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Kosovo e dintorni

di Giacomo Gabellini - 22/07/2010

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L’aggressione criminale combinata dalla forza Nato contro la martoriata nazione jugoslava scatenata il 24 marzo 1999 e protrattasi per i successivi 78 giorni può essere considerata a pieno titolo l’ultimo atto autolesionista perpetrato dai governi dei maggiori stati europei che, chinando supinamente il capo di fronte all’ennesima dimostrazione di arroganza statunitense, hanno assestato un colpo durissimo al sogno di autonomia dell’Europa.
I Balcani sono comunemente definiti una "polveriera", politicamente difficilissima da gestire perché oggetto di continue turbolenze interetniche e interculturali. Martellando ossessivamente l'opinione pubblica con questa semplicistica e superficiale versione unilaterale delle complesse vicende balcaniche è stata compromessa una seria valutazione storica del primo, sanguinoso conflitto che sconvolse l'area in questione nei primi anni Novanta. Si evitò accuratamente di far riferimento al ruolo giocato dai poteri “esterni” che fecero di tutto per ridurre alla miseria una nazione strategicamente cruciale come la Jugoslavia, che fu ricattata dal vampiresco Fondo Monetario Internazionale. Imponendole una drastica rinegoziazione del debito pubblico e un catastrofico programma di ristrutturazione economica, questo organismo che è il reale custode dei dogmi relativi al “pensiero unico”, spinse una nazione di 25 milioni di abitanti sull’orlo del baratro. Il costante impoverimento della popolazione determinato dall’applicazione di questo programma funse da moltiplicatore sociale dei dissidi che da tempo serpeggiavano tra le varie etnie che da secoli convivevano all’interno della nazione, e che sfociarono inesorabilmente nello scontro. La storia, per usare un'espressione del vecchio Karl Marx, si è ripetuta come farsa una manciata di anni dopo, quando i media falsificatori spianarono ancora una volta il terreno alle mire egemoniche statunitensi, descrivendo l'intero popolo serbo come una congrega di assassini assetati del sangue dell'inerme popolazione albanese del Kosovo. Non una parola fu spesa sui bei metodi utilizzati dell'associazione indipendentista kosovara, terrorista e mafiosa, denominata UCK, che si serviva (e si serve tutt'ora) degli astronomici proventi derivanti dal traffico di droga per l'acquisto di armi da utilizzare contro le forze di polizia federali. Al contrario. All'immancabile processo di demonizzazione del presidente Slobodan Milosevic ne fu promosso uno parallelo di esaltazione incondizionata dell'UCK. Secondo l'economista Michel Chossudovski "Le vie per la fornitura di armi all'UCK sono gli scoscesi confini montuosi tra Albania, Kosovo e Macedonia. L'Albania è anche un punto chiave per il transito della via balcanica della droga, che rifornisce l'Europa occidentale di eroina di qualità. Il 75% dell'eroina che entra in Europa occidentale viene dalla Turchia e una larga parte delle spedizioni di droga provenienti dalla Turchia passa dai Balcani. Un recente rapporto della Agenzia federale criminale tedesca suggerisce che gli albanesi sono attualmente il principale gruppo della distribuzione dell'eroina nei paesi consumatori dell'Occidente". Contrariamente alle idiozie espresse senza ritegno da Walter Veltroni, secondo il quale il Kosovo era scenario del "Più terribile genocidio degli ultimi cinquant'anni dopo l'Olocausto ", era in atto una guerra civile di medio - bassa intensità, con tutte le atrocità che un evento simile comporta. La gestione del conflitto kosovaro era un importantissimo banco di prova per l'Europa (che disponeva dei mezzi per garantire una convivenza interetnica pacifica in quell'area), che preferì invece rimettere le proprie sacrosante responsabilità nelle mani degli Stati Uniti, i quali invitarono entrambe le parti (quella jugoslava e quella kosovara) a sottoscrivere, nella cittadina francese di Rambouillet, un accordo che sancisse la fine delle ostilità. Il primo ministro jugoslavo Slobodan Milosevic rifiutò però di porre la propria firma in calce al documento. Contrariamente a quanto riportato dagli intellettuali di corte, che riversarono montagne di insulti su Belgrado e sull’intero popolo serbo, Milosevic dimostrò un notevole senso dello stato, rifiutandosi di chinare il capo di fronte a quello che era un vero e proprio diktat. Il testo dell’accordo prevedeva che alle forze Nato fosse garantito di scorrazzare liberamente per l’intero territorio (spazio aereo compreso) jugoslavo, negava ogni legittimità sul personale Nato a tutti gli organi dipendenti da Belgrado (divieto di arrestare o processare il personale Nato), obbligava il governo jugoslavo a mettere a piena disposizione, e gratis, tutte le reti elettriche e di comunicazione. Un classico per la “diplomazia” statunitense; presentare al nemico richieste impossibili da accettare  per legittimare un intervento militare diretto. Quella vecchia volpe di Henry Kissinger, in una intervista del 28 giugno 1999 rilasciata al quotidiano britannico Daily Telegraph, sostenne che “Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Jugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma”. Che a riportare la discussione su un piano accettabile sia stato un falco cinico come Kissinger la dice lunga sullo spirito del tempo. I bombardamenti (effettuati contro il parere dell'ONU) che seguirono ricacciarono la Jugoslavia in uno stato preindustriale, in quanto distrussero quasi tutte le infrastrutture (ponti, autostrade, centrali energetiche, fabbriche ecc.), per un ammontare di 100 miliardi di dollari circa di danni, e lasciarono sul campo svariate centinaia di vittime civili, cadute sotto i soliti, inevitabili "errori".Al bombardamento “umanitario” perpetrato dalle forze Nato seguì l’invasione della carne da cannone reclutata a buon prezzo tra le fila dell’UCK. I membri dell'organizzazione si accanirono da subito con impressionante tenacia nei confronti dell’inerme e disarmata popolazione kosovara di etnia serba, costringendola all'esodo. Dei circa 200.000 serbi presenti in Kosovo prima dei bombardamenti, ne sono rimaste alcune centinaia, sotto gli occhi indifferenti della forza Nato. L'inaudita catastrofe umanitaria non è però l'unica ripercussione tragica sortita dall'aggressione. L'attacco alla Jugoslavia è da configurare come una guerra di controllo geopolitico degli Stati Uniti sull'Europa che, accettando di sostenere gli aggressori, ha rinunciato alla propria indipendenza. Gli Stati Uniti hanno infatti avuto la possibilità di ergere una nuova "cortina di ferro" affine a quella vigente durante la "Guerra Fredda", spostata un poco più ad est e finalizzata ad impedire una qualsivoglia forma di avvicinamento dell'Europa occidentale con il blocco slavo - ortodosso in chiave filorussa. Così facendo Washington ha avuto la possibilità di insediare nel cuore dell'Europa la gigantesca base militare di Camp Bondsteel (la più grande sul suolo europeo) e di stringere il riottoso popolo serbo nella morsa costituita da un lato dai paesi dell'est europeo aderenti alla Nato (Polonia e Repubblica Ceca), dall'altro dalla vasta coalizione di paesi legati al mondo islamico (Albania, Bulgaria e Turchia). Ciò avrebbe sicuramente favorito il riallineamento della Serbia sulla direttrice atlantica, e privato la Russia di uno storico e fedele alleato. La faida interkosovara scatenata dagli uomini dell'UCK contro i membri del partito LDK e la morte prematura del presidente Ibrahim Rugova hanno spianato il terreno all'ascesa di Hashim Thaci (ex leader dell'UCK) come primo ministro. La proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo e il suo conseguente riconoscimento da parte di Stati Uniti e di quasi tutte le grandi potenze europee, non è che la naturale continuazione della catena di indegnità sopra descritte. Il punto terminale di tutta questa incredibile (si fa per dire) operazione è l'istituzione di un narcostato nel bel mezzo dell'Europa. L'esperto serbo Milovan Drezun riferisce che "Secondo l'Europol e l'Interpol, la parte maggiore dell'eroina proveniente dell'Afghanistan, arriva in Europa attraverso il Kosovo. Si tratta presumibilmente del 65 % del flusso mondiale e del 90 % di tutti gli stupefacenti spacciati in Europa. IL detective canadese Kellock ritiene che la narcomafia albanese goda del sostegno silenzioso degli USA. Inoltre egli ha indicato che una volta i diplomatici americani hanno impedito di arrestare nel Kosovo  alcuni leader della narcomafia, dietro della quale si intravede il clan mafioso, guidato da Hashim Thaci, attuale premier kosovaro.  Nei rapporti segreti della KFOR, a questo clan legato ai primi politici del paese,  appartengono tre laboratori clandestini per l'elaborazione di droga". E l'Italia, che ruolo ha giocato nell'aggressione? Mettendo a disposizione la base di Aviano per le incursioni aeree, verrebbe da dire quello, vergognoso, del "palo". Quel bel soggettino di Massimo D'Alema, primo ministro all'epoca, a un giornalista che gli faceva notare che tanto l'Italia quanto la Grecia sono paesi aderenti all’alleanza atlantica, ma che la seconda, a differenza della prima, si era rifiutata di prendere parte a questa aggressione criminale, rispose che l’Italia era un paese importante, che non poteva permettersi gli atteggiamenti della Grecia. Questi sono i "comunisti" del nostro tempo, gente che è passata in allegria dall'adorazione di una forma estremista di marxismo all'apologia dei bombardamenti "umanitari" e del sionismo. Il cinico diplomatico Sergio Romano, intellettuale che piace poco alle "anime belle" e ai sepolcri imbiancati, aveva profeticamente scritto che "Il mondo che ci aspetta dopo la Guerra del Golfo sarà, se possibile, ancora più duro e impietoso di quello che abbiamo conosciuto negli anni della guerra fredda". Non solo si è verificato più duro e impietoso, ma anche più ipocrita e ingiusto. L'unica mossa possibile per sottrarsi a questa eclissi della ragione e per conservare un minimo di dignità umana prima che intellettuale è considerare i fatti per quello che sono, chiamare le cose con il loro nome, opporsi alla stagnante retorica "dei diritti umani" da attivare a corrente alternata, a seconda di chi siano gli intestatari della bolletta della luce. E, come scrisse Marino Badiale, "Chiamare per nome (D'Alema, Veltroni, Dini, Scognamiglio, Cossutta, Manconi, si allunghi la lista a piacimento) gli irresponsabili cialtroni che si rendono, ci rendono, complici di questa infamia".