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L’editto di Tessalonica

di Francesco Moricca - 28/07/2010

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L’Impero romano era nato pagano e tale avrebbe dovuto rimanere nella mente di Costantino anche dopo la sua personale “conversione”; a maggior ragione quando, spinto da impellenti necessità economiche a cercare per la sua riforma monetaria aiuto ai finanzieri cristiani, si vide costretto a promulgare il fatale Editto di tolleranza del 313. Ben sapendo dell’ostilità dei cristiani nei confronti e del paganesimo e del dominio di Roma, aveva creduto di potere imbrigliare il cristianesimo intromettendosi d’autorità nelle sue dispute teologiche interne, come appunto fece al Concilio di Nicea a cui volle partecipare come “vescovo di quelli che sono fuori della Chiesa”. Lasciò che ancora circolasse anche in documenti ufficiali e sulle monete la simbologia solare, favorì i pagani e tentò perfino di recuperare all’ortodossia cristiana gli eretici ariani.
Costantino era ben consapevole che il paganesimo come religione di stato era l’asse portante dell’Impero, perché a Roma tutto era incentrato sul rituale pubblico: dalla cerimonia degli auspici all’atto dell’assunzione di una carica amministrativa, al culto dell’imperatore nelle province affidato a speciali sacerdoti, alla puntigliosa osservanza di pratiche religiose antichissime, che garantivano l’identità culturale e il suo perpetuarsi nel tempo e di cui erano attori collegi prestigiosi come quelli degli Auguri, delle Vestali, degli Arvali. A titolo privato, e purché si osservasse la religione di stato e non si turbasse l’ordine pubblico, ognuno era libero di venerare qualsiasi divinità preferisse.
Nel tentativo di barcamenarsi nella situazione poco chiara che era venuta a determinarsi con l’Editto di Tolleranza, Costantino rifiutò di celebrare la cerimonia in onore di Giove Capitolino suscitando il malcontento del Senato in cui allora non vi erano cristiani, ma cercò, parimenti, in ogni modo di evitare che il dissidio per causa sua potesse aggravarsi fino al punto di una insanabile rottura. Il Senato non aveva più poteri decisionali, ma era comunque un’istituzione prestigiosissima circondata di un’aureola di sacralità e dalla quale erano tratti i più importanti funzionari dello stato. Nel 337, l’anno della sua morte, Costantino dimostrò la sua considerazione per il Senato con un editto in cui autorizzava nella città umbra di Spello il culto dell’imperatore e confermava i privilegi dei sacerdoti pagani. Ma egli voleva anzitutto imbrigliare il cristianesimo, il suo infido quanto indispensabile alleato. Per tale motivo si spinse sulla via di pericolose concessioni: conferì privilegi e terre al clero cristiano e lo esentò dal servizio militare.
Il suo successore e figlio Costanzo, cristiano fervente ed estraneo al realismo e all’intelligenza politica paterna, nel 356 prese a perseguitare i pagani e comminò la pena di morte per quelli che continuavano a venerare gli antichi dei. Quando però, nell’anno successivo all’incoronazione, si recò a Roma, fu talmente impressionato dalla dignitosa gravità dell’aristocrazia senatoria che finì col desistere dai suoi intenti persecutori.
Dopo il breve e glorioso principato di Giuliano, il restauratore del paganesimo, successero i cristiani Valente e Valentiniano. Il primo, che era ariano come Costanzo, invece di contenere le dispute fra ortodossi ed eretici come aveva fatto Costantino, le fomentò. Il secondo, uomo assai avveduto e autorevole, confermò in Occidente i privilegi dei sacerdoti pagani e incoraggiò l’antichissima pratica dell’aruspicina nel 371.
La situazione al crepuscolo del IV secolo era la seguente: il centro dell’Impero non era più Roma ma Costantinopoli dove il cristianesimo prosperava sebbene scosso da contrasti esasperati fra ortodossi ed eretici; a Roma il Senato perdeva terreno perché a grado a grado le massime cariche della burocrazia venivano concesse a persone di diversa provenienza sociale.
Tale fatto ingenerò nei senatori una crisi di identità per cui non pochi fra i membri dell’antica aristocrazia subirono la seduzione della promessa salvifica del cristianesimo e presero a convertirsi; anche perché, ormai, un vescovo contava più di un console e si avviava a conquistare un’autorità anche superiore. In questo processo involutivo dell’aristocrazia ebbero un peso non indifferente le donne, sia per il senso dell’opportunità pratica che le caratterizza per natura, sia perché il morbido sentimentalismo, con cui il cristianesimo ama travestirsi, non poteva non far presa sul loro cuore.
Il caso più significativo di ciò che si stava verificando nella coscienza dell’antica aristocrazia, e che avrà le conseguenze storicamente più incisive, fu quello di sant’Ambrogio, eletto vescovo di Milano nel 373, dopo esser stato prestigioso governatore in Emilia e Liguria.
L’altra figura da segnalarsi, allo scopo di comprendere le ragioni che portarono Teodosio al promulgare l’Editto di Tessalonica con cui il cristianesimo sarà proclamato unica religione dell’Impero, è quella di papa Damaso elevato al soglio pontificio nel 366. Contro di lui era però stato eletto da un gruppo consistente di preti dissidenti un certo Ursino, col quale Damaso impegnò una lunga lotta che si concluse a suo vantaggio mediante un’azione armata che costò 160 morti.
Damaso era certamente una persona di ragguardevole spessore culturale e politico, in grado di guardare lontano, con un progetto ambiziosissimo, quello di imporre la supremazia della Chiesa romana sulle varie Chiese orientali (in ciò coadiuvato dal suo amico Pietro vescovo di Alessandria) e addirittura di sottomettere l’Impero all’autorità della santa sede. Nel 379 aveva ottenuto da Graziano, che governava l’Occidente mentre Teodosio si trovava nei territori orientali, l’abolizione dell’Editto di tolleranza, la condanna degli eretici e la giurisdizione papale sul clero italico (380-381).
Ambrogio era una personalità identica a quella di Damaso e gli fu fedele alleato in molte occasioni e fino a quando questi morì nel 384. Nel 381 Damaso riunì ad Aquileia un Concilio in cui ottenne la condanna dell’arianesimo e, quel che più conta, fece richiesta esplicita all’imperatore Graziano di eseguire le delibere conciliari: era la prima esplicita affermazione che lo stato non era che il “braccio secolare” della Chiesa. Graziano si adeguò e intervenne in Spagna contro l’eretico Priscilliano, che venne catturato e condannato a una punizione esemplare.
Ma a questo punto si ebbe un colpo di scena: Damaso e Ambrogio intervennero perché la decisione imperiale fosse revocata e ottennero quel che chiedevano. In tal modo si voleva affermare e dimostrare la superiorità della Chiesa, che, come Ambrogio dichiarò esplicitamente, si obbedisce allo stato perché prima di tutto si obbedisce a chi rappresenta Cristo in terra.
Nel 382 si ebbe un altro caso estremamente significativo. Graziano acconsentì alla richiesta di Damaso di rimuovere dall’aula del Senato l’altare della Vittoria, simbolo dell’antica religione di Roma. Vi fu una vibrata protesta dei Senatori pagani, ma il papa chiamò alla lotta quelli cristiani e l’altare venne rimosso. Alla morte di Damaso nel 384, il partito pagano parve avere una temporanea ripresa. Infatti, essendo morto Graziano, Giustina, reggente dell’Impero per conto del figlio minorenne Valentiniano II, assunse atteggiamenti di tolleranza e riaffermò l’antico principio aureo che, fatta salva la sicurezza dello stato, ognuno era libero di venerare la divinità in cui credeva. La reggente, sicuramente pagana, affermò inoltre che l’aver abbandonato gli antichi dei di Roma aveva prodotto effetti negativi, e citava ad esempio la terribile carestia del 383 che aveva provocato a Roma una violenta sommossa popolare.
E’ da riconoscere tuttavia a questo punto che il paganesimo dell’aristocrazia italica, quale si praticava ancora alla fine del IV secolo, non era più nella sostanza il paganesimo della tradizione, e che in ciò è da ricercarsi la vera causa del successo crescente del cristianesimo. Il “nuovo paganesimo”, come sarebbe bene definirlo, era il frutto malato di una “civilizzazione” pervenuta alla sua fase terminale. Aveva infatti accolto una assai sospetta tolleranza per tutto ciò che era novità e non solo in materia religiosa. Un membro dell’alta aristocrazia, Vettio Agorio Protestato, era, per esempio, contemporaneamente sacerdote di varie religioni e non si avvedeva quanto ciò contraddicesse lo spirito della tolleranza praticata dai Padri, della vera tolleranza che mette in primo piano la serietà dell’esperienza religiosa e non ammette, a livello personale, che si segua altra religione che quella in cui ci si riconosce. Ormai il paganesimo non conosceva più nemmeno lo sforzo sincretistico di rendere l’eterogeneo in qualche modo omogeneo.
In fatto di vera tolleranza, quella intesa alla maniera dei Padri, nonostante tutto diede prova proprio Teodeosio. Quando alcuni monaci guidarono una folla inferocita all’assalto di una sinagoga che fu distrutta, a Callinico in Siria, intervenne contro i monaci e ordinò che riedificassero a proprie spese la sinagoga. A questo punto intervenne a favore dei monaci Ambrogio, che minacciò per la prima volta di scomunicarlo se non avesse ritirato il suo provvedimento. Teodosio dovette piegarsi per evitare la scomunica, ma l’intervento di Ambrogio è riprovevole perché incoraggiava le violenze dei monaci, soggetti assai riottosi per lunga tradizione all’autorità dell’Impero, quasi una fazione di terroristi che Ambrogio proteggeva e utilizzava come mezzo di ricatto contro lo stato. Da ricordare ancora che, prima dei fatti relativi alla sinagoga di Callinico, essendo Teodosio venuto in Italia, entrò in chiesa per assistere alla messa e si sedette nel coro in mezzo ai preti, come l’imperatore era solito fare in Oriente. Il vescovo lo allontanò da quel posto per ribadire l’assoluta distinzione fra clero e rappresentanti del potere temporale, e per far valere il principio che in Occidente non era ammesso il cesaropapismo e anzi era l’Impero a dover sottostare alla Chiesa.
Le irrevocabili decisioni di Ambrogio, che intendeva portare a compimento la politica inaugurata da papa Damaso, si palesarono ulteriormente a seguito di una fatto accaduto a Tessalonica nel 390. Teodosio aveva emanato un editto che puniva i crimini contro natura. Un pagano molto popolare della città si era macchiato di un delitto di tal genere ed era stato perseguito per legge. Ciò fu l’occasione che spinse i pagani, pieni di rancore per le ripetute soperchierie dei cristiani nei loro confronti, a insorgere con estrema violenza, e la rivolta culminò con l’assassinio di Buterico, il generale mandato da Teodosio per domare la sedizione. A questo punto l’imperatore ordinò che i pagani che avevano partecipato alla sommossa fossero riuniti nel circo e massacrati. Facendo mostra di condannare l’eccidio, Ambrogio redarguì Teodosio aspramente e lo escluse dai sacramenti. Questi, esasperato, reagì nominando Prefetto del Pretorio Nicomaco Flaviano, un pagano famoso e autorevole. Poi vietò alle donne di diventare diaconesse prima dei sessant’anni e di lasciare la Chiesa erede dei loro beni; e, altresì, interdisse ai monaci l’ingresso nelle città dove erano soliti arringare le folle spingendole alla ribellione. Alcuni intervennero per porre riparo al grave conflitto che stava preparandosi con la Chiesa e convinsero l’imperatore a recedere dalla decisione riguardante le diaconesse. Teodosio accondiscese, ma si mostrò sulle prime irremovibile circa il divieto di accesso dei monaci nelle città. Alla fine, per evitare la conferma della scomunica, cedette un’altra volta alla prepotenza del vescovo di Milano e il 24 febbraio del 391 emanò una legge di condanna definitiva del paganesimo: Ambrogio aveva vinto, implicitamente l’imperatore accettava che il cristianesimo fosse l’unica religione dell’Impero. Simmaco, capofila del partito pagano, si recò a Milano per protestare, ma Teodosio lo cacciò via. Allora i sacerdoti del Serapeo di Alessandria organizzarono una rivolta che però fallì.
Si giunse così, nel 392, al fatale Editto di Tessalonica che sanciva formalmente e senz’ombra di dubbio il significato politico dei fatti accaduti l’anno precedente: fra le sue disposizioni la più rimarchevole era quella che prevedeva l’abolizione del culto dei Lari e dei Penati, perché ledeva l’antica concezione della famiglia, la base primigenia su cui poggiano tutte le società tradizionali e che è costituita dal culto degli antenati.
Tuttavia Ambrogio non era ancora soddisfatto della resa incondizionata di Teodosio. Nel 394 questi era dovuto tornare in Occidente (da dove era partito nel 391) per domare l’usurpatore Eugenio, acclamato imperatore d’Occidente dalle truppe stanziate nelle Gallie, dopo aver ucciso Valentiniano II, il minorenne imperatore per conto del quale governava la madre,  la pagana Giustina più sopra nominata. Eugenio, professore di retorica e personaggio alquanto equivoco, riuscì ad accattivarsi le simpatie dei pagani di Roma e inaugurò una politica di tolleranza. Credendo anche di far cosa gradita ad Ambrogio, oltre che per lealtà verso il dettato dell’Editto di Tessalonica, Teodosio marciò contro Eugenio e lo sconfisse, facendo poi seguire una dura repressione degli ultimi pagani superstiti a Roma. Paradossalmente – ma non tanto a saper leggere il senso dei fatti precedenti – fu ancora fermato da Ambrogio che gli impose una penitenza per il sangue versato (dei pagani) e fece passare molto tempo prima di concedergli il perdono. Ottenuto il perdono, Teodosio riunì per l’ultima volta le due parti dell’Impero ormai di fatto separate e si recò a Roma per imporre che i senatori pagani si convertissero. Non gli fu difficile perché ormai in Senato i cristiani erano largamente maggioritari.
Che il Senato però fosse cristiano per intima convinzione è dubbio. Basti pensare che, alla vigilia del sacco di Roma ad opera di Alarico nel 410 (di cui Agostino ebbe a rallegrarsi), il Prefetto urbano chiamò degli aruspici etruschi perché traessero i presagi, e col tacito consenso del papa (cfr.”Storia Illustrata”, n.269, 1980, p.73).
Teodosio fu definito il Grande dalla tradizione storiografica influenzata dal cristianesimo per l’Editto di Tessalonica. Egli fu in realtà vittima di circostanze avverse che cercò di gestire come meglio non poteva chi avesse una lucida coscienza politica di quanto era accaduto nell’Impero a partire da Costantino, le cui decisioni furono condizionate, come la storia ha riconosciuto quasi senza eccezioni, dalla terribile crisi finanziaria del IV secolo. Anche Costantino fu chiamato il Grande, non tanto per l’Editto di Milano quanto piuttosto, secondo il mio parere, per aver trasferito a Costantinopoli il centro dell’Impero e per essere stato l’iniziatore della concezione cesaropapista dell’Impero bizantino, poi ereditata dall’Impero degli Zar e, mutatis mutandis, dalla stessa Russia sovietica.
Teodosio mostrerà di aver imparato la lezione di Costantino quando, prima di morire, dividerà definitivamente l’Impero fra i figli Onorio e Arcadio abbandonando l’Occidente al suo destino, destino già segnato da papa Damaso e da Ambrogio e che sarà caratterizzato dall’insanabile e sempre risorgente conflitto fra Stato e Chiesa.