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Breve storia della tortura nel mondo

di Angelo Spaziano - 30/03/2010


Gli strumenti di tortura rimandano alla mente tenebrosi congegni di sofferenza coi quali gli aguzzini del Medio evo usavano strappare le confessioni più inverosimili ai poveracci che avevano la sventura di capitare sotto le loro grinfie. Acqua, terra, fuoco o ferro, elettricità: nessuno degli elementi che madre natura ci ha messo a disposizione si salvava dall’infame “Baedecker” dei boia dei tempi antichi.

Chi non ricorda William Wallace nel celebre Braveheart, impiccato, “stirato” e infine squartato sulla pubblica piazza? Si trattava di una condanna a morte, ma l’iter di un inquisitore non era affatto diverso, e se possibile pure peggiore. L’unica differenza era che negli interrogatori ci si guardava bene dal “rompere il giocattolo”, e questo comportava un sovrappiù di sofferenza per il reo. A volte, pur di far cessare i tormenti, il malcapitato si accusava di ogni nefandezza. Infatti era preferibile una morte rapida piuttosto che continuare a subire quelle atrocità. E a volte neppure ci si riusciva.

Il bellissimo film Magnificat, ideato e girato da Pupi Avati, è di un realismo e di un’aderenza ai fatti stupefacente. Folco e Baino, due boia “professionisti”, arrivano in un paese in cui un uomo è accusato di avere ucciso la propria moglie. Dodici vicini hanno giurato contro di lui, che viene quindi dichiarato colpevole. Non può neppure pagare 200 monete per la propria vita, e tanto per non avere dubbi viene sottoposto all’ordalia. A quel punto forse sarebbe stato meglio farlo morire subito e risparmiargli l’ipocrita efferatezza del giudizio divino. Che consiste in un mix di sadico assioma teologico e raffinato gusto dell’orrido. Gli viene infatti messa una verga di metallo rovente tra le mani e poi queste vengono fasciate. Se dopo tre giorni recherà traccia di bruciature, allora verrà giustiziato. Naturalmente si sa già come andrà a finire. L’uomo resiste stoicamente al dolore, ma è impossibile nascondere l’ustione e quindi il disgraziato, con le mani orribilmente piagate, viene dichiarato colpevole e spietatamente squartato vivo a colpi d’ascia.

Sempre nello stesso Magnificat, Folco e Baino hanno anche l’incarico di giustiziare una moglie accusata di avere fatto un sortilegio per rendere impotente il marito allo scopo di conservarsi solo per l’amante. Il marito giura contro la consorte, e questo basta per condannare la sventurata. La donna viene quindi sbrigativamente affogata nel fiume.

Nel bellissimo lungometraggio di Pupi Avati vengono pure elencate le condanne previste dal codice in auge a quel tempo, vale a dire nell’anno 926: per i ladri, un dito tagliato o un occhio cavato per un furto, una mano mozzata se recidivi, impiccagione per chi cadeva per terza volta nel peccato. Per farla breve: gatti a nove code, ferri roventi applicati sadicamente sul corpo, pinze con le quali si strappavano brani di carne, Vergine di Norimberga, tortura della ruota, stivaletto, strappamento delle unghie, scuoiamento, impalamento, tratti di corda. La varietà delle tecniche per fare assaggiare ai presunti rei dell’epoca l’inferno su questa terra non conosceva limiti, se non quelli imposti dalla mente malata degli “addetti ai lavori” e a volte la bravura degli aguzzini consisteva proprio nel far “durare” più a lungo possibile l’agonia della vittima, prolungando al massimo la goduria dei sadici spettatori, e tortura e pena di morte molto spesso coincidevano. Questa “mentalità” rappresentava il retaggio di secoli nei quali la morte era un’eventualità fin troppo verosimile nella vita di tutti i giorni.

Ci voleva poco, a quei tempi, per finire all’altro mondo. Basta pensare all’epoca della peste del 1348 a Firenze. Quella del Decameron boccaccesco, tanto per intenderci. Durante quei terribili giorni nell’intera Europa quasi una buona metà dell’umanità finì all’altro mondo. Le città erano diventate degli immensi cimiteri con mucchi di cadaveri che giornalmente venivano trasportati su carri fino a grandi fosse comuni scavate alla bell’e meglio fuori le mura cittadine per far fronte all’emergenza. Abituati a fare tutti i giorni i conti con la nera signora, ben pochi a quei tempi restavano granché sconvolti all’eventualità di poterla incontrare sul serio. E proprio per tale motivo le autorità si sforzavano di escogitare le atrocità più efferate per incutere un minimo di timore nei delinquenti più scafati.

Fino a pochi anni orsono in Europa ancora si uccideva per volontà dello Stato con strumenti che al giorno d’oggi sarebbero giudicati retaggi di epoche barbariche. La ghigliottina in Francia per esempio, o la garrota in Spagna. Negli Stati Uniti è tutt’ora invalso l’uso della sedia elettrica o della camera a gas, diabolici congegni partoriti da menti malate nutrite da nefasti elementi di protestantesimo primordiale e calvinismo degenerato. Il discrimine nell’uso e molto spesso nell’abuso di queste infami pratiche è rappresentato dall’opera Dei delitti e delle pene, di Cesare Beccaria, un capolavoro col quale si stigmatizzava la pena di morte come espediente non solo inutile ma anche controproducente in menti fiaccate da lunghe sofferenze e che vedevano nella prematura dipartita un anelato sollievo. Nel “Dei delitti…” si attaccava anche la crudele pratica della tortura, ingiustissima usanza suscettibile di piegare l’animo del debole innocente, che periva miseramente, e nel contempo d’incidere scarsamente sul robusto organismo di un colpevole che a causa della forte fibra la faceva franca. Proprio grazie al seme gettato dal giurista italiano, nell’Europa settecentesca iniziò a prendere vita un processo di lento ma progressivo ripensamento sulla barbarica usanza della tortura, che in un breve lasso di tempo venne cancellata da pressoché tutti i codici penali. Basti considerare che la ghigliottina, considerata oggi un efferato strumento di supplizio, venne adottata con entusiasmo dalle “illuminate” autorità inquirenti della Francia rivoluzionaria in quanto il suo uso avrebbe accorciato enormemente gli spasmi d’agonia dei decapitati. Il taglio della testa, infatti, prima di Guillotin, veniva effettuato da un uomo armato di ascia e i colpi non sempre erano precisi e tali da recidere la testa al primo fendente. Spesso la lama andava a finire da tutt’altra parte, con conseguenze facilmente immaginabili.

Per la totale abolizione della pena di morte, però, bisognerà attendere ancora molto tempo. Ancora oggi, infatti, i boia, rimasti disoccupati in quasi tutta l’Europa, “esercitano” a pieno regime in nazioni considerate civili, come gli Stati Uniti, il Giappone, i paesi arabi, l’Iran, la Cina. In ogni caso, anche negli Usa, l’uso della cruenta sedia elettrica o della camera a gas va sempre più riducendosi a vantaggio della più soft e “politically correct” iniezione letale. Insomma, il risultato è lo stesso ma l’impatto sul corpo del reo, ma soprattutto sulla pubblica opinione, ipocrita e puritana, è di gran lunga meno traumatico.

Quindi, dall’antico tormento etrusco di “unire il morto col vivo”, quando si usava  legare un poveraccio a un cadavere, condannando il vivo a subire il processo di decomposizione del defunto, fino all’oro fuso versato nella gola dello sconfitto Crasso a Carre, dalla famosa “goccia cinese” al più sbrigativo patibolo, oggi tutto l’armamentario del “perfetto aguzzino” alle nostre latitudini è possibile visionarlo in toto solo nei musei degli strumenti di tortura, facendoci correre nella schiena lunghi brividi d’orrore. Questa però è solo la situazione nelle nostre “felici” contrade.

Altrove la musica è ben diversa. Il rapporto annuale pubblicato da Amnesty International fornisce purtroppo un quadro agghiacciante delle violazioni della dignità umana, ancora disinvoltamente praticate in gran parte del pianeta. Le punizioni corporali, il regime carcerario durissimo e la tortura mietono vittime ancora oggi tra più di 60 paesi del mondo, ma vengono bellamente ignorati dai massmedia. Le torture vengono praticate sia negli arretrati inferni dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia, sia nei cosiddetti “paradisi”. Dall’Albania alla Somalia, dalla civilissima Danimarca al Bangladesh, vengono perpetrati gravissimi abusi, soprattutto all’interno delle carceri, per motivi politici, religiosi e ideologici.

Alcune realtà sono riuscite ad emergere e hanno suscitato molto clamore: si pensi alle torture inflitte da militari Usa a danno dei detenuti delle carceri di Guantanamo e Abu Ghraib. Si ricordino le testimonianze shock degli scampati alle galere castriste o alle pulizie etniche perpetrate dal marxista Mugabe. La nuova, inedita frontiera della tortura, è fare del male senza lasciare segni evidenti sul corpo. Ecco quindi le vasche di deprivazione sensoriale, il water boarding, ossia una simulazione di annegamento, e la ripetizione ininterrotta e ad altissimo volume di una canzone per ore, o anche per giorni. Insomma, proprio grazie al progresso, si è passati dalla fustigazione al più subdolo taser, una scarica del quale provoca spasmi dolorosissimi ma senza lasciare tracce visibili all’esterno.

Ai noti casi di efferatezze assurti alla ribalta delle cronache fanno da contrappeso molti altri che, un po’ per minore accessibilità alle fonti e alle testimonianze, un po’ per scarsa risonanza a livello mediatico, un po’ per non disturbare il manovratore e farci lucrosi affari, passano del tutto in sordina. Emblematici i seguaci del Falun Gong, una disciplina orientale nata in Cina negli anni ‘90, che vengono sistematicamente arrestati e deportati in campi di lavoro (i laogai) e sottoposti, insieme agli sventurati tibetani, a torture tremende quasi sempre culminanti con la morte. Pratiche tristemente applicate anche nelle contigue Birmania e Nordcorea.

Ma alla luce di tutto questo squallido panorama, la nostra Italia come se la cava? Purtroppo neppure il paese che ha dato i natali a Cesare Beccarla riesce a sottrarsi agli artigli dell’oscurantismo. Risulta infatti che ben 5 aziende italiane commercializzano strumenti di tortura all’estero. Manette per appendere i prigionieri al muro, blocca-caviglie, serrapollici, cinture e batterie che rilasciano dolorosissime scariche elettriche: sono alcuni degli strumenti di tortura che, secondo un rapporto di Amnesty Intenational e della Omega Foundation, vengono prodotti e venduti all’estero dall’Italia e altri paesi fra cui Germania e Repubblica Ceca, malgrado la messa al bando di questi strumenti da parte dell’Unione Europea. La Germania, che regolarmente informa l’Unione Europea su questa situazione, ha dimostrato come le armi citate dal rapporto finiscano  in Cina, Pakistan, India e altri paesi che dei diritti umani se ne fregano alla grande.

Dal rapporto “Dalle parole alle azioni” s’intende che la legislazione europea ha delle falle nella sua rete attraverso cui passano le armi utilizzate per la tortura. Sono ben cinque le aziende italiane coinvolte nel ripugnante commercio citate nel rapporto. Tra queste, Access Group Srl, Joseph Stifter s.a.s, Psa Srl, Armeria Frinchillucci S.r.l e Defence System. Il titolare della prima impresa si dice «molto sorpreso, anche perchè tutto quello che compriamo o rivendiamo viene controllato dalle autorità di polizia italiane».

La Frinchillucci è accusata di vendere uno spray pericoloso e una pila che viene usata per rilasciare scariche elettriche ma che, secondo il titolare, «è un normale spray al peperoncino che viene venduto anche nei ferramenta», mentre lo “stun baton” rilascia scariche elettriche «non molto diverse da quando si sbatte il gomito contro uno spigolo».

Dalla Defence System dicono che gli oltre mille prodotti che loro offrono sono tutti in regola. Non solo, le altre quattro aziende denunciate vengono rifornite proprio da loro e sono «tutte rispettabilissime e corrette». «Nel rapporto di Amnesty si parla di traffico internazionale, ma noi importiamo solo dalla Germania e vendiamo esclusivamente in Italia». Fra gli acquirenti ci sarebbero diverse polizie locali. Fra questi strumenti c’è un dissuasore elettrico che scarica 200mila volt nel corpo della vittima, e che sul sito dell’azienda viene presentato come “accendigas professionale”, ma anche questo risulterebbe di libera vendita ed escluso dal bando Ue. Insomma, quando si dice “Italiani brava gente” forse sarà anche vero, ma è meglio che non si vada a sindacare cosa s’intende di preciso per “peperoncino” e “accendigas”. Si rischierebbero brutte sorprese.