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Le bugie dei profeti del libero scambio

di Raffaele Ragni - 21/03/2010

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Il mercato globale è un’astrazione degli economisti. La circolazione di merci è davvero libera soltanto all’interno di alcune aree - come l’Unione europea - o con riferimento a determinati settori merceologici. Che la globalizzazione sia un fenomeno illusorio, lo pensano in molti. Nulla tuttavia sembra scalfire l’assioma mondialista, secondo cui il benessere, per tutte le nazioni, derivi dalla libera circolazione di prodotti, servizi, capitali e lavoratori. È la mitologia del libero scambio, un dogma della nostra epoca, incontestabile come l’evoluzionismo e l’olocausto ebraico. È basato sulle idee dell’economista classico David Ricardo in materia di commercio internazionale,
Il modello ricardiano è conosciuto come teoria dei costi comparati (1821). Ipotizzando mercati perfettamente concorrenziali ed accettando la teoria del valore lavoro - secondo cui il prezzo di una merce è uguale alla quantità di lavoro impiegato nella sua fabbricazione - si afferma che ciascun Paese esporta i beni che riesce a produrre a costi più bassi. Non si considera la diversità delle monete e si misurano i costi in termini di ore lavorative impiegate a produrre un’unità di ciascun bene.
Per spiegare i vantaggi della specializzazione, Ricardo prende come riferimento due Paesi, l’Inghilterra e il Portogallo, ipotizzando che ognuno offra soltanto due beni, la stoffa ed il vino. Iniziando a comparare i costi assoluti delle merci, Ricardo afferma che il commercio internazionale è vantaggioso solo se c’è differenza nei costi di produzione. Quando questa condizione si realizza, conviene procedere non solo all’interscambio, ma anche ad una maggiore specializzazione dei sistemi. Tale è il significato dell’espressione divisione internazionale del lavoro. […]
L’analisi di Ricardo ha influenzato tutte le moderne teorie sul libero scambio, giacché dimostra che il commercio internazionale può essere vantaggioso anche nelle circostanze in cui un Paese è meno efficiente di un altro in termini di produttività del lavoro. Tuttavia ha diversi limiti. In primo luogo esclude i rendimenti crescenti di scala e la mobilità dei fattori produttivi. In secondo luogo non considera diversi aspetti di rilevanza macroeconomica, come la differente dotazione di risorse tra i vari sistemi, gli effetti del progresso tecnologico, i gusti e le preferenze dei consumatori, le politiche di sostegno alla domanda aggregata da parte dei governi. Infine ignora alcuni dati monetari rilevanti ai fini della stabilità del sistema, ed in particolare: i prezzi finali di vendita e il cambio fra le valute.
L’unica garanzia di equilibrio, secondo Ricardo, è rappresentata dai movimenti dell’oro. Un’eccedenza delle esportazioni determina un maggiore afflusso di oro, che gonfia i prezzi nel Paese di destinazione e, rendendo meno competitivi i suoi prodotti, riporta la bilancia dei pagamenti in posizione di equilibrio. É un’idea ormai attuale, perché l’oro non è più il principale mezzo di pagamento usato nelle transazioni di beni.
L’idea che la convertibilità in oro delle monete garantisca rapporti di cambio chiari ed univoci, può essere sostenuta dagli economisti neoclassici finché vige gold standard, e solo valorizzando il ruolo della domanda interna. Supponiamo che, in un Paese, la specializzazione comporti un’eccedenza nell’offerta di un certo bene ed una domanda insoddisfatta di un altro, mentre altrove si verifichi il contrario. Secondo i neoclassici, questa condizione - cioè le differente capacità di assorbimento dei mercati - è sufficiente a provocare flussi commerciali internazionali non strettamente legati al livello dei costi di produzione, e del costo del lavoro in particolare, ma imposti dalla necessità di scongiurare il fenomeno dell’invenduto.
La teoria dei neoclassici, sebbene riveli gli stessi limiti di base del modello ricardiano, viene approfondita da Bertil Ohlin (1933) che cerca di spiegare l’origine della specializzazione e della divisione internazionale del lavoro, comparando, in luogo dei costi di produzione, l’incidenza dei fattori produttivi. Sviluppando la tesi formulata da Eli Heckscher (1919), secondo cui le differenze nei prezzi relativi delle merci dipendono dalla diversa dotazione di capitale e lavoro, Ohlin afferma che i Paesi tendono ad esportare i beni la cui produzione richiede un impiego più intenso del fattore di cui sono relativamente più ricchi.
Riprendendo l’esempio di Ricardo, la teoria di Ohlin afferma che l’Inghilterra esporta stoffa perché la manifattura di quel bene richiede un impiego intenso del fattore capitale, che è relativamente abbondante la suo interno, mentre il Portogallo esporta vino perché quel prodotto richiede un uso elevato dei fattori lavoro e risorse naturali di cui il Paese è ricco. Sottoposta però a verifica empirica dall’economista americano di origine russa Vasilij Leontief (1954), essa viene clamorosamente smentita. Analizzando le quantità di capitale e lavoro richieste per la produzione dei beni esportati dagli Stati Uniti con le quantità dei medesimi fattori necessarie a produrre in proprio le merci importate, si registra uno straordinario risultato (paradosso di Leontief): gli Stati Uniti, Paese relativamente ricco di capitale, esportano merci ad alta intensità di lavoro ed importavano merci ad alta intensità di capitale. Analisi successive sempre con riferimento agli Stati Uniti o ad altri Paesi (es. Giappone, Canada, India) producono, con poche eccezioni, risultati analoghi, per cui molti economisti cominciano a chiedersi se il modello Heckscher-Ohlin sia sbagliato nei suoi presupposti o nelle sue verifiche empiriche.
Un’efficace spiegazione del paradosso di Leontief emerge da una successiva ricerca condotta dallo stesso economista (1956) e dalle analisi di altri studiosi (1965), i quali osservano che le industrie esportatrici americane non sono caratterizzate dall'impiego del fattore lavoro genericamente inteso, ma da elevati livelli di qualificazione delle risorse umane (human skills) e da salari più elevati rispetto alle industrie importatrici in diretta concorrenza. Dal momento che gli Usa emergono nell'esportazione di merci ad alta intensità di lavoro qualificato, il paradosso di Leontief deriva da un'imperfetta specificazione dei fattori produttivi in quanto considera capitale e lavoro genericamente senza alcuna differenziazione qualitativa al loro interno.
Questa distinzione tra capitale fisico ed umano porta a rovesciare il paradosso di Leontief ma non serve ad avvalorare il modello Hecksher-Ohlin. Esso infatti, oltre a non specificare correttamente la complessa composizione dei fattori produttivi capitale e lavoro, non considera affatto il ruolo del terzo fattore produttivo, le risorse naturali, come ulteriore causa di specializzazione nell'interscambio tra sistemi. Infine non tiene alcun conto della possibile inversione delle intensità fattoriali, per cui un settore può rivelarsi ad alta intensità di capitale in un Paese e ad alta intensità di lavoro in un altro. Infatti l'agricoltura - dove il fattore risorse naturali incide in misura determinante - risulta capital intensive negli Stati Uniti, mentre è ancora labour intensive in molti Paesi in via di sviluppo.
Le teorie di Heckscher ed Ohlin sono rielaborate da Paul Samuelson (1962) durante la fase di espansione congiunturale immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale. Con rinnovata fede nel libero scambio, più che con sostanziali innovazioni di metodo, egli spiega come il commercio internazionale produca un aumento del benessere in tutti i Paesi, sia rispetto ad una politica di autarchia, sia rispetto ad una situazione in cui persistano parziali restrizioni alla circolazione internazionale di beni. Questa tesi sembra confermata dalle statistiche di quegli anni sull’apporto del commercio estero all’aumento del benessere in tutto il mondo. Infatti tra il 1950 ed il 1973 - quando il tasso annuale di crescita globale è del 5% circa, con oscillazioni molto più contenute rispetto al passato - il commercio mondiale, in termini di volumi di merci, cresce mediamente del 9,4% annuo, mentre la produzione del 5,3% soltanto.
Tuttavia, come in ogni fase espansiva prodotta da una guerra imperialista, sono le esigenze della ricostruzione, più che i progressi del libero scambio, a trainare l’eccezionale prosperità del ventennio successivo al secondo conflitto mondiale. La validità del dogma liberista, anche nelle sua ultima versione, è soltanto apparente. Nell’economia globale, caratterizzata da crescenti disparità nella distribuzione della ricchezza, il modello Heckscher-Ohlin-Samuelson non riesce a giustificare come alcuni Paesi, rispetto ad altri, sembrano trarre maggiori benefici dal commercio con l’estero e perché il Terzo Mondo, pur aprendosi all’interscambio, rimanga prigioniero del sottosviluppo.
L’idea ricardiana che il benessere deriva dalla crescente apertura dei sistemi, continua ad ispirare le istanze liberoscambiste, ma stenta a trovare riscontri empirici. Si calcola che, negli ultimi 20 anni, gli scambi mondiali di merci sono aumentati con una media del 7% l’anno, ma la povertà non è affatto diminuita. Attualmente 1,2 miliardi di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, mentre circa metà della popolazione mondiale sopravvive con meno di 2 dollari al giorno. La crescita della povertà offre al sistema un esercito inesauribile di manodopera a basso costo che perpetua la differenza nei costi di produzione che rendono vantaggiosi, non solo l’interscambio commerciale, ma anche la dislocazione di impianti produttivi nel Terzo Mondo. È l’esatto contrario di quanto affermava David Ricardo: non è la differenza nei costi di produzione a generare commercio e ricchezza, sono i flussi di merci e capitali che producono lucro nella misura in cui lo sfruttamento e l’usurocrazia perpetuano dislivelli nel costo del lavoro e nei tassi d’interesse. Ma questo gli economisti non lo dicono.