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Bisogna finire, bisogna cominciare. (Oltre la destra e la sinistra) II parte

di Marino Badiale, Massimo Bontempelli - 28/07/2010

PARTE SECONDA. COMINCIARE UNA NUOVA STORIA.

1. Nuove demarcazioni.
In questa seconda parte cercheremo di mostrare che la perdita di significato politico dell’opposizione di destra e sinistra non equivale alla fine della lotta per gli ideali di emancipazione che furono della sinistra. Essa corrisponde piuttosto alla nascita di nuove opposizioni, di nuove linee di demarcazione fra ipotesi differenti sulla società. Cercheremo inoltre di indicare alcune idee generali a partire dalle quali una forza politica alternativa potrebbe affrontare i problemi che la realtà contemporanea presenta. Proprio questo esame di alcuni dei problemi contemporanei mostrerà concretamente che la scelta di affrontarli secondo principi di opposizione a quelli oggi dominanti porta necessariamente al di là di destra e sinistra.  
Abbiamo sopra accennato a nuove linee di demarcazione. La principale fra di esse è proprio quella che nasce attorno alla nozione di sviluppo. Ricordiamo quanto abbiamo detto nella prima parte: oggi lo sviluppo capitalistico (l’unico sviluppo che c’è) è inequivocabilmente de-emancipatorio, porta cioè la società in direzione del tutto opposta a quella della realizzazione degli ideali di emancipazione. Oggi “sviluppo” significa abbassamento dei salari per recuperare competitività, riduzione e precarizzazione dell’occupazione per lo stesso motivo, distruzione del Welfare State per favorire la finanza internazionale . E significa inoltre attacco agli equilibri ecologici in forme e modi che stanno ormai cominciando ad incidere sulla qualità della vita di larghe fasce della popolazione. Lo sviluppo capitalistico attuale è possibile solo sulla base di un sostanziale ritorno ad un crudele capitalismo discriminatorio e disegualitario di tipo ottocentesco, a cui si aggiungono i problemi ecologici che nell’Ottocento ancora non c’erano.
L’unica via per costruire una alternativa al mondo attuale, che conservi gli aspetti migliori della cultura della sinistra e della destra, è quella della critica allo sviluppo. La lotta contro questo sviluppo, ormai compiutamente de-emancipatorio, è quindi il primo punto qualificante di una forza politica di alternativa al mondo attuale. Solo a partire da qui sarà possibile affrontare le tante questioni che il mondo moderno ci sottopone.
Facciamo qualche esempio. Nella discussione sui problemi energetici è ben nota la contrapposizione fra i sostenitori del nucleare e i sostenitori delle energie rinnovabili come l’eolico e il solare. Si può osservare in primo luogo che questa contrapposizione non corrisponde del tutto a quella di destra e sinistra (c’è una sinistra nuclearista come c’è una destra ecologista), e questo è un ulteriore indizio della scarsa rilevanza attuale dell’opposizione destra/sinistra. Ciò che più conta, però, è rilevare come il confronto fra le diverse opzioni di politica dell’energia appaia bloccato per via di un presupposto che quasi mai viene discusso, appunto il presupposto dello sviluppo. La discussione è allora fra due posizioni entrambe favorevoli allo sviluppo, e verte sulla questione di quale opzione energetica sia in grado di assicurare lo sviluppo preservando contemporaneamente l’ambiente. Ma la risposta a questa questione è semplice: se si accetta il presupposto dello sviluppo non c’è nessuna soluzione nota del problema energetico che sia anche rispettosa dell’ambiente; le stesse energie alternative hanno effetti negativi, per esempio nel consumo del territorio . Lo sviluppo implica l’aumento dei consumi energetici, e quindi il continuo ampliamento delle strutture invasive destinate a reperire e distribuire l’energia, sia essa “pulita” oppure no. E’ evidente che occorre rifiutare il presupposto dello sviluppo e impostare il problema energetico a partire da tale rifiuto. Questa impostazione porta a privilegiare il risparmio dell’energia e le filiere corte sia per la produzione e distribuzione di energia sia per la produzione e distribuzione dei beni. Si tratta, come si vede, di una impostazione che non è né di destra né di sinistra.
Facciamo un altro esempio. Nel senso comune è dominante l'idea, non rispondente alla realtà, secondo la quale c'è una chiara distinzione fra destra e sinistra rispetto al tema dell'immigrazione: la destra vuole respingere gli immigrati, la sinistra vuole accoglierli. E’ facile però rendersi conto che tale contrapposizione, se mai vi è stata in passato, è ormai venuta meno. Le concrete prese di posizione delle due parti tendono a convergere verso una posizione mediana: accettazione di un numero limitato di immigrati regolari , che vengono invitati a “integrarsi” e a “rispettare le regole”. Le residue differenziazioni fra destra e sinistra consistono in sfumature di questa posizione comune: la destra è più chiusa rispetto alle diversità culturali degli immigrati e la sinistra è più aperta; entro i limiti dati, la destra tende a ridurre il numero degli immigrati da accettare e la sinistra ad ampliarlo. Le posizioni più radicali, di rifiuto totale dell’immigrazione o di tendenziale accoglienza universale, sono oggi proprie di gruppi minoritari (settori della Lega e dell’estrema destra, sinistra radicale), e anche in questi casi si tratta di slogan più che di scelte politiche concrete.
E’ facile capire come tutte le posizioni esaminate sull’immigrazione siano contraddittorie e impossibili da applicare, e come questa impossibilità discenda dalla sostanziale accettazione dei vincoli dello sviluppo capitalistico, e dal fatto che i flussi immigratori sono legati a tale meccanismo. Non si può seriamente pensare di bloccare il flusso degli immigrati, non si possono realmente attuare politiche universali di accoglienza, non si può circoscrivere l’immigrazione ai soli immigrati regolari. Perché non si possono realmente bloccare i flussi? In primo luogo la cosa è tecnicamente difficile e molto costosa. Si possono ovviamente fare molti gesti isolati, molti respingimenti che hanno effetti crudeli sulle persone coinvolte, ma rendere realmente impermeabili le frontiere è impossibile. Ma al di là di questa considerazione c’è un fondamentale aspetto economico: l’immigrazione rappresenta, per i paesi di arrivo fra i quali l’Italia, l’acquisizione di manodopera in condizioni di quasi-schiavitù, che permettono di abbassare il costo di molte produzioni e di rendere meno traumatica le lenta distruzione del Welfare State, grazie all’offerta a basso prezzo di cure alla persona. Inoltre l’immigrazione rappresenta un aumento del numero dei lavoratori, che è fondamentale, nell’attuale organizzazione economica, per tenere in ordine i conti finanziari da vari punti di vista, per esempio quello delle pensioni.
Ma questi motivi, che impediscono di operare realmente il blocco dell’immigrazione, sono gli stessi che impediscono una autentica politica di accoglienza, universale o ristretta agli immigrati regolari. Infatti, ciò di cui ha bisogno l’economia è proprio di manodopera senza diritti, quindi ricattabile in tutti i modi. La scomparsa, in un modo o nell’altro, dell’immigrazione clandestina, priverebbe la manodopera immigrata proprio di quelle caratteristiche che la rendono preziosa all’interno dello sviluppo capitalistico attuale.
Ma allora che fare di fronte al problema dell’immigrazione? Innanzitutto occorre rendersi conto che si tratta di un problema effettivo, e quindi occorre liberarsi dalle immagini illusorie (tipiche della sinistra) di una armonica società multiculturale. In un paese come l’Italia, gravato da tanti problemi, l’immigrazione rappresenta un ulteriore elemento di tensione per il corpo sociale. D’altra parte bisogna liberarsi dalle illusioni (tipiche della destra) di soluzione del problema attraverso la riduzione dei diritti degli immigrati. E’ proprio la privazione di diritti a rendere gli immigrati carne pregiata per l’accumulazione capitalistica, e quindi oggetto di una domanda da parte dell’economia: la privazione di diritti alimenta l’immigrazione . Allo stesso modo, non ha senso, nelle condizioni reali in cui si attua l’immigrazione, chiedere “il rispetto delle regole”. Le condizioni del rispetto delle regole dipendono da chi accoglie gli immigrati. Se il nostro paese non offre agli immigrati condizioni di vita decenti e in più di fatto tollera l’economia criminale e l’economia sommersa, è chiaro che crea tutte le condizioni perché non vi sia rispetto delle regole da parte degli immigrati.
Occorre rendersi conto che, nelle condizioni attuali, l’unica politica che può avere efficacia nel ridurre l’immigrazione è una politica indiretta. L’immigrazione dipende da una dinamica mondiale nella quale sono coinvolti fattori economici, ecologici, politici e militari nei confronti dei quali il nostro paese può fare ben poco. Non si può quindi pensare di eliminare il fenomeno, ma si può certamente proporre una politica che ne riduca le dimensioni e l’incidenza sulla tenuta sociale del paese. Come dicevamo, una politica di questo tipo dovrà essere una politica indiretta: occorre un percorso di ripristino della legalità, a partire dal ripristino dei diritti umani garantiti dall’articolo 2 della Costituzione, quotidianamente violati nei CIE voluti da destra e sinistra. Occorre poi una politica di contrasto generale, a tutti i livelli, nei confronti della criminalità, dell’economia sommersa, del lavoro nero e del lavoro privato di diritti, che sono gli ambiti che possono attrarre gli immigrati privi di alternative. E un tale percorso dovrebbe essere inserito all’interno di un’economia della decrescita, che rifiutando il dogma dello sviluppo rifiuti anche il lavoro semi-schiavile di cui oggi esso ha bisogno . Si tratta di un percorso che ridurrebbe la domanda del lavoro semi-schiavile offerto dall’immigrazione, e in questo modo ridurrebbe le dimensioni del fenomeno. Un percorso di questo tipo, per i motivi che abbiamo spiegato, è al di là degli orizzonti di destra e sinistra.
Facciamo un ulteriore esempio, e riprendiamo la discussione sopra svolta sullo stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco. Abbiamo fatto vedere come alcune risposte “di sinistra” siano in realtà delle non risposte, e come sia proprio il loro essere interne all’orizzonte dello sviluppo a renderle tali. Ovviamente la destra non ha, allo stesso modo della sinistra, nulla di sostanziale da dire. Ma che fare allora? Una possibile risposta è stata delineata in un bell’articolo di Guido Viale . Si tratta della riconversione ecologica dell’economia. Il punto fondamentale è che una simile proposta è concepibile solo fuoriuscendo dall’ottica dello sviluppo. Sviluppando le considerazioni di Viale, possiamo infatti osservare che una riconversione ecologica dell’economia dovrà essere indirizzata verso il risparmio di materie prime e di energia, e quindi, pur comportando investimenti, tenderà a far diminuire il Pil. Per lo stesso motivo, una tale impostazione non può essere lasciata alle libere forze del mercato perché porterebbe ad un aumento della disoccupazione. E’ inevitabile che in una tale riconversione varie fabbriche dovranno chiudere, e bisognerà quindi trovare modi per compensare i lavoratori della perdita del posto di lavoro, modi che potranno anche essere quelli suggeriti da Scalfari nell’articolo di cui abbiamo sopra discusso, e che potranno essere realizzati solo uscendo dall’ottica dello sviluppo. Fra queste “compensazioni” dovranno essere privilegiate quelle non monetarie (per esempio: requisizione di appartamenti sfitti offerti gratuitamente ai lavoratori). Questa impostazione (riconversione ecologica finalizzata al risparmio, accettazione della chiusura di fabbriche con compensazione dei lavoratori fatta gravare sui ceti dominanti) permette di mantenere vivi gli ideali storici della sinistra ma non è né di sinistra né di destra, ed è al contrario comprensibile e accettabile per chiunque, proveniente da sinistra o da destra, abbia superato e criticato l’ottica dello sviluppo .

2. Una logica diversa dell’agire sociale e politico.
Abbiamo fin qui fatto qualche esempio su come le diversità di obiettivi specifici chiamate a segnare una convincente linea di demarcazione tra destra e sinistra si dissolvano nella loro traduzione concreta. Rispetto ai problemi economici ed ecologici posti dalla necessità di usi crescenti dell’energia, l’obiettivo di rispondervi con tecnologie pesanti e rigide come il nucleare, e quello di rispondervi con tecnologie soffici e flessibili come il pannello solare, sembrano in astratto obiettivi molti diversi, ma in concreto sono simili in quanto obiettivi di sviluppo, economicamente ed ecologicamente inadeguati. Quel che occorrerebbe in concreto non è una tecnologia ancora diversa per alimentare usi crescenti di energia, ma usi decrescenti di energia nell’ambito di una decrescita della produzione di merci. Questa decrescita non è però un obiettivo specifico misurabile nella sua particolarità concreta, e neppure una configurazione generale di funzionamento della società, ma è una nuova logica secondo la quale compiere le scelte politiche e sociali.
Generalizzando queste considerazioni, possiamo affermare che ciò di cui abbiamo bisogno, per combattere la crisi di civiltà cui l’attuale organizzazione economica e sociale ci sta portando, è una nuova forza politica che sostenga non tanto un nuovo genere di obiettivi precostituiti da opporre agli obiettivi (solo retoricamente contrapposti) della destra e della sinistra, ma sostenga piuttosto un modo nuovo di costituire di volta in volta nuovi obiettivi.
Gli obiettivi di destra e sinistra, retoricamente esibiti e contrapposti, celano una logica comune di distruzione crescente della coesione sociale, dei diritti umani, dell’identità nazionale e dell’ambiente naturale. Bisogna a questa logica contrapporre un’altra logica, del tutto incompatibile con la prima, secondo cui indicare percorsi, fissare parametri, perseguire obiettivi, adottare ragioni.
La logica delle scelte sociali da cui sono guidate destra e sinistra è la logica conseguente alle ragioni dei mercati finanziari, in cui sono incardinate le regole europee di gestione della moneta, dei bilanci e dei debiti. Abbiamo già detto del carattere distruttivo di tale logica. D’altra parte, disobbedire a ciò che i mercati impersonalmente esigono come mezzi necessari ai profitti significa subire i loro attacchi speculativi, che possono affondare monete, banche e Stati. Per contraddire la logica mortale dei mercati finanziari occorre preventivamente privarli delle armi che rendono possibili e devastanti i loro attacchi speculativi, vale a dire le enormi masse di denaro che possono spostare, e l’assoluta libertà di movimento con cui possono portarle facilmente e rapidissimamente ovunque. Una politica responsabile verso la nazione dovrebbe sottoporre i movimenti dei capitali a filtri di  controllo, a condizioni limitatrici, ed a secche proibizioni di formule contrattuali troppo opache e rischiose. I capitali messi in movimento speculativo, inoltre, dovrebbero venire tassati in maniera implacabile e spoliatrice.
Una politica di tal fatta, resa purtroppo finora impensabile ai livelli decisionali del paese, non sarebbe né di destra né di sinistra, dato che destra e sinistra sono entrambe identificate con la necessità di obbedire ai mercati, ma sarebbe una semplice e lineare espressione di una logica di giustizia.
La giustizia non è, come ha capito per primo Platone, il contenuto normativo di una decretazione umana o divina, ma è una logica distributiva, la logica secondo cui a ciascuno spetta ricevere ciò che intrinsecamente corrisponde alla sua sapienza, al suo coraggio, ed all’attività che è chiamato a svolgere a vantaggio della società oltre che suo proprio . A ciascuno il suo, rettamente e profondamente inteso, è davvero il principio della giustizia. La giustizia, dunque, non è l’eguaglianza, secondo un’identificazione sostenuta un tempo dalla sinistra (e poi da essa ripudiata in modo vergognoso). O meglio, la giustizia è anche eguaglianza, non però nel senso di un universale livellamento degli individui (che è anzi ingiustizia, perché non dà a ciascuno il suo), ma nel senso che entro uno stesso livello di espressione di doti umane (e non tra livelli diversi) le condizioni ricevute da ciascuno devono essere uguali. C’è poi un livello di espressione umana che consiste nella dignità ontologica del semplice essere uomo e donna. La giustizia, proprio perché consiste nel riconoscere a ciascuno il suo, esige dunque l’universale rispetto della dignità dell’essere umano in quanto tale. Questa dignità è calpestata quando l’individuo è privato delle risorse economiche indispensabili ad esprimerla socialmente.
La nozione di dignità umana nella sua connessione con la maniera in cui è organizzata la produzione economica compare ripetutamente nella Costituzione italiana, che è ispirata da una logica di giustizia, e che perciò è stata rinnegata di fatto dalla sinistra, con l’ipocrisia di esaltarne lo spirito sul piano puramente verbale. L’articolo 36 della Costituzione esige che la retribuzione del lavoratore sia tale da consentire “un’esistenza libera e dignitosa” non soltanto al lavoratore stesso, ma anche ai suoi familiari. L’articolo 41 riprende esplicitamente la nozione di dignità, parlando di una “dignità umana” (e di una sicurezza sul lavoro in essa inclusa), cui l’iniziativa economica privata, della quale è riconosciuta la libertà, non può in alcun caso arrecare danno. L’articolo 37 presuppone la dignità della donna lavoratrice e del minore avviato al lavoro riconoscendo loro, a parità di lavoro, retribuzione pari a quella del maschio adulto, ed esigendo limiti minimi di età e speciali forme di tutela per il lavoro dei minori. L’articolo 38 presuppone un’intatta dignità umana nelle situazioni in cui il lavoro è impedito da malattie, infortuni, vecchiaia e licenziamenti, e stabilisce che chi, in queste situazioni, manca di mezzi di sostentamento, ha un vero e proprio diritto ad essere mantenuto dallo Stato.
E’ ben noto che i governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi tre decenni, di destra e di sinistra, hanno fatto carta straccia di questi articoli della Costituzione. Basta guardare la realtà delle cose oggi in Italia per vedere come questi e tanti altri articoli della Costituzione siano totalmente disattesi: il lavoro precarizzato e talvolta, specie per gli extracomunitari, addirittura schiavile, cancella ogni progetto individuale di vita e ogni rispetto della dignità delle persone; l’iniziativa economica privata viene foraggiata con denaro pubblico e lasciata libera di creare lavori senza sicurezza né economica né fisica per i lavoratori; le donne sono sfavorite rispetto agli uomini nelle retribuzioni e nelle carriere; gli ingressi nel lavoro sono spesso sottopagati o addirittura non pagati; e una generale assenza di protezione sociale costringe ad accettare lavori senza diritti.
La ragione di tutto questo è semplice: la destra e la sinistra in politica, e naturalmente le classi dominanti nell’economia, ritengono ineludibile la logica del governo della società da parte dei mercati, che è oggi incompatibile con ogni altra logica, in particolare con quella della Costituzione e della giustizia, che viene perciò resa dalla prima totalmente inoperante .
Una nuova forza politica, oltre l’orizzonte dell’alternativa di destra e sinistra, dovrebbe prima di tutto individuare la necessità, per salvare l’Italia dallo sfacelo sociale e civile, di un’inversione completa delle priorità valoriali. La logica della giustizia e, sul piano giuridico, della Costituzione formalmente vigente (ma di fatto inoperante) deve essere considerata assolutamente inderogabile.

3. Difesa della giustizia e decrescita.
Un primo fondamentale punto di partenza per una forza politica di alternativa dovrebbe essere il seguente: occorre pretendere che nessuno in Italia, ma proprio nessuno, sia privo dei mezzi necessari per costruirsi un percorso di esistenza adeguato, secondo giustizia, alle proprie doti personali, e per viverlo serenamente, e che nessuno, ma proprio nessuno, sia costretto ad un lavoro che gli rubi il tempo e l’energia per una vita sensata e metta a repentaglio la sua sicurezza fisica. Folle utopia? No, unica alternativa realistica alla totale disarticolazione della nostra società nel caos e nella violenza diffusa. Impossibilità economica? No, come ci accingiamo a spiegare. La sola difficoltà, certo gigantesca, è quella di spazzare via l’intero ceto dirigente istituzionale, di governo e di sedicente opposizione, che ostruisce ogni possibile via d’uscita all’attuale stato di degradazione.
Sul piano economico ci sono ben quattro fonti di finanziamento dei grossi costi richiesti dall’attuazione della Costituzione per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti previsti dal titolo terzo della sua prima parte, quella relativa ai rapporti economici. Le elenchiamo in ordine decrescente rispetto all'entità delle risorse che esse renderebbero disponibili :
1. Imposta ordinaria sul patrimonio complessivo delle persone fisiche e giuridiche, capace di prelevare le ricchezze là dove si sono concentrate e ingigantite negli ultimi decenni attraverso la crescita delle diseguaglianze sociali e dell’evasione fiscale. L’aliquota non dovrebbe essere alta, perché l’imposizione non dovrebbe essere straordinaria, ma permanente come quella sul reddito, in modo da assicurare regolari entrate annuali.
2. Eliminazione dei costi della corruzione, che gravano pesantemente sui bilanci pubblici, perché accrescono capillarmente in tutti i settori le spese per gli appalti e creano nuove spese per opere inutili o lasciate incompiute. L’attuazione di questo punto esige una riforma del sistema giudiziario che gli dia i mezzi per operare in modo efficace e rapido, e che ne accetti e solleciti il controllo di legalità sulla vita pubblica. Gli sprechi nella spesa pubblica, di cui tanto si parla, quando sono veramente tali non sono che il risvolto di fenomeni corruttivi.
3. Riduzione delle spese militari attraverso la fine di tutte le operazioni di guerra, disgustosamente chiamate missioni di pace, fuori dall’Italia, e la correlativa fine dell’acquisto dei sistemi d’arma ad esse necessari.
4. Riduzione del costo del ceto politico mediante la riduzione sia del numero delle cariche di elezione o nomina politica sia dell’entità dei compensi che assicurano, e mediante la soppressione di spese indirette come i rimborsi elettorali e i finanziamenti alla stampa di partito .
Atttraverso queste quattro fonti di prelievo di ricchezza potrebbero venire mobilitate grandi risorse per finanziare un piano nazionale di piena occupazione e di rispetto del diritto della persona al riconoscimento della sua dignità sociale nel lavoro.
Eppure ciò non basterebbe, perché si tratterebbe comunque di prelievi dal Prodotto Interno Lordo, che per sua natura deriva dal valore monetario delle merci, ed è perciò alimentato dal circuito commerciale e dalla competitività aziendale che vi dà accesso. Come abbiamo spiegato nella parte iniziale di questo saggio, l’incremento del Pil, cioè lo sviluppo, implica, in un paese come l’Italia e in questa fase storica, riduzione dell’occupazione e perdita di diritti del lavoro. Una logica di rispetto della dignità del lavoro tende perciò a contrarre il Pil, contraendo, a parità di criteri di prelievo, le risorse che ne vengono tratte.
Per affrontare questo problema, guardiamo la questione da un altro punto di vista. Oggi la dignità delle persone è compromessa anche dal fatto che mancano o sono resi progressivamente meno efficienti e meno accessibili i servizi pubblici necessari a soddisfare bisogni essenziali. Gli imperativi della competitività derivanti dalla logica dei mercati fanno infatti arrivare sempre meno risorse a questi servizi, obbligando ad una loro gestione aziendalistica, che comporta minori gratuità per gli utenti e un minor numero di addetti per le prestazioni, con conseguenti riduzioni quantitative e qualitative delle prestazioni stesse. Dappertutto i servizi pubblici hanno piante organiche inferiori al passato, e quasi mai coperte per intero nonostante il minor numero di posti da coprire. Mancano così infermieri negli ospedali, con grave pregiudizio per la cura e per l’umanità nei confronti dei pazienti; mancano addetti all’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, con l'effetto o di un loro abbandono in condizioni degradanti o di un pesante onere per le famiglie; manca il personale per asili nido e scuole materne, rendendo difficile la vita alle donne lavoratrici con figli piccoli; mancano professori e custodi nelle scuole, degradandone il servizio; manca personale di sportello negli uffici, rubando alle persone tempo di vita con le lunghe code necessarie per qualsiasi adempimento burocratico; si viaggia su treni talvolta con un solo macchinista e un solo ferroviere, esposti a pericoli di vario genere, e si transita in stazioni abbandonate di notte.
Immaginiamo ora che una politica di piena occupazione porti ad immettere al lavoro, nei servizi pubblici prima menzionati e negli altri, tutto il personale necessario a garantire un loro ottimo funzionamento. Immaginiamo che, con un numero sufficiente di infermieri, alcuni di loro possano venire destinati, per una parte del loro tempo di lavoro, all’assistenza domiciliare di qualche anziano. Immaginiamo che per svolgere questo servizio abbiano a disposizione locali in cui possano vivere, individualmente o con qualche loro congiunto . L’anziano non autosufficiente disporrebbe di un salario indiretto costituito dal risparmio delle spese per una badante o del tempo dei suoi familiari, l’infermiere disporrebbe di un salario indiretto costituito dal risparmio di un canone d’affitto. I rispettivi salari indiretti aumenterebbero il tenore di vita dei due soggetti persino con una qualche diminuzione dell’erogazione finanziaria nei loro confronti (ad esempio con un salario leggermente inferiore all’infermiere in presenza di un suo ben più consistente risparmio nell’affitto della casa). D’altra parte le spese risparmiate dall’anziano per una badante, sostituite da un servizio non passante per via mercantile, corrisponderebbero ad una decrescita della produzione di valori di scambio.
Oppure si pensi al salario indiretto che può offrire una scuola materna che accolga in modo gratuito i bambini, magari, in conseguenza di una politica di piena occupazione, dalle abitazioni del proprio circondario, e quindi senza costi di combustibile, e magari facendo mangiare loro i cibi del proprio orto. Chi disponesse di un salario indiretto di questo tipo risparmierebbe tempo e denaro, e potrebbe quindi godere di un più alto tenore di vita anche con un salario diretto leggermente più basso. Lo stesso lavoro di maestre e maestri di scuola materna, fornitori di questo salario indiretto, potrebbe a sua volta venire parzialmente retribuito con salario indiretto, costituito, ad esempio, dalla gratuità di servizi sanitari e servizi di trasporto.
Questi esempi servono a mostrare la possibilità logica di un miglioramento del tenore di vita individuale a Pil e spesa pubblica decrescenti.
La logica del rifiuto degli obiettivi, di destra o di sinistra, realizzabili solo attraverso lo sviluppo, e quindi insensati, vale a dire la logica della decrescita del Pil, è dunque l'unica logica di scelta sociale capace di rimuovere gli ostacoli economici ad una vita dignitosa delle persone. Occorre naturalmente che la contrazione del Pil sia una demercificazione dell'economia al di fuori dei parametri dello sviluppo, e non una crisi recessiva dello sviluppo, che avrebbe effetti sociali negativi anziché positivi. Per questo è necessario, come si evince dagli stessi esempi fatti, il contesto di una politica di piena occupazione e di intervento dello Stato nell'iniziativa economica privata e nei diritti di proprietà. L'esempio che abbiamo fatto di una scuola materna funzionale alla decrescita presuppone uno Stato in grado di assumere personale, disporre di una grande quantità di edifici pubblici, requisire terra per gli orti.
La logica della decrescita nega quindi la logica del mercato, così come la logica del mercato nega la logica della decrescita, ovvero ogni logica di giustizia e rispetto della dignità delle persone. La logica del mercato è la logica dello sviluppo perché lo sviluppo è accrescimento del Pil, vale a dire del valore complessivo delle merci di cui il prodotto interno lordo consiste, ed il valore delle merci si realizza nell'ambito del mercato, secondo la sua logica. La logica del mercato, come funzione della logica dello sviluppo, è la logica della competitività aziendale. Se un'azienda vuole stare sul mercato, riuscendo a realizzarvi il valore delle merci che vi immette, e che vanno così ad accrescere il Pil, deve essere competitiva con le altre.
Per capire le conseguenze della logica del mercato riprendiamo ancora una volta il tema di Pomigliano e leggiamo la lettera scritta dall'amministratore delegato della FIAT Sergio Marchionne agli operai di Pomigliano per dire loro che la Panda sarà costruita nella loro fabbrica. In un brano di questa lettera scrive:
“Le regole della competitività internazionale non le abbiamo scelte noi e nessuno di noi ha la possibilità di cambiarle. L'unica cosa che possiamo scegliere è se stare dentro o fuori dal gioco. Non c'è perciò nulla di eccezionale nelle nostre richieste. Abbiamo solo la necessità di garantire normali livelli di competitività ai nostri stabilimenti […] Non c'è niente di straordinario nel voler aggiornare il sistema di gestione, per adeguarlo a quello che succede a livello mondiale” .
Anche in una lettera tutta miele quale Marchionne avrebbe inteso scrivere (vi esordisce infatti dicendo che non parla come azienda, che è un'entità astratta, né tanto meno come padrone, quale non si sente, ma come persona che vuole comunicare in modo diretto ed umano con amici con i quali va deciso un comune futuro), traspare il veleno mortale della logica di mercato. Garantire ad uno stabilimento “normali livelli di competitività”, dice infatti Marchionne, è una necessità, altrimenti esso non sopravvive. Ma cosa determina i “normali livelli di competitività”? “Quello che succede a livello mondiale”, risponde giustamente Marchionne, per cui è a suo parere ovvio che “quello che succede a livello mondiale” costituisca il criterio a cui adattare il sistema di gestione di ogni stabilimento affinché sia competitivo. Il mercato mondiale spinge dunque ad innovare i sistemi di gestione in funzione dei suoi criteri di competitività, ma poi sono proprio le innovazioni accrescitive della competitività che, generalizzandosi, determinano ulteriormente quei criteri, rendendoli sempre più severi.
Ecco, chiaro davanti ai nostri occhi, il veleno: se la competitività “normale” per stare sui mercati cambia nel tempo, ovviamente in una sola direzione, cioè esigendo uno sfruttamento sempre più duro del lavoro, ed è escluso per principio un limite, appunto perché è escluso per principio non essere competitivi, cosa diremo quando per stare sui mercati occorrerà un lavoro di quindici ore giornaliere a pane e acqua? Diremo che questo è pur sempre meglio che morire proprio di fame? Accetteremo un referendum che chieda ai lavoratori: preferite quindici ore di lavoro ad acqua e pane sufficiente per voi e per le vostre famiglie, magari con l'aggiunta di un po' di buon companatico se di ore ne farete diciassette (soltanto, per carità, se deciderete voi stessi liberamente di accettare gli straordinari) oppure preferite morire fisicamente di fame, visto che l'azienda non può darvi nessun lavoro e nessun reddito in quanto ci sono polacchi disposti, pur di sopravvivere, a lavorare quindici ore al giorno a pane e acqua, ed anche ad essere frustati se non seguono i tempi giusti (e questo, pensate, non ve lo chiediamo neppure)?
Ecco: tutto il verbalismo insulso della destra e della sinistra, per cui per fare quello e quell'altro “ci vuole la crescita”, non si sente mai tenuto a rispondere a questa semplicissima obiezione: dopo l'avvento della cosiddetta globalizzazione, la crescita è impossibile senza competitività, è impossibile senza una progressiva perdita di diritti e dignità del lavoro, come è provato dai fatti stessi, perché proprio questo è avvenuto negli ultimi venti o trent’anni. Dobbiamo davvero continuare ad andare in questa direzione, fino all'avvento della schiavitù? Oppure dobbiamo uscire dai mercati? E’ sulla risposta a questa domanda che si gioca il discrimine vero fra chi si oppone alla degradazione della società contemporanea e chi la accetta. Destra e sinistra, con mille sfumature diverse, rispondono che non si può uscire dai mercati, il che significa che esse accettano la degradazione del lavoro, la distruzione dei diritti, il caos sociale, la violenza, la distruzione ambientale che il capitalismo attuale crea. E’ questa accettazione di fondo che rende appunto semplici sfumature le differenze che possono continuare ad esserci fra destra e sinistra. Chi voglia invece costruire una forza politica di alternativa alla crisi di civiltà che ci aspetta deve invece rispondere “sì, occorre uscire dai mercati”. Certamente uscire dai mercati non è indolore, e i danni dell'uscirne sono tanto maggiori, e persino insostenibili, quanto più la configurazione economica generale dipende dai flussi del commercio internazionale. Ma se puntassimo davvero sulla decrescita, consumando sempre più beni non in forma di merci, e sempre più merci provenienti da filiere corte e stagionali, riducendo drasticamente consumi energetici e produzione di rifiuti, ed ampliando aree di produzione economica cooperativa o statale a scapito di quelle private e commerciali, il paese potrebbe non stare sui mercati e non tributare i suoi sacrifici umani al dio della competitività. Se tutto ciò non risulta chiaro, è perché non siamo ancora usciti dal nebbioso politichese di destra e di sinistra, con i suoi luoghi comuni dementi, ma ancora influenti. Il ripristino di un linguaggio che parli della realtà è un altro dei grandi temi di una forza politica di alternativa.

4. Tornare ad un linguaggio che parli della realtà.
Chiunque sia interiormente orientato da una logica di ricerca della trasparenza e della verità delle cose è spinto prima di tutto da un suo istinto mentale al disgusto verso l'intero spettro della politica istituzionale segnata dalle articolazioni di destra, centro-destra, centro, sinistra moderata e sinistra cosiddetta radicale . Ciò che suscita un disgusto primario, anteriore cioè alla considerazione stessa delle dinamiche di potere svolte entro quello spettro, è il verbalismo retorico vacuo e truffaldino dei loro protagonisti, con il quale essi fanno evaporare la realtà nelle parole, negano di fare ciò che fanno, si attribuiscono meriti che non hanno, e conciliano nei discorsi ciò che è inconciliabile nei fatti, in modo da dare per già fatto ciò che non hanno alcuna intenzione di fare. I politicanti dell’Italia contemporanea hanno inventato un linguaggio-argilla, che può esserre manipolato in tutti i modi, e che permette loro di non  essere mai vincolati a nessuno impegno. L’invenzione di questo linguaggio è una conseguenza della trasformazione del ceto politico da rappresentante degli interessi dei diversi ceti sociali a ceto sociale autoreferenziale, che cura solo i propri interessi, e che lascia la società in balia dell’economica capitalistica. Il meccanismo di questa trasformazione, e lo svuotamento di destra e sinistra che essa comporta, li abbiamo descritti nella prima parte. Il fatto che destra, centro e sinistra convergano nell’uso di un linguaggio privo di qualsiasi aggancio con la realtà è un indizio in più della loro sostanziale omologazione. Così, non è importante sapere chi sia stato a inventare espressioni ignobili come “missioni di pace” per definire interventi di guerra fuori d'Italia. L’importante è capire che un ceto politico che fa proprie simili espressioni è in grado di dire qualsiasi cosa. Potrebbero dirci che sono dimagriti arrivando a pesare dieci chili più di prima, che sono saliti dalla pianura in collina percorrendo una strada sempre in discesa, che hanno spento un incendio con getti di benzina. Ed in effetti ci dicono ogni giorno cose simili. Che vogliono i CIE per gli extracomunitari, ma nel rispetto dei diritti di costoro. Che sostengono il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato in Palestina, ma in uno spirito di amicizia e nel rispetto della cooperazione politica e militare con lo Stato di Israele (Stato nato e cresciuto come coloniale, etnico e religioso, e disposto a far nascere uno Stato palestinese come l'OAS lo sarebbe stata a far nascere uno Stato algerino). Che auspicano la costruzione di rigassificatori marini, ma sicuri e rispettosi dell'ambiente. Il vertice di questo assurdo linguaggio senza referente è stato forse toccato l'anno scorso dall'esponente del PD spezzino Moreno Veschi. Riferiscono i giornali di allora che, dopo la campagna scatenata sul suo blog da Beppe Grillo, ed una inedita mobilitazione di gruppi ambientalisti, il Consiglio regionale della Liguria ha votato l'esclusione del parco naturale di Monte Marcello dall'applicazione dell'appena annunciato piano-casa di Berlusconi, autorizzante aumenti di cubatura edilizia e cambi di destinazione d'uso di locali in deroga alle norme urbanistiche. Ebbene: subito dopo il voto il consigliere regionale Moreno Veschi si è rivolto ad una persona presente nel pubblico dicendogli: “Visto? Siamo finalmente riusciti a salvare il parco di Monte Marcello!”, proprio lui, che dodici ore prima (dodici ore soltanto, neppure un giorno prima!) si era opposto ad un emendamento volto a salvare il parco dal cemento, per poi accodarsi al nuovo atteggiamento strumentalmente assunto dal suo partito .
Moreno Veschi può venire dunque considerato la raffigurazione stessa del linguaggio vuoto, senza verità e senza significato, adottato da tutto intero il ceto politico. Quando ad esempio, Prodi, appena tornato nel 2006 a governare l'Italia con una coalizione di centro-sinistra che lasciava qualche strapuntino di potere a Rifondazione comunista, ha predisposto una legge finanziaria che ha ritoccato qualche aliquota fiscale, la stessa Rifondazione comunista ha fatto comparire nelle città un suo manifesto in cui sotto l'immagine di un'imbarcazione di lusso campeggiava una scritta “Anche i ricchi piangono”. Forse Prodi aveva preparato un'imposta patrimoniale sulla grandi ricchezze? Oppure aveva deciso di tassare le rendite finanziarie secondo la media europea, e non meno della metà di quanto fosse tassato un povero libretto di risparmio postale? Oppure aveva riportato le aliquote fiscali sui redditi massimi a quelle che erano state vigenti nell'Italia democristiana? Nulla di tutto questo. Limitati e cervellotici cambiamenti di aliquote erano stati predisposti riguardo ai redditi di fascia media e medio-alta, tassando un po' di più i redditi medi superiori e un po' di meno i redditi medi inferiori, scontentando giustamente tutti gli interessati (i beneficiati accorgendosi che i loro benefici erano spiccioli, gli aggravati ritenendosi vittime di un'ingiustizia), senza neppure sfiorare i redditi alti e altissimi. Perché allora i ricchi avrebbero dovuto piangere? Semmai potevano ridersela. Si è trattato, è evidente, di un puro verbalismo senza contenuto, il cui scopo era di propagandare l'immagine di una Rifondazione che è entrata nel governo per togliere ai ricchi e dare ai poveri.
All’inizio del 2007 vi è in Parlamento la relazione sulla politica estera del governo Prodi. Due parlamentari della maggioranza (Turigliatto di Rifondazione e Rossi del PdCI) fanno mancare il loro voto, per esprimere la loro opposizione alla partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan, rischiando di far cadere il governo. Il mondo mediatico e intellettuale della sinistra scatena una campagna di lapidazione morale dei due, dagli attacchi diretti del segretario di Rifondazione Comunista Franco Giordano fino alle volgarità di Luciana Littizzetto durante la trasmissione Che tempo che fa, nel suo monologo comico davanti a Fabio Fazio.
Siamo anche in questo caso in presenza di un linguaggio che non tiene più conto della realtà, se si tiene presente che Rifondazione e Comunisti Italiani avevano in precedenza sempre votato contro la spedizione in Afghanistan. I dissidenti non erano dunque Turigliatto e Rossi, ma tutti gli altri parlamentari di PRC e PdCI, che avevano votato questa volta in dissidenza dalle loro prese di posizione precedenti, semplicemente perché chi li chiamava al voto era Prodi e non Berlusconi.
Ancora sul linguaggio della cosiddetta sinistra radicale: tutte le volte che, trovandosi in una maggioranza di governo, ne ha avallato, pur di non esserne estromessa, provvedimenti contro il lavoro, ha usato, con meccanica e fastidiosa ripetitività, l'espressione “macelleria sociale”, per sostenere di averla potuta evitare soltanto con quell'avallo. Il linguaggio diventa in questo modo assurdo, perché evoca l'assenza di ciò che è presente e prodotto, come se uno dicesse, mentre sta mangiando, “non sto toccando cibo”. Così nel 1997, sotto il governo Prodi, l'approvazione parlamentare del cosiddetto “pacchetto Treu”, che apriva le porte all'inferno del lavoro precario e senza prospettive per i giovani, avvenne con il voto determinante di Rifondazione comunista, e tale voto, che fu un vero atto di “macelleria sociale”, se le parole devono avere un senso, fu presentato come un atto che era servito ad impedire la “macelleria sociale” .
C'è dunque un'altra necessità, oltre quella imposta dalla logica della giustizia che abbiamo prima considerato, di andare oltre la falsa dicotomia destra-sinistra, ed è la necessità di non far morire quello che i greci chiamavano il logos, cioè un linguaggio che nel suo articolarsi sia svolgimento del pensiero, esprimendo la realtà e la verità delle cose.
Il ceto politico nella sua interezza negli ultimi decenni ha diffuso una retorica della comunicazione in cui non c'è la minima traccia di logos, perché le sue parole non aderiscono a nulla che non sia una valorizzazione pubblicitaria di chi le dice, senza alcun referente nello stato dei fatti. Questa retorica della comunicazione senza logos produce le risse televisive tra politicanti di destra e di sinistra, che cercano di sopraffarsi a vicenda senza conoscere ciò di cui parlano e senza far capire nulla al telespettatore. In questo c'è un'enorme responsabilità di quasi tutti i conduttori, che quando trattano un tema di attualità chiamano a dibatterlo, nei loro salotti televisivi, la solita platea affollata di politicanti di destra, centro e sinistra che si beccano senza costrutto come galli nel pollaio, mentre si dovrebbero far parlare soltanto persone competenti.
Il fatto che il vuoto verbalismo senza traccia di logos sia diventato bastevole alla comunicazione politica ha contribuito, accanto ai meccanismi sempre più perversi di selezione del ceto dirigente, a portare in parlamento e nel governo figure opache e senza radici culturali né consapevolezza storica, puri manichini del presente. Non dobbiamo dare più peso alle distinzioni tra destra e sinistra entro il ceto politico anche perché non dobbiamo più sopportare di essere in mano a politicanti, quali sono quelli di destra e di sinistra, per cui la cultura, le ragioni, la sostanza delle questioni, non hanno significato, non avendo essi neanche le parole per significarle.

5. Non consumiamo il territorio.
L'Italia è trascinata nel baratro, oltre che dall'imperativo della competitività che la spinge verso la cancellazione dei servizi sociali e la riduzione del lavoro a schiavitù, anche dagli obiettivi di uso del territorio per generare profitti privati, introiti comunali e finanziamenti politici, che la spinge al dissesto geologico, alle frane che inghiottono abitati, all'avvelenamento delle falde acquifere, alla compromissione del turismo.
Destra e sinistra mettono continuamente in campo obiettivi specifici, talora diversi talora simili o identici, di uso del territorio come mezzo di produzione di plusvalore. Per quanto riguarda gli obiettivi messi in campo dalla destra, si pensi alla grande tangenziale esterna est di Milano, voluta dal presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, e all'espansione delle infrastrutture edilizie nel cosiddetto Parco Sud, l'unica area verde di Milano sopravvissuta, voluta dal sindaco di Milano Letizia Moratti. Per quanto riguarda gli obiettivi messi in campo dalla sinistra, si pensi ad una regione come la Liguria, negli ultimi decenni quasi continuamente amministrata dal centrosinistra, che ha accettato la costruzione di sempre nuovi porticcioli turistici, il progetto del raddoppio dell'autostrada a Genova (la cosiddetta “gronda”), la costruzione di un parcheggio sotterraneo a Genova nel sito dello storico parco dell'Acquasola. Su scala nazionale, la destra è favorevole al megaponte sullo stretto di Messina, a cui tutta la sinistra è contraria. Ma si trovano nel PD i fautori dell'alta velocità ferroviaria, come i piemontesi al seguito del sindaco di Torino Chiamparino, volutamente immemori dei disastri ambientali prodotti dai cantieri dell'alta velocità in una vasta area tosco-emiliana, fortemente voluti dagli esponenti del PD di quelle regioni, Bersani in testa.
La salvaguardia della nazione esige che agli obiettivi, differenziati o identici, della destra e della sinistra, di uso del territorio a scopo di profitto economico, una nuova forza politica contrapponga non obiettivi diversi, ritenuti più razionali e più ecocompatibili, ma una logica opposta a quella che guida la scelta di quegli obiettivi, vale a dire una logica di assoluto non ulteriore consumo del territorio. Qui è importante sottolineare l'aggettivo assoluto: il consumo del territorio deve cioè essere arrestato del tutto, senza più alcuna grande opera aggiuntiva, senza più neppure pale eoliche e sistemi fotovoltaici, ad eccezione, tra questi ultimi, di quelli impiantabili su territorio già consumato, come sui tetti degli edifici. Si tratta ora di spiegare la necessità di questa assolutezza.
La logica del consumo del territorio è imposta dalla logica della crescita. Se cioè si ritiene necessaria la crescita annuale significativa del Pil (e destra e sinistra concordano nel ritenerla assolutamente necessaria, perché entrambe non sanno concepire altre realizzazioni sociali se non mercantili, e quindi realizzabili soltanto con finanziamenti prelevati dal prodotto interno lordo), poiché manifatture e servizi generano oggi nel loro complesso ben poco plusvalore, e poiché sul terreno produttivo, a prescindere cioè dalla finanza, solo il consumo del territorio assicura un'alta redditività, per molteplici ragioni (drenaggio massiccio e nascosto di risorse pubbliche, possibilità di sfruttamento molto pesante di mano d'opera, facilità di elusione fiscale, alta domanda finale da parte di pubblici amministratori e privati speculatori), non si può far altro che promuovere il consumo del territorio.
Senonché, al punto in cui siamo giunti in Italia, il consumo del territorio è una triplice follia. È follia, in primo luogo, perché il dissesto idrogeologico del paese è tale che la sua ulteriore cementificazione non può che moltiplicare disseccamenti e avvelenamenti di corsi d'acqua, e, contemporaneamente, tracimazioni e frane, con la finanza pubblica chiamata a pagare i danni del profitto privato dissennatamente perseguito.
Il consumo del territorio è follia anche perché, al punto in cui siamo, esso non può che completare la distruzione già avanzata della bellezza dei paesaggi italiani e della straordinaria eredità storico-archeologica del paese. Si pensi che secondo l'ONU l'Italia possiede circa metà del patrimonio storico-artistico dell'umanità. Impoverire i siti archeologici, imbruttire i paesaggi naturali, alterare gli insediamenti storici, indebolisce la cultura e l'identità della nazione, cosa però di cui nulla importa ai nostri incoltissimi politicanti di destra e di sinistra. Rimane tuttavia il fatto che in questo modo non si coltiva il turismo, che difatti ha registrato già, nell'ultimo decennio, una significativa flessione, a vantaggio di altri paesi come la Spagna e la Croazia. Ora, puntare tutto sulla crescita del Pil, come fanno i nostri politicanti di destra e di sinistra, e nello stesso tempo depauperare una sorgente fondamentale di introiti mercantili, e quindi di crescita, come il turismo, non è certo sensato.
Il consumo del territorio è infine follia perché, all'intensità con cui avviene, si è calcolato che nel giro di pochi anni, forse appena una quindicina anni, non ci sarà più in Italia territorio da consumare senza spese esorbitanti. Dunque promuovere la crescita attraverso il consumo del territorio significa far correre il paese verso un arresto traumatico della crescita stessa, generando quindi non la decrescita della demercificazione, ma una grave crisi recessiva con tutti i danni economici e sociali che comporta.
Una logica di assoluto non ulteriore consumo del territorio consente invece di far convergere l'attività economica in una estesa e prolungata manutenzione dell'esistente, migliorando la qualità della vita degli abitanti, creando molti posti di lavoro, e rendendo possibile una parziale demercificazione dei loro compensi. L'assoluto non ulteriore consumo del territorio consente inoltre i necessari interventi riparativi sul territorio già consumato, valorizzando preziose competenze professionali, come ad esempio quelle dei geologi. L'assoluto non ulteriore consumo del territorio consente infine di risolvere l'emergenza abitativa che si è determinata in Italia. Uno dei pregiudizi più diffusi, ma completamente sbagliati, è che per dare casa a chi non ce l'ha occorra costruire nuove case. Si pensi che secondo le statistiche ufficiali dell'ultimo mezzo secolo (1960-2010) la popolazione italiana è cresciuta del 25%, mentre il numero delle case costruite è cresciuto nello stesso periodo del 250%. Non dovrebbe quindi esserci nessuno senza casa. Invece, dopo il rifiuto democristiano, nel 1964, di accettare la posizione di Riccardo Lombardi secondo cui a quel punto la cosa più urgente da fare per l'Italia era una legge urbanistica che abolisse la proprietà privata dei suoli e riconoscesse ai privati solo un diritto di edificabilità su concessione pubblica, e di dar corso ad un progetto di legge del genere predisposto da un ministro democristiano, Fiorentino Sullo, l'edilizia pubblica è diminuita decennio dopo decennio. Le case le hanno costruite sempre più soltanto i privati, in un'ottica di sfruttamento selvaggio, e perciò redditizio, del territorio, ma proprio per questo si è trattato in larga parte di ville per ricchissimi, di seconde e terze case di villeggiatura per i ceti medio-alti, e di case per grandi società immobiliari intenzionate a lasciarle sfitte per innestarvi circuiti di compravendite speculative, come se si trattasse di azioni (si pensi ad un Ricucci). Promuovere il consumo del territorio significa dunque bensì costruire, ma non dare casa a chi ne ha bisogno. Non consumare territorio significa invece spezzare una crescita speculativa e malata dell'edilizia (fonte, ma questo richiederebbe un altro lungo discorso, di uno sfruttamento brutale del lavoro che ne fa luogo di incidenti mortali, e di grandi investimenti e guadagni per mafie di ogni genere) e rendere così possibile la destinazione delle case già pronte per essere abitate, e di quelle che potrebbero esserlo con lavoro di manutenzione della mano pubblica, a quanti sono oggi senza casa.
Un altro aspetto del consumo del territorio è l'invasione degi spazi pubblici da parte della pubblicità. I luoghi di sosta dei cittadini (uffici postali, stazioni) sono invasi dalla pubblicità e da luoghi di vendita dei più diversi tipi. In questo modo tali luoghi pubblici accentuano il loro carattere di non-luoghi, meri supporti del flusso delle merci, e il cittadino, che vi si reca non per acquistare ma per altre esigenze, è così spinto all'acquisto inutile. Anche questo è un consumo del territorio da combattere.

6. Ripristino della legalità.
Abbiamo fin qui spiegato che una forza politica alternativa dovrebbe rifiutare la competitività mercantile per la dignità della persona, rifiutare la crescita del prodotto interno lordo per una decrescita delle merci migliorativa della qualità della vita, rifiutare il consumo economico del territorio per un suo reintegro sociale, rifiutare il verbalismo retorico privo di realtà per un linguaggio espressivo della verità delle cose.
Dovrebbe anche, però, perseguire una logica di legalità. La legalità, oggi, è disprezzata, a destra, per non mettere in questione il malaffare, e, a sinistra, per mantenere il primato della politica anche quando non è più vera politica ma pura lotta per le poltrone. Non c’è qui materia per una discussione razionale, perché le motivazioni in questi casi nascondono malamente gli sporchi interessi della casta politica.
L’unica critica al principio di legalità che abbia una dignità culturale è quella che viene dall'estrema sinistra, con l’argomento che la legge vigente è sempre quella delle classi dominanti, per cui il legalitarismo è contrario agli interessi delle classi subalterne. A questa obiezione si può rispondere che la realtà è più complicata, perché le leggi riflettono anche momenti di tregua nei conflitti di classe non svantaggiosi per le classi subalterne, e che le leggi che svolgono una certa funzione in una certa fase storica possono svolgerne un'altra in una fase successiva in cui sono rimaste vigenti. In Italia, in particolare, il principio di legalità rettamente inteso legittima, o addirittura impone, il rifiuto di leggi ordinarie alla luce di quella suprema fonte di legalità che è la Costituzione, e il punto decisivo è che il concreto percorso storico ha reso oggi la Costituzione stessa una trincea avanzata proprio nella lotta contro le classi dominanti (i cui esponenti non a caso ne chiedono spesso cancellazioni). Occorre quindi che forze nuove e fresche vadano a presidiare la trincea della Costituzione, per dare all'Italia l'unica rivoluzione al momento scritta nelle cose, una rivoluzione che spazzi via senza compromessi l'attuale ceto dirigente politico ed economico, per imboccare una nuova strada di civiltà dal percorso e dall'esito sociale non prefigurabile.
Chi pensa che lottare per imporre al paese una logica di legalità fondata sui principi della Costituzione sia poca cosa dovrebbe meditare su una considerazione fatta l'anno scorso dal procuratore Vito Zancani. Questi, parlando della realtà non di Corleone o di Casal di Principe, ma della padana Modena, ha affermato che se, magicamente dotato di poteri miracolosi, potesse far sì che nella città emiliana non andasse più a buon fine alcun reato, ne distruggerebbe l'economia, e non avrebbe il plauso di una popolazione ridotta in miseria.
Non si tratta di una battuta, ma della pura verità, perché oggi l'economia autoreferenziale del plusvalore, alimentata dalla crescita del Pil attraverso la crescita dello sfruttamento del lavoro e del consumo del territorio, può andare avanti solo violando continuamente ed estesamente le stesse leggi borghesi. Battersi per la legalità significa dunque oggi spingere al deragliamento l'economia del plusvalore, ed allo sfaldamento le basi di potere del ceto politico, mettendo in difficoltà anche d'immagine le classi dominanti, che non possono rivendicare apertamente per se stesse la libertà di delinquere per svolgere le loro attività.
Una nuova forza politica oltre la destra e la sinistra deve dunque saper convincentemente proporre una politica della legalità, che deve partire dalla piena applicazione dell'articolo 104 della Costituzione, secondo cui la magistratura è un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. Sappiamo come in determinate situazioni, e con determinati soggetti, il potere indipendente della magistratura abbia dato luogo ad inconvenienti ed arbitrii. Ma, nella situazione odierna, non c'è cosa più importante che garantire la possibilità di un controllo di legalità della magistratura sull'attività economica e politica, quali che ne siano in pratica i limiti. Per contrastare questi limiti occorre promuovere trasparenza e velocità dei processi. Cosa che né destra né sinistra hanno mai fatto, né mai faranno, perché proprio i dispositivi costituzionali dell'indipendenza della magistratura, dell’inamovibilità dei giudici da parte del potere politico, dell'obbligatorietà dell'azione penale, fanno temere l'efficienza della giustizia, spingendo la casta politica a favorire l'inefficienza come unico mezzo per sottrarre il potere politico e quello economico ad ogni controllo di legalità. Le statistiche dicono del resto che la lentezza dei processi è costantemente aumentata sotto i governi indifferentemente di Berlusconi e di Prodi: entrambi hanno fatto mancare al sistema giudiziario i mezzi per funzionare .