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Se la crisi é del sistema

di Mazzetta - 18/05/2010



Sono passati due anni da quando la crisi, a lungo annunciata, ha cominciato a far sentire i suoi effetti devastanti, deprimendo l'economia e minacciando l'implosione della finanza mondiale. Fin da subito è stato chiaro, anche a molti di quanti fino ad allora non avevano creduto alle Cassandre, che il sistema crollava perché era insostenibile. Si parlò di schema-Ponzi e non ci si riferiva solo alle truffe di Madof o di altri suoi emuli, ma al peculiare assetto della finanza internazionale che era evidentemente sostenibile solo in costanza di una geometrica crescita del capitale circolante e delle scommesse finanziarie; proprio come uno schema piramidale, che funziona solo in fase d'espansione e poi implode alla minima inversione di tendenza.

Nonostante l'evidenza, i media accettarono di buon grado di inquadrare la questione secondo i desideri della grande finanza e, inizialmente, puntarono il dito contro i mutuatari americani più deboli, quelli che avevano sottoscritto i famigerati mutui sub-prime senza poterseli permettere. Per un po' funzionò, a dispetto dell'evidenza statistica per la quale i “poveri” contraenti dei sub-prime avevano tassi d'inadempienza dei loro impegni più bassi di quelli degli altri mutuatari prime. I poveri pagavano meglio, ma non importava, come non importava che molti dei sub-prime andati in malora fossero stati in realtà concessi a società o a individui che speculavano sul mercato immobiliare senza avere sufficienti garanzie da offrire alle banche.

Non fu casuale questo puntare il dito sui sub-prime, perché consentiva all'amministrazione americana di scaricare la colpa sull'amministrazione Clinton (che aveva favorito e innescato il fenomeno) e alla grande finanza di scaricare le responsabilità su una delle poche decisioni politiche che non avevano lo stigma evidente di essere a favore dell'élite finanziaria (anche se lo era) e, infine, sui poveri. Il disastro non era quindi colpa dell'amministrazione USA e nemmeno di Wall Street. Dal loro punta di vista non si poteva sperare di meglio nell'occasione e fu uno scherzo farsi seguire su questa strada dai media mainstream, anch'essi complici omertosi del disastro e spesso controllati dagli stessi soggetti che portavano la responsabilità della crisi.

Inquadrata così, la crisi provocata dalle élite finanziarie e dalla loro avidità ha assunto un altro aspetto e a perfezionare l'operazione ha provveduto la confusione sui prodotti derivati, chiamati in causa quando è stato evidente che la crisi eccedeva di gran lunga la massa dei sub-prime e che quindi, il framing, (l'inquadrare il dibattito) entro limiti favorevoli, rischiava di andare in pezzi. I sub-prime sono però rimasti ad aleggiare sullo sfondo, indicati come elemento detonante di una crisi provocata dall'eccessiva creazione di prodotti derivati e dall'uso spregiudicato della leva finanziaria.

Puntare l'indice contro i derivati è stato conveniente per diversi motivi: sia perché sono strumenti complessi, in larga parte incomprensibili al grande pubblico (al quale ben pochi hanno cercato di spiegarli), che per la loro natura di scommesse tra operatori professionali. Chi ha sottoscritto tali scommesse, infatti, è (o avrebbe dovuto essere) un operatore professionale, per lo più assistito da professionisti del ramo, sia nel caso di grandi aziende o di istituzioni pubbliche. Tutta gente che, pur scottata da vere e proprie truffe, non pensa minimamente a mettere in discussione il sistema o ad accusare le controparti con le quali spesso ha cointeressenze o intrecci relazionali molto robusti, per non dire di quanto la politica sia stata sempre più influenzata dalla finanza negli ultimi decenni.

Che poi insieme agli operatori professionali siano stati trascinati nella polvere anche i pensionati e i piccoli risparmiatori con le loro modeste rendite legate alla borsa, non è sembrato assumere grande rilevanza: molta più enfasi è stata riservata ai problemi del sistema (quindi dell'élite) e alla necessità di salvarlo, pena una fine peggiore per tutti.

È bene ricordare che, fin dall'inizio della crisi, ogni tentativo di framing ha contribuito a costruire un vero e proprio muro che ha nascosto al dibattito un suo carattere fondamentale: quello di essere prima di tutto una crisi statunitense. Sono infatti statunitensi le grandi banche e le grandi finanziarie fallite (o salvate da un fallimento inevitabile) e sono d'origine statunitense sia l'impostazione del sistema finanziario che si è andata delineando dopo la caduta del muro di Berlino, che il brutale impulso che ha spinto il mondo verso l'adozione del modello ultra-liberista.

Modello che si è poi rivelato in grado di garantire solo la libertà delle élite finanziarie di drenare risorse dall'economia reale, per poi bruciarle ai tavoli del grande casinò finanziario di Wall Street, del quale negli anni gli stessi operatori hanno assunto il controllo quasi totale e, con esso, la possibilità di truccarne le carte e i conti. Statunitensi sono le grandi banche d'affari e anche la più grande impresa d'assicurazione al mondo, quell'AIG che, forte dei premi e dei capitali dei suoi assicurati, aveva assunto la funzione di garante di qualsiasi prodotto finanziario messo sul mercato, anche il più scellerato e ben oltre le sue capacità di onorare tali impegni.

Per mantenere questo assetto è stato necessario nascondere fino all'ultimo la verità, emarginare ogni voce critica, ogni invito alla prudenza e alla chiarezza dei conti. Così che Alan Greenspan, già nel 2004, decise di mantenere segreti i rapporti e le relazioni che avrebbero dovuto allarmare il governo americano e i mercati sul montare di una bolla immobiliare già allora matura, con il pretesto che il sistema era “troppo complesso” per permettere alle opinioni pubbliche di venirne a conoscenza nei dettagli e quindi di poter formarsi ed esprimere un'opinione che avrebbe potuto “davvero” mettere a rischio il sistema e far saltare il banco, comunque destinato a saltare con il tempo. Una realtà certificata dai numeri e dai rapporti in possesso di Greenspan, tenuta gelosamente riservata per ben quattro anni e venuta alla luce solo la settimana scorsa.

Allo scoppiare della crisi i giocatori, gli arbitri e i cronisti di questa grande partita erano ormai indistinguibili gli uni dagli altri, legati da intrecci inestricabili, da una malriposta pretesa superiorità di classe e al di sopra delle leggi, che pure li avrebbero visti falliti o condannati. Lo sono ancora, se possibile oggi ancora di più. I grandi attori economici sono usciti dalla prima fase della crisi ancora più grandi a seguito di un riassetto del sistema operato salvando gli uni e poi vendendo loro gli altri che si era deciso di bollare come vittime sacrificali, tenendo in vita il tutto con enormi iniezioni di denaro pubblico. Anche le società di revisione contabile e le agenzie di rating hanno subito lo stesso destino e oggi le “too big to fail”, le corporation troppo grandi per poter fallire senza provocare la distruzione generale, sono ancora più grandi e il sistema è ancora meno governabile e trasparente di quanto non fosse all'inizio della crisi.

Se all'alba della crisi Bush, Obama e gli altri leader internazionali annunciarono la necessità e il pronto varo di regole nuove, queste però non si sono viste. Alle grandi società finanziarie americane in fallimento fu assicurata la garanzia governativa per i titoli tossici, nuove regole “creative” con le quali truccare i bilanci e una mostruosa iniezione di denaro per coprire i buchi. Un errore marchiano, perché con quei soldi il sistema finanziario non ha riempito i buchi (nascosti provvisoriamente grazie alle regole contabili creative) e nemmeno ha finanziato l'economia reale, che non si riprende perché i capitali necessari agli investimenti sono dirottati altrove.

Quei soldi sono stati “reinvestiti” nel casinò, come se nulla fosse successo, ma non senza ragione, dato che in costanza di condizioni quella destinazione offre l'aspettativa di maggiori e più rapidi guadagni. La cosa ha determinato l'ovvia risalita dei corsi azionari e grossi guadagni per quegli stessi dirigenti che avevano portato al fallimento le loro aziende e l'economia statunitense. Così si è verificata la “ripresa senza occupazione”, perché a riprendersi è stata solo la giostra delle borse, ormai avulsa dall'economia reale, che invece ha continuato a macinare disoccupati, fallimenti personali e sfratti a passo di carica. In una situazione del genere, negli Stati Uniti si sono sentiti anche fior di analisti e politici esprimersi contro la concessione di sussidi ai disoccupati (una goccia rispetto a quanto dato alle banche) con il pretesto che una volta “assistiti” con quattro soldi al mese avrebbero perso la voglia di lavorare.

Poi sono venuti gli attacchi all'Euro e alle economie più deboli dell'Unione Europea. Un gioco facile, poiché gli stessi speculatori erano quelli che avevano contribuito ad inflazionarne i bilanci, quando non erano stati direttamente complici degli stati nel truccare i conti, come nel caso della Grecia e   del suo rapporto con Goldman Sachs. Un gioco facile almeno fino a quando l'UE non ha trovato un briciolo d'unità politica e fatto muro contro l'attacco. Niente di particolarmente difficile, rappresentando i paesi più in difficoltà solo una frazione dell'economia europea (la Grecia ne vale circa il 2%), ma ancora una volta l'occasione è stata colta per proseguire sulla strada sbagliata: nel pagare i debiti delle banche, delle istituzioni finanziarie e dei governi collusi si è riaffermata la stessa ricetta fallimentare.

Tagli ai servizi sociali, alla sanità, all'istruzione, alle pensioni: la proposta corre proprio nel senso della demolizione di quello che ancora fa la differenza tra il sistema americano e quello europeo e la crisi delle banche. In Europa, come negli Stati Uniti, il fallimento degli dei della finanza lo devono pagare i cittadini, lavorando per salari ancora più bassi, rinunciando a diritti acquisiti e facendo ogni economia per ripagare i debiti altrui, con il miraggio che una volta ripartita la giostra andrà bene per tutti.

Non sarà così. Gli stessi ministri europei ed americani hanno più volte ripetuto che la crisi è sistemica e non si riferivano certo ai sistemi statali e agli stati che si sono dovuti svenare ed indebitare per pagare i fallimenti delle banche, come già è toccato agli americani e agli islandesi e un po' a tutti nel mondo. Una truffa auto-evidente, ma non basta questa evidenza a superare la narrazione falsa e tranquillizzante diffusa dai media e da “ottimisti” come Berlusconi. È il sistema finanziario globale che è in crisi, che è evidentemente rotto e incapace di funzionare secondo le non-regole in vigore, che favoriscono solo l'arroganza e la spregiudicatezza del più forte, incapaci di sanzioni anche a fronte dell'evidenza di comportamenti criminali e professionalmente inadatti.

Se la crisi è sistemica significa che il sistema, così com'è, è condannato a ripetere gli stessi errori. Di più, significa che nascondendo la verità dei conti e dando alla finanza americana il denaro per tornare a giocare, si sono poste le premesse per la definitiva implosione del sistema, perché dall'anno prossimo le grandi corporation americane dovranno rimborsare quantità sempre più elevate di debiti e nessuno è in grado di spiegare come faranno.

E’ invece chiarissimo che nemmeno gli Stati Uniti si potranno permettere un altro bailout, ancor meno in costanza di tre guerre che dissanguano i bilanci. Affermare che i militari americani sono troppo pagati e che si spende troppo per assicurare loro la copertura sanitaria, non serve a molto; anche in questo caso si tratta di miserie se paragonate al buco nei conti della finanza. Buco che, come già spiegato all'alba della crisi, è abbastanza grande da inghiottire l'intera economia mondiale e di scatenare una depressione tale da far impallidire quella del '29.

Non rendono quindi un buon servizio ai cittadini Tremonti e i suoi colleghi europei quando decidono di affrontare una crisi che definiscono sistemica senza ipotizzare alcuna modifica al sistema. E lo stesso Obama e il Congresso americano si confermano così tanto parte del sistema da non poter far nulla per riformarlo.

Non si tratterebbe di un'impresa titanica, perché i problemi di oggi sono gli stessi che l'economia affrontò ai tempi dei Robber Barons, così simili agli autoproclamati “dei” di Wall Street. Rompere i monopoli e i cartelli, ridurre le dimensioni delle corporation, reintrodurre la separazione tra i diversi business finanziari, introdurre regole, vigilanza e sanzioni efficaci, aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie e le tasse di successione per i grandi patrimoni. Niente di particolarmente astruso o bolscevico, sono anzi provvedimenti che darebbero maggiore “libertà” operativa agli operatori economici, non più schiacciati da un'elite che si scrive le regole e si autoassolve quando le infrange, e finalmente in grado di competere ad armi pari in una ambiente più sano, competitivo e onesto.

Niente di rivoluzionario, ma abbastanza da mettere sulla difensiva il sistema e i suoi protagonisti, che non sono per niente disposti a pagare il prezzo delle loro colpe e che preferiscono continuare il blame game (il dare la colpa ad altri all'infinito senza mai arrivare al riconoscimento di alcuna responsabilità) fino a che non avranno messo al sicuro i loro guadagni o fino a quando il sistema non imploderà definitivamente, lasciando il cerino in mano ad altri che bruceranno nel rogo, mentre i soliti noti s'arricchiranno ulteriormente comprando a prezzo di saldo.

Per questo siamo ancora esattamente dove eravamo quando è scoppiata la crisi, con i ministri, i presidenti e i media che ci dicono che il sistema è rotto, ma che da allora evitano accuratamente qualsiasi proposta di riforma del sistema che non sia la semplice cosmesi dei conti o la continuazione della rapina ai danni della massa dei cittadini. Le conseguenze di un tale stato di cose dovrebbero a questo punto risultare evidenti: la crisi continuerà a peggiorare inevitabilmente e il suo costo aumenterà ogni giorno che passa, senza alcuna speranza di un esito diverso.