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Iraq. Continuano gli attacchi nonostante il “ritiro”

di Ferdinando Calda - 07/09/2010

 

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Non è passata neanche una settimana da quando il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato la fine della missione di combattimento in Iraq, che già i “pochi” militari statunitensi rimasti nel Paese (in realtà sono circa 50mila, affiancati da altrettanti contractors privati) hanno dovuto ingaggiare uno scontro a fuoco contro gli insorti. È successo domenica scorsa, quando un gruppo composto da attentatori suicidi e uomini armati ha attaccato un centro di reclutamento di Rusafa, nella parte orientale di Baghdad, uccidendo una dozzina di persone.
Per fare fronte al commando, composto da cinque o sei miliziani, le forze di sicurezza irachene – che secondo i generali di Washington sono assolutamente “pronte” a gestire la situazione autonomamente – hanno chiesto l’intervento di elicotteri e droni da ricognizione statunitensi, nonché l’impiego di militari scelti Usa, che comunque si trovavano già all’interno dell’edificio.
Si tratta del primo intervento armato delle truppe Usa da quando il presidente Obama ha annunciato la fine della guerra e il ritiro delle truppe, ma tutto lascia prevedere che non sarà l’ultimo. Lo stesso edificio attaccato domenica, negli ultimi mesi è stato al centro di ripetuti attentati, che hanno causato decine di vittime tra i soldati e le giovani reclute dell’esercito iracheno.
Ma per Obama, oramai, la guerra in Iraq – contro la quale si era ripetutamente battuto come senatore e durante la campagna elettorale – è finita (“it’s over”), anche se “non è il momento di celebrare vittorie”. Lo ha chiarito nel discorso della scorsa settimana, stando ben attento, però, a non disconoscere del tutto l’operato del suo predecessore, per non offendere la memoria degli oltre 4mila militari statunitensi che hanno perso la vita o sono rimasti feriti in Iraq: “Avete fatto un lavoro straordinario”.
E così, nel tentativo di recuperare un po’ di fiducia tra la pubblica opinione statunitense (nell’ultimo sondaggio dell’Istituto Rasmussen la popolarità del presidente è scesa ulteriormente al 42 per cento), Obama ha annunciato la fine della guerra “sbagliata” in Iraq – anche se, a dir la verità, l’accordo per il ritiro era stato firmato un paio di anni prima da Bush – e ha spostato le priorità del suo operato sulla crisi economica interna (“oggi il nostro compito più urgente é rilanciare la nostra economia”) e sulla guerra in Afghanistan. Una guerra “giusta”, ha puntualizzato il Premio Nobel per la Pace, perché contro “Al Qaida” e “i terroristi che attaccarono l’America (l’11 settembre del 2001 ndr) e continuano a tramare contro di noi”.
Un tentativo di risolvere l’apparente contraddizione di essersi opposto all’invio di nuove truppe in Iraq da senatore per poi, una volta eletto presidente, attuare una strategia pressoché identica in Afghanistan.
Una contraddizione sottolineata dal fatto che l’unico membro dell’amministrazione Bush riconfermato sia il segretario alla Difesa Robert Gates, che proprio nei giorni scorsi ha rivendicato una continuità di strategia fra l’escalation di Bush in Iraq e quella di Obama in Afghanistan.
Per uscire dal pantano afgano, il presidente Usa fa affidamento sullo stesso uomo che riuscì a dare una svolta alla situazione irachena, il generale David Petraeus. Nel 2006, Petraeus cominciò ad arruolare le milizie dei clan sunniti – che in precedenza erano stati epurati dalla società perché considerati collusi con il governo di Saddam – contro i combattenti del jihadismo internazionale di stampo sciita, riuscendo a far calare il livello di violenza nel Paese, che era arrivato a contare una media di 3mila vittime al mese.
Tuttavia, al momento, ogni tentativo di arruolare le tribù locali afgane contro i talibani non ha portato alcun risultato soddisfacente. E anche per quanto riguarda le capacità delle forze di sicurezza di Kabul, al Pentagono non sembrano ancora disposti a fare alcun affidamento su di loro. Proprio ieri un funzionario Nato ha fatto sapere che il generale Petreus ha inoltrato ai 28 membri dell’Alleanza una richiesta per l’invio di altri 2mila soldati, soprattutto per contribuire all’addestramento delle forze locali. Resta da vedere quali governi saranno ancora disposti a inviare ulteriori rinforzi in Afghanistan, alla luce anche dei recenti ritiri di diversi alleati Usa.