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Le forme pensiero involontarie possono diventare delle implacabili persecutrici

di Francesco Lamendola - 26/04/2010

 


Uno dei più bei racconti del mistero di Joseph Sheridan Le Fanu (Dublino, 1814-73), «Il tè verde», è incentrata sulla tragica storia di un pastore anglicano, il reverendo Jennings, il quale, essendosi immerso nella lettura di alcuni vecchi libri ed essendosi lasciato permeare l’animo da pensieri potenzialmente distruttivi, inconsapevolmente crea la forma mentale di un essere maligno e persecutorio, una scimmia che sembra sorvegliarlo e che lo segue ovunque, dapprima saltuariamente, poi con sempre maggiore accanimento, ossessionandolo e riempiendo il suo cuore di ansia e di terrore, fino a stroncargli la vita.
Ecco come il grande scrittore irlandese descrive la prima apparizione del persecutore. La scena si svolge a bordo di un omnibus che, ormai vuoto di passeggeri, nella rossa luce del tramonto, sta portando il protagonista a destinazione, nella sua vecchia chiesa di campagna, circondata dagli alberi (in: Sheridan Le Fanu, «Avventure di fantasmi»; titolo originale del racconto: «Green Tea», traduzione italiana di Roberta Rambelli, Milano, TEA, 1991, p. 203-04):

«Avevo conosciuto un uomo che possedeva alcuni vecchi libri  molto strani, edizioni tedesche in latino medievale, e fui felicissimo di poterli consultare. I libri di questo cortese signore  si trovavano nella City, in una zona molto fuori mano. Quel giorno mi erro trattenuto più a lungo del solito e, uscendo, vidi che non c’erano carrozze pubbliche nei dintorni e fui tentato di prendere l’omnibus che passava proprio davanti alla casa. Era più buio di adesso quando l’omnibus  raggiunse un vecchio edificio che forse avete osservato, con quattro pioppi su ogni lato della porta, e lì scesero tutti i passeggeri, tranne me. Procedevamo velocemente. Era ormai il crepuscolo. Io mi raccolsi nel mio angolo, vicino allo sportello, meditando piacevolmente.
L’interno dell’omnibus era quasi buio. Avevo osservato, nell’angolo opposto a me, all’estremità  più vicina ai cavalli, due piccoli riflessi circolari, d’una luce rossastra, mi parve. Distavano l’uno dall’altro circa due pollici, e avevano la grandezza di quei piccoli bottoni di ottone che vengono usati sulle giacche dei marinai.  Cominciai a pensare a questo particolare, che pareva di ben scarsa importanza.  Da dove proveniva quella luce fioca e rossastra e da cosa veniva riflessa? Gocce di vetro,  bottoni, minuscole decorazioni? Procedevamo dolcemente, e ci restava ancora un miglio da percorrere.
Non avevo risolto il mio rompicapo, che divenne ancora più strano, perché quei due punti luminosi, con un sussulto improvviso, scesero più vicini al pavimento, mantenendo la loro distanza relativa e la posizione orizzontale; e poi, altrettanto bruscamente, si alzarono a livello del sedile su cui io mi trovavo, e non li vidi più.
Ormai la mia curiosità era eccitata; prima che avessi il tempo di riflettere, rividi quelle due luci fioche, sempre vicine a pavimento; poi scomparvero di nuovo e poi le rividi nello stesso anglo i cui le avevo scorte per la prima volta.
Così, tenendovi fisso lo sguardo, mi spostai adagio adagio sul mio sedile; e anche quando fui quasi all’estremità, continuai a vedere i minuscoli dischi rossi.
C’era ben poca luce nell’omnibus. L’oscurità era quasi completa. Mi sporsi in avanti per scoprire che cosa fossero in realtà quei piccoli cerchi. Cambiarono lievemente posizione, mentre io mi spostavo. Intravidi i contorni di qualcosa di nero e presto poi scorgere, con discreta chiarezza, la sagoma di una piccola scimmia nera, che sporgeva il muso, imitando i miei gesti, verso di me; quei dischi erano i suoi occhi, e adesso potevo vedere che digrignava i denti osservandomi.
Mi ritrassi, poiché non sapevo se stava per balzarmi addosso. Pensai che uno dei passeggeri avesse dimenticato quello sgradevole animale e per accertarmi de suo umore, siccome non volevo arrischiare le dita, spinsi delicatamente il mio ombrello nella sua direzione. La scimmia rimase immobile. L’ombrello la toccò, l’ATTRAVERSÒ. Perché l’attraversò veramente, avanti e indietro, senza incontrare  resistenza.
Non posso spiegarvi, neppure in minima parte, l’orrore che provai. Quando ebbi accertato che era un’allucinazione, come allora supponevo, provai un triste presentimento, e un terrore che mi affascinava e mi impediva di distogliere lo sguardo dagli occhi della bestia. Mentre la guardavo, spiccò un piccolo balzo indietro verso l’angolo, e io, preso dal panico, mi trovai mio affacciai, e respirando  profonde boccate d’aria e guardando i lampioni e gli alberi che mi passavano accanto, felice di rassicurare me stesso ala vista di quella realtà.
Feci fermare l’omnibus e scesi. Vidi che il cocchiere mi guardava in modo strano mentre lo pagavo,. Ammetto che c’era qualcosa d’insolito nel mio aspetto e nel mio contegno, perché non mi ero mai sentito così strano in vita mia.»

In questo brano di prosa, dal punto di vista che a noi qui interessa, la parola-chiave è il verbo “affascinare”. Il protagonista è come affascinato da qualche cosa che, peraltro, lo riempie di ansia e di terrore; ma non può spezzare il cerchio magico, è come vittima di un incantesimo che non parte dalla realtà esterna, ma dalla sua stessa mente.
La mente è creatrice; e, una volta che abbia pensato intensamente e ripetutamente a qualcosa, questo qualcosa finirà per scendere su di essa e per avvolgerla e accompagnarla in ogni momento della sua vita. Può trattarsi di una presenza amica e luminosa, scaturita da pensieri felici e riposanti; oppure di una presenza sgradevole e maligna, nata da costanti pensieri negativi e da cui il soggetto vorrebbe ora liberarsi, ma che ormai sono divenuti padroni della sua mente.
Scrive Ernesto Bozzano, riferendosi a un caso pubblicato sulla rivista inglese di Psichiatria, il «Chamber’s Journal» del febbraio 1926 (in: E. Bozzano, «Pensiero e volontà», Verona, Edizioni Luce e Ombra, 1967; cit. in Manuela Pompas, «Siamo tutti sensitivi», Milano, SIAD Edizioni, 1980, pp. 95-96):

«A proposito delle forme del pensiero rimaste impresse sulle lastre fotografiche, mette conto di riferire un episodio del genere, il quale tende a dimostrare che anche le allucinazioni patologiche dei dementi consistono a loro volta in “forme del pensiero” proiettate nello spazio. [Ed ecco il testo dell’articolo:] “Un infelice ricoverato nell’asilo di alienati di questa città, affetto da mania di persecuzione, pretendeva di essere implacabilmente sorvegliati e minacciati da un brutto ceffo d’uomo che voleva fargli del male, per cui egli si rivolgeva continuamente indietro a spiarne i movimenti con espressione terrorizzata.
I dottori dell’asilo avevano esaurito tutti i metodi a loro disposizione intesi a convincere il demente che le sue paure erano immaginarie, ma sempre invano.
Ultimamente al direttore dell’asilo balenò in mente un’idea dalla quale si riprometteva pieno successo. Infatti egli fece fotografare il paziente proprio nel momento in cui egli era convinto di essere tormentato dal suo torturatore invisibile,. Ma quale fu la sorpresa dei medici quando,  sviluppata la fotografica, si accorsero che dietro il loro paziente c’era  l’immagine di un brutto ceffo in atteggiamento minaccioso.”
Questa, secondo Bozzano, “dovrebbe considerarsi una prova incontestabile dell’esistenza obiettivata, e in qualche guisa sostanziale, delle  forme del pensiero di qualsiasi natura esse risultino, comprese quelle puramente allucinatorie , create dalle menti inferme dei ricoverati negli asili degli alienati.»

A commento di tale, stupefacente episodio, Manuele Pompas svolge le sue seguenti riflessioni, che ci sembrano largamente condivisibili (ivi, p. 96):

«Se noi siamo soliti avere pensieri negativi, essi si accompagnano durante la giornata, simili a una nube nera (che giustifica il modo di dire “vedo nero”), “è una giornata nera”), che non ci abbandona a deforma ogni esperienza, facendoci vivere in uno stato di depressione. Spesso, quando ci si sente vittime della vita e degli avvenimenti,  quando si è ossessionati da una paura, da un pensiero fisso, significa che queste idee negative sono rimaste attaccate, letteralmente, al cervello, riproponendo di nuovo  ogni esperienza, ogni avvenimento come se fossero negativi.
“Ogni pensiero” scrive Leadbeater (Annie Besant e C. W. Leadbeater, “Le forme pensiero”, Ed. Alaya) insieme ad Annie Besant “crea una serie di vibrazioni nella sostanza del corpo  mentali, “vibrazioni corrispondenti alla natura del pensiero, le quali si accompagnano ad un gioco meraviglioso di colori.  Il corpo mentale, per l’impulso attivatore del pensiero,  proietta all’esterno una frazione di se medesimo, che assume forma connaturata ala sua intensità vibratoria.  Ora tale stato vibratorio ha per effetto di attrarre a sé, dall’ambiente eterico, sostanza sublimata simile alla propria.  Ne consegue che viene a creare una forma-pensiero. Se tale pensiero riguarda un’aspirazione personale  dell’individuo che l’ha formula talora esso volteggia  intorno al suo creatore, sempre pronto a reagire su di lui, in bene o in male, ogni qualvolta egli si trivi in condizioni passive.»

Abbiamo più volte sostenuto, in numerosi scritti, che le cose ci vengono incontro allorché noi siamo pronti per esse. Ciò significa che, quando la nostra mente ha raggiunto l’equilibrio e la pace con se stessa, tenderà ad attirare verso di sé persone e situazioni positive; mentre la mente che sia turbata da conflitti interiori sempre più gravi, finirà per attirare verso di sé persone e situazioni negative, per una legge inesorabile dell’energia psichica.
I nostri pensieri non sono indifferenti, come non sono indifferenti il tipo di cibo di cui ci alimentiamo  e le modalità con cui lo assumiamo. Allo stesso modo, le nostre emozioni non sono neutre: sono potenzialmente benefiche o dannose, a seconda di come le sappiamo vivere, filtrare, organizzare e assimilare. Chi non impara a pensare in modo positivo e a vivere costruttivamente le proprie emozioni, prepara a se stesso l’insorgenza di patologie più o meno gravi, tanto nella sfera psichica che in quella fisica.
Chi non riesce a liberarsi da ricordi dolorosi, da stati d’animo angosciosi, da pensieri malinconici e deprimenti, crea con le proprie mani i fantasmi che finiranno per distruggerlo. Fantasmi che divengono qualcosa di reale, a un certo stadio di ossessione, tanto da poter essere fissati sulla lastra di una macchina fotografica.
La cultura della modernità, da troppo tempo, sta scherzando con il fuoco. Leopardi che definisce male tutto ciò che esiste; Schopenhauer che vuol sopprimere la volontà di vivere; Corazzini che invoca la morte; Freud che descrive l’uomo come una creatura dominata da impulsi oscuri e inconfessabili di parricidio ed incesto; Pirandello che paragona la vita a un’assurda commedia scaturita dal caso; Montale che scorge ovunque il male di vivere; Heidegger che definisce la condizione umana  un “essere-per-la-morte”; Sartre che descrive l’esistenza come qualcosa di nauseante e i nostri simili, come il nostro inferno vivente: sono tutti cattivi maestri, che hanno sparso a piene mani il seme del dubbio, della sfiducia, della disperazione.
A causa loro, sembra che un individuo il quale non sia radicalmente nichilista, debba essere per forza un conformista, inconsapevole della vera realtà delle cose. A causa loro, generazioni di intellettuali hanno fatto a gara a chi professava le concezioni più distruttive, angoscianti, disperate e demenziali: dando per scontato che solo un ipocrita o un imbecille potrebbe pensarla diversamente (tale è il caso, esplicito, di Leopardi, ne «La ginestra o il fiore del deserto»).
Essi, e altri come loro, hanno creato intorno all’uomo moderno una nube di forme pensiero opprimenti, persecutorie e minacciose», da cui faremo fatica a liberarci. E nondimeno, dobbiamo farlo: perché solo così potremo ritrovare la pace con noi stessi e con il mondo in cui viviamo.