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Il voto ad Hamas

di La Stampa - 18/05/2006

 
«Dato per disperazione e contro Fatah, ma in modo democratico Perché punirci? Abbiate fiducia in noi piuttosto e aiutateci a crescere


«Perché ha vinto Hamas? Bisogna chiederlo a quelle donne anziane, stracariche di bagagli e pacchi, ferme per ore sotto il sole ai check point, agli abitanti dei villaggi divisi a metà dal muro, ai ragazzi in fila davanti a un cancello, in attesa che un soldato israeliano si ricordi di aprirlo e permetta loro di andare a scuola. È un voto di disperazione. Ma è democratico, merita rispetto». Mustafa Barghouti nei giorni scorsi era a Torino, ospite di Cgil, Cisl e Uil per raccontare all’associazionismo torinese la sua «verità» sulla situazione nei Territori. Medico, attivista per i diritti umani, fondatore con Edward Said del movimento al-Mubadara al-Wataniyya al-Filistiniyya, tentativo di costruire un’alternativa riformista tanto ai «baroni» dell’Olp come agli islamisti di Hamas, nonché avversario di Abu Mazen nella corsa alla presidenza dell’Anp nel 2005, è quanto di più simile a un laico il quadro politico palestinese possa offrire. E dice apertamente di non amare i fondamentalisti. Ma difende la scelta dei connazionali: «Hamas ha vinto perché Fatah ha fallito, i palestinesi hanno voluto punirne la corruzione, le troppe promesse disattese. È stato un processo trasparente, democratico. È una vergogna che si voglia far pagare questa scelta a tutto un popolo. Questa strategia, fra l’altro, non fa altro che rinforzare il movimento islamista».

E allora che fare?

«Il mondo ci deve dare fiducia invece di condannare i palestinesi, un popolo sotto occupazione, oppresso, all’inedia. Possiamo cambiare governo, come qualsiasi altro Paese al mondo. Se mai bisogna lavorare a questo. Il 24 maggio si terrà un incontro di al-Mubadara con tutti i partiti, i parlamentari, i politici: l’obiettivo è creare quello che potremmo chiamare un governo di unità nazionale, lavorare alla costruzione invece che alla divisione, far ripartire il processo di pace. Io le domando, perché nessuno parla di ciò che c’è di buono in Palestina? Ci trattano per lo più come selvaggi che uccidono e si uccidono. Ma abbiamo scuole, centri medici specializzati, orchestre, biblioteche. E una democrazia. Non ce ne sono molte nel mondo arabo».

Europa e Usa vedono il caos della Striscia di Gaza, i militanti di Hamas e quelli di Fatah che si sparano addosso. Gli attentati.

«Questi scontri sono stati molto enfatizzati e sicuramente fanno il gioco di Israele, ma non sono irreparabili. Certo, in Fatah c’è chi alimenta il conflitto perché vuole riconquistare potere, in Hamas c’è chi teme le riforme. Ma Hamas ha anche detto di essere disponibile a rinunciare a ogni azione militare e di fatto negli ultimi mesi ha rispettato l’impegno. Penso che qualcosa stia cambiando. Ma Israele non deve più decretare condanne a morte senza processo, uccidendo i palestinesi sulla base del sospetto. Domenica ne sono morti 17. Nel silenzio».

Resta il fatto che Hamas non riconosce il diritto all’esistenza dello stato di Israele.

«Secondo me Hamas è disposto a cambiare questo atteggiamento, ad appoggiare la soluzione dei due stati. Ci stiamo lavorando. Ma non lo farà senza una contropartita, Israele deve concedere qualcosa, invece di continuare a rivedere i confini al ribasso, come ha sistematicamente fatto finora».

Il ritiro unilaterale non è un tentativo di superare l’impasse?

«No, è il tentativo di creare di fatto un regime di apartheid, con i palestinesi richiusi in bantustan e impossibilitati a ogni vita autonoma. Conservatori, laburisti, non fa differenza: la linea politica è unica».

La sua proposta, allora.

«Due stati con Israele entro i confini del 1967. E accesso a Gerusalemme Est. Non è il massimo, ma è un compromesso accettabile sui cui lavorare. Subito, perché davvero potrebbe essere l’ultima occasione. Noi siamo pronti al negoziato».

Cosa chiede alla comunità internazionale?

«Di non abbandonarci, di darci fiducia e credito. E allora vedrà che le prossime elezioni non le vincerà Hamas».