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Città sostenibili: mito o possibilità?

di Alberto Ariccio - 01/04/2010


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I due convegni principali che hanno preceduto il nostro, organizzato come MDFGe su “CITTA’ SOSTENIBILI: QUALI CONDIZIONI?”, erano focalizzati sul concetto di “città sostenibile”. Ma cosa significa in concreto applicare il concetto di sostenibilità ad una città. In altre parole ogni città può aspirare a diventare sostenibile? Esistono delle condizioni affinché ciò avvenga?

Parlare genericamente di “città sostenibili”, come se per ogni agglomerato urbano, indipendentemente dalle sue origini, caratteristiche e dimensioni, fosse possibile elaborare una strategia di evoluzione verso la sostenibilità, sembra generico e palesemente irrealistico.

E’ evidente che megalopoli come Los Angeles o Città del Messico molto difficilmente potranno mai evolvere verso la sostenibilità. Si evidenzia quindi quello che potremmo definire il problema della soglia: qual è il limite oltre al quale una città è, e probabilmente, rimarrà, insostenibile? Parlando di sostenibilità e sviluppo, Serge Latouche afferma come l’espressione “sviluppo sostenibile” sia un ossimoro, cioè una contraddizione in termini, per la semplice ragione che se la cifra dell’attuale sviluppo è la crescita infinita e, la crescita infinita, in un sistema chiuso e limitato, è impossibile, non potrà mai esistere uno “sviluppo sostenibile”.

Quindi anche l’espressione “città sostenibile “, applicata alla città moderna, che della crescita economica infinita è espressione fisica, si potrebbe facilmente liquidare come una contraddizione insanabile. Ma è evidente che così non è. Storicamente le città sono nate e si sono evolute ben prima dell’inizio della
crescita industriale come luoghi di aggregazione economica e sociale dei territori circostanti.

Nel DNA di ogni città, fino a caratterizzarne l’unicità, rimane il rapporto col proprio territorio, con le sue caratteristiche geografiche, morfologiche, meteorologiche, agricole, etc. Questo nesso città-territorio è stato indissolubile fino alla prima rivoluzione industriale. Ogni città si rapportava col proprio territorio traendone cibo e materie prime, dando in cambio prodotti finiti e servizi .

Poi, con l’inizio della crescita industriale, tutto è cambiato: le città hanno creduto di poter andare avanti da sole, abbandonare ogni legame col proprio contesto territoriale, rapportandosi solo con le altre città, creando, fra di loro, il deserto delle zone industriali, delle periferie, dei raccordi anulari e dell’agricoltura intensiva e monocolturale.

E qui possiamo cominciare ad intravedere un primo possibile approccio al problema. Se vogliamo verificare la sostenibilità di un sistema urbano non possiamo esaminarlo facendo esclusivo riferimento alla parte urbanizzata, alla città appunto, ma dobbiamo tornare a quel nesso indissolubile col territorio di riferimento cui si accennava inizialmente.

Bisogna quindi verificare la sostenibilità di un sistema territoriale più vasto e più complesso di cui quello urbanizzato è solo una parte. Messa in questi termini il problema parrebbe essersi semplificato: se come si
è detto storicamente ogni città faceva riferimento ad un preciso sistema territoriale, sembrerebbe sufficiente verificare la sostenibilità di quest’ultimo.

Ma così non è. Le città moderna, come abbiamo detto, è l’espressione fisica del modello economico dominante: la crescita. Tutte le città sono cresciute a scapito del territorio circostante per cui, molto spesso, gli antichi equilibri sono saltati ed appare difficile trovarne di nuovi. Pensate alle grandi conurbazioni, alle periferie, alle grandi infrastrutture, ai centri commerciali, agli aeroporti, in che rapporto sono con le singole città di cui sarebbero emanazione? Fanno, probabilmente, riferimento ad un livello di aggregazione superiore, che qualcuno chiama metropolitano.”

La conurbazione di Milano, ad esempio, ha circa tre milioni di abitanti. Ogni giorno entrano ed escono dal Comune di Milano quasi 800.000 veicoli. Che livello di sostenibilità potrà mai avere un tale agglomerato metropolitano, che qualcuno si spinge a chiamare “città infinita”, il giorno che la produzione di petrolio scenderà, anche solo di qualche punto percentuale, e la possibilità di mobilità indiscriminata comincerà a venire meno? Saremo ancora in condizioni, allora, di ridefinire un sistema territoriale palesemente squilibrato?

Ma una città non è solo mobilità. Per il suo funzionamento si utilizzano mille tecnologie: acquedotti, reti fognarie, gasdotti, reti elettriche, ascensori, impianti di riscaldamento, di refrigerazione, etc.: cosa accadrà quando queste protesi miracolose, semplicemente, non avranno energia sufficiente per funzionare?

Torniamo alla domanda di partenza. Qual è la soglia al di sotto della quale è necessario rimanere perché il
sistema città territorio sia, o ritorni ad essere sostenibile, come meglio dice Rob Hopkins per le Transition Town, resiliente, e non collassi sotto il peso ipertrofico della parte urbanizzata?

Ovviamente le mie rimangono domande senza risposta. Troppo forte è ancora il radicamento del modello della crescita per pensare di scalfirlo con delle semplici parole. Ma chi, già in oggi, per motivi ideologici o
semplicemente spinto dagli effetti di una crisi, che i giornali definiscono economica, ma in tanti cominciamo a chiamare epocale, cercano di accorciare le filiere, ormai globalizzate, delle merci, provando a tessere la
rete di un’economia alternativa, basata su prodotti locali e filiere corte, si scontra quotidianamente con gli effetti della crescita urbanistica.

La produzione alimentare locale è spesso insufficiente o lontana, per il semplice motivo che i terreni, che per secoli, per fare un esempio a noi vicino, dalla Valbisagno rifornivano di frutta e verdura la città di Genova, sono stati edificati per una crescita residenziale che strutturalmente non riesce a far incontrare domanda e offerta.

A fronte di 30mila alloggi sfitti, le domande di alloggi economico-popolari sono in crescita continua. Quindi la crescita urbana è riuscita nel miracolo di creare due paradossi: la penuria di alloggi a fronte di abbondanza di case, e la penuria di alimenti in territori storicamente autosufficienti. Il nuovo PUC genovese pare aver colto l’essenza del problema quando, con l’individuazione della linea verde, sembra voler introdurre il concetto di città finita, di limite dello sviluppo urbano. Entra palesemente in contraddizione quando, all’interno di questo quadro, recepisce, con la Gronda, il Terzo Valico, l’espansione portuale e la reindustrializzazione delle aree dismesse, reminiscenze di uno sviluppo economico-industriale che, molto probabilmente, è ormai alle nostre spalle.

Se la probabile decrescita energetica ci preannuncia un futuro meno globalizzato, meno dinamico, più stanziale, più attento alle risorse locali, una programmazione coerente dovrebbe cercare di ristabilire quell’equilibrio città territorio esistente storicamente, restituendo, ad esempio, all’agricoltura, quelle aree dismesse in Valbisagno e, soprattutto, in Valpocevera, che, in attesa di una chimerica reindustrializzazione, vengono lasciate in condizioni di totale abbandono.

Qualcuno sicuramente obietterà, che rispetto agli effetti devastanti della recessione, il nostro è un approccio minimalista, o appunto, decrescente. Ma la differenza fra recessione e decrescita è proprio qui.
Recessione significa subire i limiti dello sviluppo, od ostinarsi con produzioni e stili di vita ormai insostenibili, decrescita significa prendere coscienza che un ciclo di abbondanza è finito e ridefinire nuove produzioni e diversi stili di vita.

Un Piano Urbanistico che prevedesse il recupero ad uso agricolo delle aree urbane dismesse, connesso col rilancio e potenziamento delle aree a vocazione agricola già presenti sul territorio extraurbano, (ed il
risanamento energetico del patrimonio edilizio esistente), contribuirebbe concretamente a migliorare la sostenibilità della nostra città dal punto di vista alimentare.

Un Piano così concepito contribuirebbe, altresì, a creare posti di lavoro veri, ben diversi da quelli virtuali su cui sta puntando l’economia ufficiale attraverso l’ennesimo rilancio sovvenzionato dell’industria dell’auto, dei servizi e soprattutto dell’automazione produttiva, che altro non significa che produrre macchine che sostituiscono progressivamente il lavoro umano, incrementando esponenzialmente il processo di disoccupazione.

Concluderò con una nota antropologica. Per chi, come chi vi sta parlando, è nato subito dopo la guerra e ha vissuto quest’epoca straordinaria, in cui, per noi occidentali, tutto era in crescita ed in apparente costante miglioramento ed innovazione, è estremamente difficile accettare l’idea che tutto ciò possa arrestarsi o addirittura finire. Ma per i giovani, i nostri figli, la scarsità di risorse, il precariato, la difficoltà di trovare lavoro e, comunque, un proprio autonomo spazio vitale, in una contesto sociale ancora troppo occupato dalle generazioni precedenti, è un fatto quotidiano, inconsciamente già elaborato e, forse, accettato.

La vita delle nuove generazioni sarà sicuramente diversa dalla nostra. Nostro compito di padri e figli sarà quello di gestire insieme una transizione il più possibile indolore verso una decrescita guidata, evitando che si trasformi, come in parte sta accadendo, in una rovinosa recessione. Concluderò citando una frase dell’autore del Piccolo Principe, di Antoine De Saint-Exupery, che ci ricorda come noi “Non ereditiamo la terra dai nostri avi, ma ce la facciamo prestare dai nostri figli.”