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United Colors of Autostrade

di Rinaldo Gianola - 25/04/2006

 
Presentata come l’ennesima prova di europeismo da parte dell’industria italiana, l’«alleanza strategica» tra Autostrade e la spagnola Abertis suscita, per chi vuol leggere in trasparenza, seri dubbi sulla tempistica dell’accordo, sulla congruità dei valori finanziari, sulla credibilità industriale e sulle ricadute per gli investimenti infrastrutturali, per l’occupazione, per le tariffe in Italia.

L’accordo, inoltre, crea più di una perplessità sul ruolo ricoperto dalla famiglia Benetton azionista di maggioranza di Autostrade dopo la privatizzazione e oggi protagonista e principale beneficiaria, in termini di svariate centinaia di milioni di euro, dell’accordo con gli spagnoli.
Quando alla fine del 1999 il governo di centrosinistra guidato da Massimo D’Alema avviò la privatizzazione di Autostrade, affidando uno dei simboli della ricostruzione e del boom economico nazionale ai Benetton, probabilmente nessuno immaginava che dopo appena sei anni questa impresa centrale della nostra economia sarebbe finita in mani spagnole, sebbene in una logica di mercato, europea, aperta, ci si possa attendere qualsiasi soluzione. Non sappiamo se nello schema di privatizzazione ci fosse qualche clausola a tutela degli interessi più generali del Paese che di solito passa sotto il capitolo «change of control», la modifica del controllo, di un’impresa così importante e che opera in regime di concessione. E se, nel caso esistesse, quali sono le possibili azioni che il governo Prodi potrà esercitare. Sappiamo, però, che la stagione delle privatizzazioni, avviata nel 1992 dal governo Amato con la trasformazione degli Enti in società per azioni, era finalizzata a rendere plurale il mercato finanziario, a creare nuovi soggetti imprenditoriali forti, a sostenere lo sviluppo e la competizione delle imprese italiane in Europa, ad emancipare i gioielli dell’industria nazionale sia dallo Stato padrone sia dai salotti delle oligarchie private. L’avvento di soggetti nuovi come la famiglia Benetton, una delle poche imprese di successo internazionale nate in Italia negli ultimi quarant’anni al di fuori dell’ombrello protettore della vecchia Mediobanca, apparì come un segnale di profondo cambiamento. Anche se forse rischiamo di apparire poco moderni, e dunque impresentabili a un seminario dell’Aspen o un convegno della Confidustria, continuiamo però a pensare che un monopolio naturale come quello di Autostrade stia meglio in mano pubblica che in mano privata.

L’ingresso dei Benetton nelle Autostrade, e poi nel 2001 in Telecom Italia, anziche determinare un’evoluzione positiva del sistema ha segnato, in realtà, il passaggio degli interessi prevalenti di un gruppo industriale dal profitto alla rendita delle tariffe. Forse non è casuale che la diversificazione dei Benetton nelle infrastrutture, nella distribuzione e nelle telecomunicazioni sia coincisa con la perdita del primato nel settore tradizionale, quello dell’abbigliamento, dove trionfano Zara (un altro spagnolo che avanza) e gli scandinavi di H&M.

Ora i Benetton si alleano con la spagnola Abertis, assicurano che resteranno i primi singoli azionisti e che nascerà un gruppo leader in Europa. Al netto della propaganda e del successo clamoroso in Borsa, l’operazione presenta poche certezze, quasi tutte negative, e molte incognite. La prima certezza è che i soci spagnoli avranno la maggioranza nel nuovo gruppo sebbene la cordata italiana abbia la prima singola posizione. La seconda certezza è che il capo operativo sarà un manager spagnolo, la terza che la sede sociale sarà a Barcellona. La quarta certezza è che, in perfetta sintonia con un vecchio capitalismo, gli azionisti di controllo di Autostrade, cioè i Benetton, hanno deciso di autopremiarsi distribuendo un dividendo straordinario di circa 1 miliardo di euro. Il professor Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di ieri ha pudicamente sostenuto che «se i Benetton e i loro soci non vogliono essere accusati di arricchirsi alle spalle dei consumatori, e se davvero credono in questo progetto, dovrebbero investire questo miliardo nella nuova azienda». Siamo pronti a scommettere che non succederà.

In questa situazione rimane il sospetto che l’operazione sia stata chiusa e annunciata proprio in una fase di vacatio di governo, con Berlusconi in uscita e Prodi non ancora entrato a Palazzo Chigi. In più non convince questo europeismo trionfante che assomiglia sempre più a un «tafazzismo» deprimente. Fatta salva la vocazione a un’Europa aperta, di mercato e concorrenza, non si può fare a meno di constatare che mentre l’Enel non riesce a comprarsi una centrale elettrica in Francia, lo shopping europeo in Italia va benissimo, passa dalla Bnl (che ovviamente non poteva finire ai “comunisti” dell’Unipol), alla Galbani fino a infrastrutture strategiche come le Autostrade. E quando un bravo banchiere come Alessandro Profumo riesce a conquistarsi una posizione continentale lo ringraziamo quasi fosse un fenomeno, tale è la sorpresa. In conclusione: non vorremmo, ma lo temiamo, che tra qualche settimana ci venisse presentata la fusione tra Telecom Italia e la spagnola Telefonica come una nuova opportunità strategica, «autenticamente» europea per il nostro Paese.