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La passione e la monotonia

di Adriano Segatori - 26/10/2010

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Ha scritto Paolo Borsellino: “È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.

Credo che in queste parole si possa riassumere il problema generale, e quello politico in particolare, che affligge la cosiddetta <<società civile>>. Siamo assistendo al periodo più anestetizzato e più demoralizzante che la mia memoria possa rievocare. In ogni settore della vita personale e collettiva aleggia quella sensazione depressogena e disfattista che ha una connotazione emozionale ben precisa: la rassegnazione.

È un’atmosfera mortifera che avvolge la giustizia, la scuola, i legami interpersonali, la cultura, la capacità di progetto, e che trova il suo terreno di coltura nella degradazione di quell’elemento generico nel vocabolo ma preciso e rigoroso nel contenuto che si chiama <<politica>>.

È la politica, nel senso più alto e aristocratico del termine che dovrebbe costituire la linfa vitale del singolo e della comunità di appartenenza. Quella politica che dovrebbe essere capace di disegnare scenografie dell’arte, panorami di destino, mappe di idee e geografie intellettuali è stata ridotta a gestione mercantile e merceologica del quotidiano, azzerando stimoli e sedando esaltazioni, per un semplice e banale conteggio dell’utile e dell’interesse.

Tutto è nato dalla voluta e suicida scomunica del <<nemico>> dal linguaggio delle contese, e l’espulsione del conflitto nel rapporto contrastato tra le parti. Visto che per poter dare un po’ di colore al grigiume della modernità non resta che rifarsi agli antichi, riporto alcune osservazioni molto importanti di Eraclito, che servono a comprendere la causa della nostra condizione attuale all’inizio denunciata. Innanzitutto che “Polemos, la guerra, è padre di tutte le cose, di tutte re”: è dall’antagonismo radicale che nascono le differenze, le identità, le opportunità. Dove c’è piattume meschino, convergenza complice e indifferenza morale non può esistere che una diffusa e pervasiva apatia ed un condiviso cinismo. La nuova politica politicante, quella che rivendica la diversità dal passato ed un irenistico futuro di collaborazione tra le parti, altro non è che l’esautorazione del rango di nemico al gradino inferiore di avversario, per giungere poi – come nel tempo corrente – al livello ancora più infimo di concorrente.

Ora, tutte le parole hanno un senso e un peso, e servono a costruire il valore di un discorso, checché ne dicano i più beceri manovali del relativismo e del prospettivismo.

Nemico è colui con il quale ingaggio una lotta che ha come fattore scatenante e come motore trainante una idea, una concezione del mondo, una visione della vita; avversario è colui che si trova in una posizione diversa dalla mia per quanto concerne una modalità pragmatica di applicare una certa programmazione di intenti nei confronti di un problema altrettanto pratico e contingente; concorrente è, infine, colui che etimologicamente corre insieme a me per raggiungere una stessa meta condivisa.

Nel primo caso, alla fine del contendere, c’è un vincitore e un vinto, e con il vinto si conclude necessariamente una pace; nel secondo, c’è la riuscita o meno di una procedura, con l’acquiescenza di chi non vede prevalere la propria, ma con la possibilità di trarne comunque dei benefici attraverso un accordo sugli esiti; nel terzo, c’è un patto di complicità, senza nessuna vittoria e nessuna sconfitta, con una correità più o meno vistosa al fine di suddividere equamente i profitti di una operazione. In entrambe gli ultimi due casi la tregua è sempre precaria e legata alle contingenze di utilità.

È questa o no la situazione politica attuale? È questa o no la condizione di mercato delle vacche che concretamente si delinea ai nostri occhi in tutte le faccende di malcostume quotidiano?

Per dare un po’ di tono allo squallore dilagante come reagiscono i giovani. Due casi emblematici: un coordinatore provinciale della Giovane Italia – vecchia e onorata sigla scippata dagli azzurri e dagli aennini del Pdl – afferma che il nucleo giovanile è composto da “un gruppo di amici” che si riunisce “ogni venerdì sera” (roba da bocciofila paesana e da animazione di ospizio); uno dei Giovani comunisti, invece, è più lanciato verso il futuro: “siamo circa una ventina e ci riuniamo una volta alla settimana”, ma la cosa più rivoluzionaria è che “molti dei nostri militanti, con un’età che va dai 17 ai 27 anni, militano nelle file dell’Anpi” (avete capito bene: l’organizzazione dei partigiani di una guerra civile conclusa sessantacinque anni fa!).

Una gioventù finita ai the danzanti o alle sfilate allegoriche della partigianeria, senza nulla di futuribile da proporre, da costruire e per il quale combattere. Un’accozzaglia di reduci senza aver combattuto.

I rampanti griffati, invece, partecipano al festival partitico in cerca di una occupazione fruttuosa e gratificante per l’immagine narcisistica. Dice sempre il nostro Eraclito: “Unico e comune è il modo di sentire per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio particolare”. Questi ultimi citati sono quelli del “sonno” e del “particolare”. Rifiutato, o forse non sentito perché anestetizzato, un mondo vivo di lotta e di fede, quindi intenso per passione e per slancio, rincorrono il sogno di una realizzazione in quel dispositivo degradato della politica fatto di privilegi, di apparizioni, di esibizione di potere. A chi non ha l’intelligenza per emergere nella cultura, o una bellezza spregiudicata per sfondare nella velineria, o un  fisico strutturato per riuscire nello sport – e con ciò avere notorietà, soldi e agi – non gli resta che aggregarsi alla greppia politica. E qui il particolare la fa da padrone. Non ci sono nemici da combattere e con i quali confrontarsi, ma solo “amici” dai quali guardarsi alle spalle. Gli alleati di oggi possono diventare i concorrenti di domani, e perciò antagonisti nella spartizione del bottino; ogni rapporto, perciò, deve essere calibrato e necessariamente circospetto e ponderato. Quando capita di far notare a questi controllati e compunti aspiranti politici la mancanza di tensione ideale e di sprezzo della sicurezza, rispetto agli anni turbolenti del novecento, assumono un fastidioso atteggiamento da professorini del buon senso e della ponderatezza, elencando tragedie e calamità come se fossero capi d’accusa, e rivendicando la pacificazione attuale e la loro propensione a ragionamento e alla negoziazione. Piccolo particolare: alla prova dei fatti – anche di quelli ultimi che hanno caratterizzato il quadro politico parlamentare in senso trasversale – si vede a cosa servono la riflessione e l’avvedutezza. In questo senso è centrata la considerazione di Nicolás Gómez Dávila su questo tanto apprezzato comportamento: “Nessun partito, setta o religione deve fidarsi di chi sa i motivi per cui vi aderisce. Ogni opzione autentica, in religione, in politica, in amore, precede il raziocinio. Il traditore è sempre uno che ha scelto razionalmente il partito che tradisce”[i].

Tolto il nemico contro cui lottare, e scomunicata l’idea che è la motivazione della lotta, rimangono in campo soltanto gli individui affetti da istinto parassitario e da incoscienza straviziata. Ed è sempre Eraclito ad inquadrare con acume e precisione lo stile di questi sopravvissuti: “Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano a saziarsi come bestie”[ii].

È questa o no la condizione dei moderni politici arrivati: sempre insoddisfatti nell’avere, sempre insufficienti nell’apparire, sempre svuotati nell’essere? È questa o no la finalità dell’attuale politica come professione, in antitesi all’antica politica per passione – per dirla alla Max Weber?

Ad esclusione di un certo numero di giovani che ancora hanno in sé, per destino o per contagio, il germe dell’ideale, e di quelli spregiudicati inquadrabili nella descrizione fatta, o un certo numero di manovrati qualunquisti in eterna agitazione, gli altri si diluiscono nella quotidianità dell’individualismo e della volontaria omologazione. Assuefatti ad ogni tipo di propaganda e ad ogni novità consumista, come prescritto dal controllo democratico delle coscienze, si assopiscono nello spirito e nella coscienza. È il risultato di una operazione studiata, voluta e condotta dal sistema, perché: “(…) è stato proprio l’avvento delle forme di governo ‘democratico’ e delle libertà individuali, assieme all’industrializzazione a produrre la necessità oggettiva, sia politica che economica, di governare (manipolare) dall’alto il pensiero e il comportamento della gente, sia come elettori che come consumatori”[iii].

Il problema che si pone è come scuotere le coscienze, come riattivare i sogni e risvegliare le speranze, come riacutizzare lo sguardo verso il destino, come dare di nuovo un senso al sacrificio, come far capire ai sonnolenti e sedati contemporanei – per rifarsi alle parole di Paolo Borsellino – che una intera generazione sta morendo ogni giorno, più volte al giorno, di noia, di paura, di disinteresse e di cinismo, mentre l’unica vita a disposizione sta sfuggendo di mano verso l’unica meta naturale, ma senza alcuna consapevolezza, alla fine, di avere vissuto con passione e dignità.


[i] N.G. DÀVILA, Pensieri antimoderni, trad. it., Edizioni di Ar, Padova 2008, p. 29.

[ii] Le citazioni sono tratte da AA.VV., Filosofia antica, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 31-2

[iii] M. DELLA LUNA / P. CIONI, Neuro Schiavi, Macro Edizioni, Cesena (FC) 2009, p. 30.