariva in innumerevoli discorsi e resoconti ufficiali. Divenne talmente reale che a volte sembrò mettere in ombra il bagno di sangue effettivo, quello che avveniva in Vietnam, e per anni fornì una spiegazione convincente del motivo per cui qualsiasi ritiro avrebbe dovuto essere rinviato in modo interminabile e a tempo indeterminato.

Quando tuttavia l'ultimo americano se ne andò sull'ultimo elicottero, il bagno di sangue non ci fu.

In Iraq, c'è una sola cosa certa: dopo la nostra invasione, e con le truppe statunitensi e quelle alleate a occupare il Paese in numero significativo, gli iracheni sono piombati in un bagno di sangue monumentale. E' avvenuto in nostra presenza, sotto il nostro controllo, e in buona parte grazie a noi.

Ma perché bisognerebbe tener conto degli antefatti storici quando i nostri esperti e i nostri strateghi hanno un tale accesso privilegiato a un futuro altrimenti ignoto? Nell'anno che verrà, sulla base di ciò che stiamo vedendo oggi, tali argomentazioni probabilmente si intensificheranno. Le profezie terribili sul futuro dell'Iraq senza di noi si moltiplicheranno.

E' vero che in Iraq potrebbero accadere cose terribili. Potrebbero accadere mentre siamo lì. Potrebbero accadere quando ce ne saremo andati. Ma la storia produce le sue sorprese più regolarmente di quanto immaginiamo – persino in Iraq.

Nel frattempo, vale la pena ricordare che neanche gli americani possono occupare il futuro. Esso non appartiene a nessuno.

Tom Engelhardt, co-fondatore dell'American Empire Project, dirige TomDispatch.com del Nation Institute. E' autore di "The End of Victory Culture" e del romanzo "The Last Days of Publishing". Per una versione ampliata di questo articolo si veda tomdispatch.com


di Tom Engelhardt
The Los Angeles Times, 10 marzo 2010
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)
Articolo originale