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Psiche e politica

di James Hillman - 03/10/2005

Fonte: morettievitali.it

 

".....È questo che rende cosciente l'inconscio, il compito che ci ha affidato Freud? Per fare questo, dovremmo andare là dove l'anima è malata, e dove più oscuro e impenetrabile regna l'inconscio: la polis. Perché l'inconscio non resta immobile. Questo suggerisce la parola. Ma dov'è l'inconscio, oggi? Certamente non nell'infanzia, nella famiglia, nella sessualità, nelle anomalie sintomatiche, nei sentimenti, nei rapporti, nei simboli arcani - tutte cose che troviamo in ogni talkshow, in ogni manuale "fai da te". Quello che un tempo era l'inconscio, che veniva fuori sotto forma di un lapsus linguae, adesso è sulla lingua di tutti. Dove invece siamo meno capaci, quello che ci fa più soffrire, e nei cui confronti più ci anestetizziamo, quello che più rimuoviamo - con i tappi per gli orecchi, i catenacci, gli alcolici, l'elettronica, l' hi-/i, il caffè e lo shopping - è il mondo là fuori, la polis. Rimuoviamo la psiche dalla polis e siamo inconsci nei suoi confronti: è la polis l'inconscio. Siamo diventati pazienti e analisti ipercoscienti, individui molto consapevoli, interiorizzati con molta sottigliezza, e cittadini molto inconsci.

Il paziente non può, decisamente non può, per definizione non può diventare un cittadino fino a che il modello di psiche, che l'analisi terapeutica serve, resta fisso dov'è. Questo modello pone la psiche o come intrapersonale (all'interno del soggetto umano) o come interpersonale (tra i soggetti, nelle relazioni, nella traslazione, nelle dinamiche di gruppo e nei sistemi familiari). L'anima non è nel mondo di cose come gli alberi, le rocce, le macchine e i portacenere, e neppure nel mondo di sistemi come l'educazione, la finanza, la politica di partito, il linguaggio e la tecnologia. Anche se oggi sempre più si parla di fenomeni fisici e istituzionali "malati", si continua, tuttavia, a localizzare la psicopatologia nell'individuo umano.

Naturalmente, ci sono critici della cultura come Szasz, illich o Foucault, che mostrano l'assurdità di questa isolante localizzazione, e la relatività di un mondo "malato", che dipende totalmente da una definizione culturale. E tuttavia, anche loro non arrischiano il passo successivo, che li porterebbe a concludere che se la definizione della psicopatologia risiede nella cultura, allora anche la psiche potrebbe essere definita come residente lì.

No, quella conclusione non l'abbiamo tirata, e restiamo consacrati all'individualismo. Continuiamo a restringere la psicopatologia alla persona umana, e dunque a sostenere che la psiche riguarda ontologicamente soltanto il soggetto umano. La psicoterapia analitica continua a sostenere che se la natura o la cultura appaiono malate, ciò dipende dalle azioni dell'uomo: la causa siamo noi. Dunque, curiamo prima l'uomo: tutti in analisi - architetti, politici, insegnanti, uomini d'affari - e allora il mondo andrà meglio.

Questo non ha funzionato, non può funzionare, perché il modello è sbagliato. Lascia l'anima fuori del mondo -le cose sono prive di anima e l'uomo deve sobbarcarsi tutto il peso dell' anima, rianimando con il suo soffio proiettivo ciò che la teoria dichiara, per definizione, morto.

A proclamare morta l'anima del mondo fu uno scapolo-soldato gentiluomo francese, educato dai Gesuiti, Cartesio, quando la definì res extensa. Fuori, così come ogni cosa in questa stanza, compresi i nostri corpi, non c'è altro che materia morta. Cartesio, ma forse, prima di lui, 1500 anni di Cristianesimo, ha ucciso il mondo, trasformandolo in una massa priva di anima, un campo cosparso di rifiuti. Cartesio e i Cristiani hanno inventato rifiuti e inquinamento, e anche lo shopping.

Ovviamente, Cartesio fu ratificato dal consorzio europeo, compresi il signor Newton e il signor Kant. E questo nonostante Platone, Plotino, Ficino e i Romantici, per i quali il grande Dio Pan non era mai morto, e soprattutto Spinoza, per il quale Dio e il mondo erano un'unica sostanza, il mondo, cioè, era assolutamente e completamente pervaso di anima, di spirito, di divinità - o per dirlo nel nostro misero linguaggio secolare, investito di energia libidica. Cerchiamo di ricordare questo pezzo di storia della filosofia; lasciamo che ci ricordi che gli psicoterapeuti analitici sono, in realtà, dei freudiani francesi, cioè cartesiani. Fino a che consideriamo il mondo come esterno alla terapia, e l'individuo come l'unico possibile luogo della coscienza, lavoreremo anche con gli strumenti di Freud, ma quella che pratichiamo è la teoria di Cartesio. E l'anima non può liberarsi dall' analisi finché non riesce a liberarsi dal cartesianesimo e, lasciatemelo dire, dal Cristianesimo.

Freud, invece, cerca di liberarsi. (Oserei dire che tutta l'insistenza sul suo essere ebreo faccia parte del tentativo di liberarsi dal Weltbild cartesiano-cristiano. Ma questo è un altro discorso). Freud cerca di sfuggire all'individualismo ricorrendo all'universalità della teoria edipica, ponendo le radici della libido in un substrato biologico, ampliando l'eros a principio cosmico, al di là delle zone erogene della pelle, scendendo a profondità arcaiche come l'orda primaria, l'es primordiale, thanatos, il nirvana, l'entropia. Queste stregonerie metafisiche immaginano forze collettive al di là dell'individuo.

Tuttavia, se esaminiamo attentamente La teoria della libido, il suo saggio del 1922, vediamo che Freud blocca la sua fuga. Subito dopo il paragrafo sul narcisismo, rifiuta la più ampia, collettiva, visione junghiana della libido, e poi rifiuta l'istinto gregario di Trotter, che «spinge gli individui a riunirsi in comunità più ampie». «La psicoanalisi» dice Freud in quel saggio, «si trova in contraddizione con questa visione. Anche se l'istinto sociale è innato, può essere rintracciato nell'infanzia dell'individuo...». Oppure, come aveva detto nel 1921 a proposito dell'istinto gregario: «Abbiamo allora il coraggio di correggere l'affermazione di Trotter, secondo cui l'uomo sarebbe un animale di gregge, per affermare, invece, che è un animale di orda, una creatura individuale in un' orda guidata da un capo».

Credo che la sua via d'uscita possiamo trovarla in quello stesso saggio del 1922, nel quale descrive la "libido d'oggetto" -la libido, come certamente ricorderete, che promana dagli oggetti e che, a sua volta, viene assorbita dagli oggetti. Conoscete sicuramente bene anche l'idea corollaria per cui «il processo patogenetico, come è dimostrato nella dementia praecox, consiste nel ritirare la libido dagli oggetti» in modo tale che l'io stesso diventa un oggetto della libido, o in quello stato narcisistico nel quale si è innamorati di sé. Se il lutto è il sentimento che riconosce la morte dell'oggetto, la condizione psichica che rivela una libido d'oggetto non più riversata sul mondo, allora non siamo forse continuamente in lutto? E non è forse l'ideologia del consumismo, quella che guida l'economia occidentale, in altre parole lo shopping -la principale attività del nostro tempo libero, stando alle statistiche sociologiche - il sintomatico compromesso che compulsivamente esprime il dolore per la perdita dell'oggetto,cercando in modo concretistico di reinvestirlo di energia. Poiché la Strega, la metapsicologia occidentale, ha dichiarato morto il mondo, solo io, res cogitans, sono. Per forza vivo alternativamente, a volte anche simultaneamente, l'onnipotenza e il lutto. Per forza sono depresso, la principale sindrome che si presenta alla pratica medica occidentale. Per forza provo Weltschmertz, e per forza Sophia, come dicevano gli Gnostici e gli alchimisti, si lamenta. La depressione cronica congenita, e la difesa maniacale nei suoi confronti, compresa quella difesa maniacale chiamata speranza di salvezza e di redenzione, sono il prezzo che continuiamo a pagare per la morte di Pan e dell' anima del mondo pagana.

Qualche recente filosofia sociale ed ecologica americana - naturalmente senza parlare di dèi pagani o di un'anima mundi - ha sovvertito la psicoterapia rivelando le sue radici nell'individualismo liberale, umanistico, del diciannovesimo secolo. Mi riferisco all' opera di Sandel, Bellah, Cahoone, Wicker e, soprattutto, a quella di Sampson, di cui parlerò fra poco. (Come probabilmente vi sarete accorti, nella mia posizione c'è già una psicologia sociale ed ecologica: sto rispondendo alla Francia dall'America; ma non solo: sto privilegiando il mio punto di vista, non decostruendo affatto ma discutendo, argomentando, postulando, proprio come un modernista vecchio stile).

Adesso vorrei citare Sampson: «Non esistono soggetti che possano essere definiti indipendentemente dal mondo; le persone sono costituite dai loro affetti, i loro legami, le loro relazioni, e attraverso di essi». Una res cogitans cartesiana - distaccata, senza impedimenti, libera di scegliere, padrona di sé, e che si autodefinisce (creando la "propria mente"), che viene prima della comunità e del suo governo, e in funzione della quale la comunità e il suo governo esistono - presenta la fantasia modernista dell'individualismo, per definizione anomico, molto prima che Durkheim scoprisse l'anomie come fenomeno sociologico. L'individuo forte, con un io forte, capace di affrontare i problemi, di occuparsene e di risolverli come un'entità indipendente, dotata della libertà di parola, di pensiero, di culto, di stampa, di riunirsi in assemblea, di viaggiare, di possedere la terra e lasciarla ai propri discendenti, la cui vita comunitaria non è implicita, connaturata, ma deriva da un contratto sociale liberamente stabilito - altrimenti la vita sarebbe animalesca e breve - e la cui ragione è indipendente da ogni contesto: un individuo di questo genere, al quale tenta di approdare la psicoterapia analitica con i suoi concetti di sviluppo di un io che si autodetermina, è semplicemente un anacronismo. È una visione della natura umana che raggiunge il suo apogeo nell'Ottocento dell'Occidente, il contesto politico del tempo e del luogo di Freud. In realtà la teoria della persona che continua a dominare la psicoterapia analitica è anch'essa un riflesso sociologico, ecologico, di un particolare clima psicologico che vide anche l'apogeo del colonialismo, dell'industrialismo, del capitalismo, e così via.

Da questo punto di vista ecologico, o se preferite politico, le nostre teorie della persona - il paziente - e la pratica di comprendere la persona indipendentemente dal contesto politico nel quale è immersa e del quale è costituita, non possono che favorire l'illusione di un soggetto trascendentale, un soggetto che trascende la comunità, che richiede un garante per la mia soggettività isolata, un Sé originario trascendente, o un Dio. Questo garante, in definitiva non conoscibile e non fenomenico, è una finzione nevrotica oppure una fantasia di onnipotenza, che spinge ogni analisi terapeutica verso una meta irraggiungibile e utopica. Inoltre, questa elaborata fantasia di individualismo non solo ripete lo splendido isolamento dell'amministratore coloniale, del capitano d'industria e dell'accademico continentale nella sua torre d'avorio, ma ricostruisce anche, nello studio dello psicoterapeuta, il Dio teologico del monoteismo, anomico, trascendente, onnisciente, onnipotente. Proprio perché non pratichiamo la politica, pratichiamo la religione. Per forza Freud e Jung dovettero attaccare ripetutamente la religione, e Lacan dovette affermare che se vince la religione, la psicoanalisi è condannata. La religione, che per me significa il nostro occidentale, monoteistico Dio separato-dal-mondo, costituirà sempre una minaccia per la psicoterapia analitica, perché l'anthropos, il paziente, è creato esattamente a immagine di quel Dio.

Questi critici, questi teorici - e cito di nuovo Sampson - dicono che il tentativo della psicoterapia di comprendere l'individuo, e poi, su quel modello, di applicare alla cosa politica ciò che l'investigazione psicologica ha rivelato - alla maniera della sinistra freudiana e di Norman O. Brown - è illusorio, perché quell'individuo non esiste più. li paradigma è cambiato. E così Sampson può dire: «È semplice: comprendere l'individuo in quanto tale non è più rilevante per comprendere la vita umana». Il caos, l'anarchia, la decentralizzazione, la comunicazione in rete, l'ecologia, la decostruzione - l'uomo protagoriano, deumanizzante, esistenziale, come misura di tutte le cose - costringerà il cittadino latente a uscire dal suo nascondiglio di paziente, e a fuggire, spinto dalla libido d'oggetto, verso un nuovo rifugio nella comunità dell' anima nel mondo.

Torniamo per un momento all'affermazione di Aristotele: "anthropos physei politikon zoon" ("l'uomo è, per natura, un animale politico"). Soffermiamoci un po' su queste quattro parole:

1) "anthropos"; non semplicemente uomo, ma genere umano, essere umano, l'essere umano completamente realizzato, dal momento che forma e telos si implicano l'un l'altro, perché la causa formale fornisce l'immagine attraverso la quale, nell'interesse della quale, e per la realizzazione della quale, l'umanità esiste. Non solo siamo, per natura, animali politici, ma siamo completi e realizzati compiutamente come animali politici.

2) "physei": la materia e la struttura di fondo, la sostanza originaria, l'essenza, la natura, la realtà del genere umano, è politica.

3) "politikon": da polis, la città, la cittadella, la fortezza. La parola polis, per le sue radici etimologiche e i suoi derivati, significa "moltitudine, folla, liquido, legato per esempio a palude, versare, fluire, riempire, inondare, sommergere, galleggiare"; ha un significato collettivo, "poli-, multi-", come nel derivato latino "pleo-plere, plenus, plerus, plebs, plus, plural". Polis, dunque, non tanto come istituzioni, forme di governo, affari civici, quanto un insieme di più persone, una folla, una comunità; il demos (si dice che Dioniso fosse la divinità prediletta del demos).

4) "zoon": la forza animale della vita, una vitalità organica, un élan vital, ogni singola persona. Zoe era una delle principali parole associate a Dioniso.

Cosa succederebbe se immaginassimo il paziente come cittadino? Quale sarebbe allora la natura del dialogo terapeutico? È possibile immaginare una seduta, il colloquio con un nuovo candidato, la supervisione di un caso, all'interno della polis di Atene, anziché sotto il patrocinio di Edipo con il suo euriskein, il suo scoprire, il suo cieco impulso al "gnothi seauton", al "conosci te stesso".

Sto suggerendo l'ipotesi di immaginare una terapia post-analitica, una terapia post-centrata-sul-sé, che dissolva quelle identità che il recente decostruzionismo ha dimostrato essere piene di problemi, se non prive di valore; identità come il genere, il ruolo familiare, la continuità storica della persona, perfino la soggettività dell'io. Se si potesse dissolvere l'identità, con essa scomparirebbe quell'individualismo isolante proprio del linguaggio terapeutico - come unità, centratezza, totalità, integrazione - e soprattutto quel mitologema intensamente riflessivo, sostanziale, quel seducente termine-Dio che è il Sé.

Questo termine, il Sé, è infatti l'ultima roccaforte di ogni sostanzialismo e di ogni identità. Deve ancora sperimentare la crisi della sua stessa identità. Dovunque compare - e talvolta compare sotto forma di persona e di personalità, d'individuo e di individualità - si pone come il portatore della coscienza riflessiva, che naturalmente è il suo significato primario. In altre parole, l'attacco all'identità soggettiva esige l'ulteriore destituzione dell'idea basilare di ogni psicoterapia analitica, l'idea di Sé.

Supponiamo di non immaginare più il Sé come un' omeostatica dinamica interiore di un organismo biologico, o come la scintilla morale di un trascendente inconoscibile, o come l'attività riflessiva, semplicemente data, della coscienza, o come l'auton, l'autonomia di ogni sistema chiaramente definito. Supponiamo di riconoscere, di guardare in trasparenza, di mettere fra parentesi e poi eliminare queste predilette nozioni di Sé. Una ragione per questa eliminazione è che nessuna di queste predilette nozioni richiede relazioni esterne; nessuna necessità di un esterno, di un altro, nemmeno di un' eco. Possono essere immaginate interamente per se stesse, e quindi si può conoscere noi stessi completamente attraverso noi stessi e con noi stessi, nello sguardo fisso di una autoriflessiva inspectio, come la chiamava Cartesio. Dal momento che sono fondamentalmente autoriflessivamente auto-appagate, hanno bisogno dell' esterno e dell' altro solo come scorte narcisistiche, come oggetti transizionali, come piatti specchi cristallini, in modo da "fare esperienze", come il passare attraverso la fusione e la separazione, l'invidia, i problemi di autorità, i sentimenti di castrazione, e così via.

Immaginiamo invece un' altra defìnizione, né biologica, teologica, psicologica, né ontologica, ma politica. li Sé come interiorizzazione della comunità.

Allora, fare domande riguardo al politico durante una seduta terapeutica significa fare domande sul Sé. Allora, se si vuole perseguire lo sviluppo di sé è necessario l'impegno comunitario. Allora, per trovare conferma all' andamento del proprio autogoverno - sono sulla giusta via o sono fuori strada? sto rimuovendo? sono centrato? - non si guarda tanto alle dinamiche della psiche, o alle voci e alle visioni delle epifanie del trascendente, quanto alla comunità reale della nostra vita reale. Allora, la ricerca del vedere dentro, dell'intuizione, ha bisogno di un correlativo oggettivo, del luogo dove l'intuizione nasce, la comunità, più che della traslazione.

Non intendo letteralizzare la comunità nella forma di una vera e propria politica di quartiere, o di qualunque altro dei mille livelli di impegno politico. Penso piuttosto al Gemeinschaftsgefuhl di Alfred Adler, un sentimento sociale che rende molti impegni, molte attività politiche letterali, delle fiction, quasi storte per distillare i sentimenti, dove la libido d'oggetto può intensificarsi, differenziarsi, manifestarsi. Uno immagina se stesso come cittadino, quando il discorso sul sé e la lettura di questo sé e delle sue azioni, vengono concepiti in un contesto di Gemeinschaftsgeful.

Se il Sé, con la sua attrazione per l'interiorità riflessiva, non si riferisce a una scintilla immanente di un Dio trascendente, o a un germe, un seme, una verità, un centro o un nucleo di forza di volontà, ma è invece costituito da contingenze comunitarie, allora l'attrazione per l'interiorità si manifesterà necessariamente come un' attrazione per l'esteriorità, per le contingenze del campo ecologico reale - dove sono situato, con chi sono, cosa sta succedendo ai miei animali, al mio cibo, ai miei mobili; cosa riversano, il tostapane, il giornale, il frigorifero, nel campo in cui mi trovo. Per trovare me stesso, devo rivolgermi a queste cose, visibili e invisibili. Allora, per lavorare sull'inconscio, per favorire la mia crescita, la comprensione di me, e per guarire le mie malattie, non dovrò più vagare nel sogno, passeggiare solitario nella natura, isolarmi per meditare, per analizzare o per ricordare la mia infanzia, in attesa che qualcosa dentro il mio cranio o dentro la mia pelle si riveli e mi guidi. Mi rivolgerò invece alle mie stanze, con le loro cianfrusaglie, ai miei conoscenti, con le loro reazioni, ai miei vicini, con le loro preoccupazioni, perché questo fa conoscere il mio sé, perché è di queste cose che io sono costituito. Interiorizzazione della comunità significa accogliere dentro, in-teressarsi, prendersi cura di ciò che in realtà ci co-in-volge e che ci fa infuriare. Ora lo specchio è l'ambiente e l'in-sight, il vedere dentro, adesso diventa out-rage, rabbia che esce fuori, violenza.

Le emozioni restano dominanti, ma non sono più considerate interiori letteralmente, soltanto dentro la mia fisiologia, nell' es profondo, nel cervello più antico, nei recessi neurovegetativi, nelle secrezioni ormonali. Un' emozione può essere immaginata invece come un "influsso divino" - come diceva William Blake - "offerto" dal mondo, nel senso di J.J. Gibson, come "presenze toccanti" come le chiamava Robert Armstrong - che rivelano l"'importanza"- nel senso di Whitehead - che hanno gli oggetti, le scene, le situazioni così come il loro "carattere fisiognomico" - secondo la classica psicologia della Gestalt. Un' emozione diventa adesso un campo di significato e di valore che agisce su di me spingendomi a uscire ex movere - dall' autoclausura. Come il lutto non è più interiorizzato in forma di depressione, e trattato come uno stato interiore, indipendente dalle perdite dell' oggetto nell' anima del mondo, così la rabbia non è più considerata come una condizione privata di aggressività o di ostilità, dentro la mia personalità individuata e responsabile di sé. La rabbia rivela invece una violenza primaria su una situazione reale. La presenza di questa violenza mi tocca attraverso la presenza della rabbia. Come diceva Wallace Stevens: «il leone ruggisce al deserto esasperante / Arrossa la sabbia col suo rombo colorato di rosso». E ancora, la vergogna non è interiorizzata come senso di colpa, e attribuita a una struttura immaginaria chiamata "io", oppure "sé", ma riflette colpe specifiche, cioè peccati di omissione e di commissione, di cui porto il peso mentre cammino per il mondo. La paura - quella emozione così importante per riconoscere il potere dell'oggetto - non è convertita in ansia priva di oggetto e considerata totalmente intrapsichica. E infine, il desiderio che si spinge fin dove il cuore può penetrare, e che solleva la repressione dal volto del mondo rivelando quanto sia desiderabile - il desiderio come la risposta allo splendore del mondo - non è più compresso nello sgabuzzino dei bisogni personali.

Perché il paziente diventi cittadino, la psicoterapia analitica, all'inizio, non dovrà fare altro che restituire al mondo le emozioni che risvegliano il paziente nei confronti del mondo. Seguendo l'innata estroversione dell' emozione, la sua attrazione per l'oggetto e il suo attaccamento libidinoso all' altro, l'interesse del paziente passa da sé all'oggetto. E tuttavia, al tempo stesso avviene anche un'interiorizzazione, che rende più sottile ed elaborato il campo emozionale, che si prende cura del bisogno che ha il mondo di anima e del bisogno che ha l'anima di un mondo che vada al di là di se stessa. li mondo, infatti, invia i suoi richiami alla libido dal volto di ogni oggetto. Attrae, urla e terrorizza, mentre noi restiamo indifferenti, difesi dal nostro sistema immunitario secondo cui tali richiami sono "proiezioni", perché le emozioni le ha chiuse dentro a chiave.

brano tratto da " politica della bellezza" di Hillman