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Può un capitalismo cialtrone vincere una guerra mondiale?

di Francesco Lamendola - 28/10/2010

La seconda guerra mondiale, nella quale l’Italia si trovò praticamente costretta ad intervenire, checché ne dicano i tanti sapientoni della Vulgata democratica e antifascista (cfr. il nostro precedente articolo «Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla seconda guerra mondiale?», apparso sul sito di Arianna in data 12/03/2010), non vide in gioco solo i sogni di potenza imperiale, ma anche, più modestamente, la possibilità, per il nostro Paese, di ritagliarsi uno spazio di autentica autonomia economica, politica, finanziaria: vale a dire, di consolidare e perfezionare l’opera del Risorgimento.

Non ci interessa fare la storia con i “se” e rimpiangere che le cose non siano andate come avrebbero potuto andare; piuttosto, ci preme sfatare una leggenda sulla quale si sono pressoché sdraiati tutti gli storici politicamente corretti, dal 1945 ad oggi: e cioè che quella guerra, oltre che eticamente sciagurata, fosse perduta in partenza e che, di conseguenza (ma il passo è lungo, sia concettualmente che praticamente) sia stato un bene, alla fine dei conti, il fatto che l’abbiamo perduta, in modo da poterci rimettere sulla retta via, e sia pure al prezzo di inenarrabili sofferenze e di catastrofiche distruzioni.

Tutto è bene quel che finisce bene, insomma: e, se Parigi val bene una messa, la democrazia val bene qualche centinaio di migliaia di morti, un centinaio di città semidistrutte dai bombardamenti, l’economia prostrata, una guerra civile di belluina ferocia e, «last but not least», la perdita della sovranità effettiva, l’infeudamento alla superpotenza americana e il supremo disprezzo da parte di tutti, amici e nemici (ma chi erano gli amici e quali i nemici?) per il voltafaccia obbrobrioso dell’8 settembre 1943, con relativo sfascio della nazione.

Non ci interessa, dicevamo, indugiare su anacronistici rimpianti per quel che la storia è stata, ma sfatare la leggenda che la storia così DOVEVA essere.

Non discutiamo qui il punto di vista morale: primo, perché tutte le guerre, comprese quelle di difesa (e la distinzione tra offesa è difesa è a volte estremamente sottile: valga per tutti il caso della guerra franco-prussiana del 1870), sono tutte e sempre moralmente condannabili, e non solo quelle condotte da governi che non piacciono a chi, poi, le racconterà; secondo, perché, se è vero che dalla nostra parte c’era un Hitler e c’erano i campi di sterminio (che, peraltro, furono una delle conseguenze della mancata vittoria tedesca, se è vero, come è vero, che essi vennero costruiti dopo la battaglia di Mosca, quando la sconfitta dell’Asse appariva ormai fatale a chi avesse un minimo di retto giudizio), dall’altra parte c’era uno Stalin con i suoi gulag (ove morirono più esseri umani che nei lager tedeschi), c’era il massacro di Katyn, la distruzione a freddo di Amburgo e Norimberga, le foibe di Tito e le bombe atomiche sul Giappone…).

Ci interessa, invece, considerare la questione sotto il profilo strettamente tecnico e militare: la sconfitta finale del’Asse, dunque - e, pertanto, dell’Italia - era realmente inevitabile?

Si dice e si ripete che l’Italietta, contro la potenza imperiale britannica, non avrebbe mai potuto farcela; tanto meno dopo l’intervento in guerra degli Stati Uniti.

Si dice e si ripete, con una tale forza d’abitudine da averne fatta una verità indiscutibile, che la sproporzione delle forze in campo era tale, e così pure la nostra impreparazione, che le cose non avrebbero potuto andare diversamente da come andarono, nonostante il valore del soldato italiano eccetera, eccetera: l’importante è gettare ogni colpa e ogni discredito sulla direzione politica della guerra, perché - guarda caso - era quella di un regime dittatoriale, semi-totalitario (non del tutto totalitario, questo è certo) e, come in tutti i film holliwoodiani che si rispettino, da «Ombre rosse» in poi, i “buoni” devono vincere, in questo caso le potenze democratiche; e i “cattivi” devono perdere, è una legge scritta negli astri o, forse - come direbbe il buon Adam Smith - è la «Mano invisibile» del destino, versione secolarizzata, riveduta e corretta, della manzoniana Divina Provvidenza.

Tuttavia, prima di saltare a questa frettolosa conclusione, fondata in larghissima misura sul senno del poi, bisognerebbe tentar di rispondere ad alcune imbarazzanti domandine e prendere atto di alcuni ancor più imbarazzanti dati di fatto, che piacciano o che non piacciano allo storico debitamente liberale e democratico.

E fra le domande scomode, tanto per cominciare, potremmo fare questa: come mai, dunque, nel giugno del 1940, la flotta inglese si preparò a sgombrare il Mediterraneo, ritenendo di non poter reggere all’urto della nostra marina? Lo stesso dicasi per Malta: come mai l’Ammiragliato inglese era già rassegnato ad abbandonare la preziosissima base strategica di Malta, ritenuta praticamente indifendibile e, di fatto, priva di qualunque seria difesa?

Ciò vuol dire che il governo britannico e lo Stato Maggiore generale britannico non erano affatto convinti che la guerra contro l’Italia sarebbe stata una passeggiata; al contrario, essi pensavano - specialmente dopo l’inaspettato crollo della Francia - che non avrebbero avuto molte chances di riuscire a difendere Gibilterra, Malta e Alessandria e, con quest’ultima, non solo la valle del Nilo, ma anche il Canale di Suez. Quando, poi, l’esercito italiano del viceré Amedeo d’Aosta avanzò fino ad occupare Cassala, nel Sudan, mentre Graziani avanzava fino a Sidi el Barrani (ma già troppo tardi…), al Cairo e a Khartoum i comandi britannici pensavano di avere i giorni contati.

Tra i dati di fatto altrettanto scomodi, potremmo ricordare - ad esempio - che non solo le nostre forze armate, ma quelle di tutte le potenze europee, Germania compresa, erano gravemente impreparate alla prospettiva di una guerra di lunga durata.

Hitler, infatti, aveva preparato i piani per una serie di “Blitzkrieg” e, del resto, nel settembre del 1939 non credeva che la Francia e l’Inghilterra gli avrebbero dichiarato guerra. Quanto a queste ultime, esse si riproponevano, sì, di piegare la Germania con una guerra di lunga durata, ma attraverso una sorta di blocco sia marittimo che continentale, non facendo affidamento su una vittoria militare sul campo, ma sul progressivo strangolamento economico del Terzo Reich, come già avevano fatto con il Secondo, nel 1914-18. L’Unione Sovietica, poi, era in tutt’altre faccende affaccendata, con Stalin che stava portando a fondo le «grandi purghe» e demolendo, letteralmente, i quadri dell’Armata Rossa.

Nessuna delle maggiori potenze europee era preparata, dunque, a una guerra guerreggiata di lungo periodo nel 1939 e nel 1940. Nessuno, tranne lo Stato Maggiore germanico, aveva intuito il ruolo decisivo del carro armato, utilizzandolo a massa e non diluendolo a sostegno delle divisioni di fanteria. Nessuno, tranne l’Ammiragliato britannico, aveva seriamente provveduto a fare del radar l’arma vincente della guerra sul marte. E nessuno, in assoluto, aveva intuito pienamente le potenzialità distruttive dell’arma aerea.

Certo, dopo che i primi mesi di guerra ebbero rivelato, poco a poco, tutte queste inattese verità, gli Stati che possedevano una solida struttura industriale, come la Gran Bretagna e la Germania, nonché una buona disponibilità di materie prime, erano immensamente avvantaggiati rispetto ad altri Stati, come l’Italia e il Giappone, che non possedevano né un’industria pesante, né materie prime, in misura tale da reggere il confronto con gli altri. E tuttavia, resta il fatto: se la guerra si fosse risolta in tempi brevi, lo svantaggio non sarebbe stato così evidente e le possibilità di vittoria, per i secondi, sarebbero rimaste impregiudicate.

A condizione che la guerra non si prolungasse per degli anni, difatti, la mancanza di nafta non avrebbe costretto le nostre magnifiche corazzate a rimanere in porto; e la debolezza della nostra struttura industriale, rispetto a quella del nemico, non avrebbe pesato in maniera decisiva, in particolare per quanto riguardava la necessità di sostituire il materiale bellico che si andava usurando o che veniva distrutto nel corso dei combattimenti.

Il punto è un altro, e cioè capire se esisteva una reale volontà di vittoria: perché, come ha scritto l’eccellente Franco Bandini, una volta deciso per la guerra, forse sarebbe valsa la pena di farla per cercare di vincerla e non, al contrario, prodigarsi nella tecnica della sconfitta.

Nel giugno del 1940 esistevano forze britanniche addirittura risibili sia in Egitto, sia nel Sudan e nel Kenya, per non parlare di Malta. Quella fu un’occasione unica (come del resto lo era stata quella del maggio 1915, quando la frontiera austriaca era presidiata da poche migliaia di territoriali), che non si sarebbe ripetuta: se le forze armate italiane avessero agito con rapidità e decisione, vibrando il colpo prima che la Gran Bretagna potesse rafforzare le sue posizioni in Africa e nel Mediterraneo, forse il nostro intervento si sarebbe rivelato davvero risolutivo.

Per venire al nodo del capitalismo italiano, tradizionalmente assistito dallo Stato e quindi tradizionalmente inefficiente: come si può pensare di vincere una guerra mondiale, quando i grandi gruppi industriali non si dannano certo l‘anima per realizzare il prodotto migliore, visto che, tanto, le commesse statali sono assicurate; ma piuttosto si preoccupano di ottenere quelle raccomandazioni che consentano loro di realizzare i maggiori profitti possibili?

In simili condizioni si può pensare di vincere una guerra locale o una guerra coloniale, come quella per la conquista dell’Etiopia, nel 1935-36; ma non una guerra mondiale contro le maggiori potenze finanziarie, industriali e militari.

Una cosa, infatti, era una certa debolezza strutturale dell’industria italiana; e un’altra cosa il fatto che non potesse raggiungere risultati di eccellenza, se non nella quantità della produzione, almeno nella qualità: vera la prima circostanza, non vera la seconda. Le nostre industrie, infatti, erano in grado di fornire materiale bellico di primissima qualità: se poi il radar non venne realizzato, se gli aviatori decollavano con fasci di giornali sotto il giubbotto per ripararsi dal freddo e se gli alpini combattevano in Russia con le suole degli scarponi fatte di cartone, ciò dipese in parte dalla preistorica arretratezza culturale dei nostri alti comandi, in parte del fatto che la produzione bellica era espressione di un capitalismo cialtrone, parassitario, legato a logiche clientelari e quasi mafiose e che non era capace di reggersi in regime di concorrenza, essendosi abituato a muoversi praticamente in condizioni di monopolio.

Un caso emblematico, per scendere sul terreno degli esempi concreti, è quello di un autentico gioiello dell’aviazione da guerra, il «Re-2005 Sagittario», prodotto dalla Caproni: un velivolo che tutti ci invidiavano ma che, alla fine, risultò soccombente rispetto ai giochi di potere della FIAT, adusa, come sempre, a privilegiare la ricerca esclusiva del proprio interesse e priva di un sia pur minimo sentimento patriottico. Circostanze che si ripresentano nella storia, «mutatis mutandis», fino ai giorni nostri: come quando l’amministratore delegato Marchionne afferma, senza arrossire, che la FIAT, in Italia, non realizza nemmeno un euro di profitto.

Ecco come Carlo Bertani ha riassunto la vicenda dell’aereo da caccia della Caproni durante la seconda guerra mondiale, nel suo articolo «L’allegra commedia del capitalismo italiano» (apparso sulla rivista «Consapevole», n. 11 del giugno 2007, pp. 13-14):

 

«Scoppiò la prima guerra mondiale, ma l’Italia non riuscì a produrre un velivolo nazionale fino al 1916, fino ai primi caccia Ansaldo. In compenso, lo Stato foraggiò abbondantemente l’appena nata FIAT con le commesse militari: gli autocarri FIAT avevano il pessimo gusto di rompersi, di non partire, di essere soggetti ad ogni sorta di maledizione.

Anche il Fascismo non cambiò il pessimo andazzo: il filmato del senatore Agnelli e di Mussolini - fianco a fianco - che inaugurano la FIAT Mirafiori nel 1935 è l’icona del perdurante connubio fra la grande industria e lo Stato. L’Italia entrò in guerra nel 1940 con il nerbo delle forze da caccia aerea composta da biplani.

I biplani Cr-42 erano prodotti dalla FIAT: erano gli unici caccia prodotti nel nostro paese?

Nel 1935 - grazie ad una fortunata operazione di spionaggio industriale - la “Reggiane Caproni” di Reggio nell’Emilia era riuscita ad ottenere i piani di costruzione del caccia statunitense “P-35”: non era certo uno “Spitfire” od un “Focke-Wulf-190”, ma era pur sempre un monoplano metallico di costruzione moderna. La Caproni aveva già costruito, nel 1930, l’ottimo “Caproni 123”, un velivolo commerciale interamente metallico che trasportava venti persone, molto simile ai primi aerei passeggeri della McDonnell Douglas, ma il costruttore non trovò finanziatori che consentissero la produzione in serie, anche per gli “ostacoli” burocratici che il regime fascista  - evidentemente “ben consigliato” da Torino – fu lesto a frapporre. Ad ogni modo, la Caproni trasse dal “P-35” l’ottimo “Re-2000”, al quale seguirono parecchi modelli fino ai sei prototipi del “Re-2005 Sagittario”, considerato uno dei migliori velivoli della Seconda Guerra Mondiale. Qualche squadriglia fu equipaggiata con i caccia Caproni, ma centinaia di biplani FIAT continuarono ad entrare in servizio fino al 1943, quando era oramai evidente che il biplano era un dinosauro dei cieli.

Avvenne addirittura un episodio curioso: il 29 ottobre del 1940, alcuni biplani “CR-42” di stanza in Belgio scortarono dei bombardieri italiani che si recavano a bombardare Ramsgate. Ebbene, la contraerea inglese tardò ad aprire il fuoco, poiché non riuscì a comprendere da dove uscissero quei biplani, che parevano scaturire dagli abissi della Prima Guerra Mondiale.

Morale: quando ero ragazzo, uno zio mi condusse a vedere ciò che rimaneva della Caproni, a Reggio: sembrava un campo dove fossero passate mandrie di bisonti. La FIAT Mirafiori invece - quasi una città nella città - fu appena scalfita dai bombardamenti alleati: in compenso, i quartieri operai furono massacrati. Quando si dice la “sfortuna”. Questi esempi sono significativi per comprendere ciò che accadde quando la debole industria italiana incontra la concorrenza: soccombe, ed in Patria si continua come se niente fosse.»

 

Che se, poi, qualcuno particolarmente malizioso non credesse alla sfortuna, e cominciasse a domandarsi perché la FIAT Mirafiori rimase praticamente illesa dai tremendi bombardamenti alleati del 1943-45, mentre la Caproni venne rasa al suolo…

Ebbene, anche questa sarebbe una di quelle domandine imbarazzanti, molto scorrette politicamente, che sarebbe preferibile non porre agli storici della Vulgata democratica.

Perché, se qualcuno la facesse, quanti scheletri salterebbero fuori dagli armadi!

Forse, a quel punto, bisognerebbe riscrivere, di sana pianta, tutta la storia della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, prima e dopo la fatidica data dell’8 settembre 1943; e rimettere in discussione il dogma fondamentale: che, cioè - per usare l’espressione adoperata dal presidente Napolitano - una vittoria dell’Italia e dell’Asse sarebbe equivalsa ad una «impossibilità storica».

Ma le «impossibilità storiche» che vengono proclamate tali con la ragione del poi, puzzano di bruciato lontano un chilometro…