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Attimi di eternità

di Francesco Lamendola - 29/10/2010

Esiste una distorsione culturale secondo la quale, per avere una visione spirituale della vita, bisognerebbe ostentare il massimo disprezzo nei confronti del corpo e, più in generale, per la dimensione emozionale legata alla sfera del sensibile.

Niente di più falso.

La visione spirituale della vita non passa attraverso il misconoscimento del corpo e della sensibilità fisica: pensare una cosa del genere, significa pensare da eunuchi; al contrario, essa passa attraverso la celebrazione del corpo ed il pieno riconoscimento della sensibilità, per oltrepassare la dimensione fisica e spiccare il volo verso più ampi orizzonti.

Chi non ha mai provato un sentimento di profonda ammirazione davanti al corpo; chi non ha mai fatto, neppure una volta nella vita, l’esperienza di sciogliersi nella pura gioia dell’estasi fisica, non possiede i requisiti per capire cosa sia realmente la spiritualità: poiché quest’ultima non è la negazione, ma la piena realizzazione, la sublimazione e l’oltrepassamento della bellezza della dimensione fisica ed emozionale.

Un uomo che non si sia mai sentito dissolvere, neppure una volta, nella dolcezza dell’abbraccio di una donna, fino a non capire più dove finisce il proprio corpo e dove incomincia quello di lei; una donna che non abbia provato la medesima esperienza tra le braccia di un uomo, non sono delle persone complete: a meno che esse abbiano saputo giungere direttamente alla bellezza dell’Essere, cosa che è concessa, come uno speciale privilegio, alle anime mistiche.

In ogni caso, nessun calunniatore del corpo ha mai posseduto gli strumenti adeguati per spiccare il volo verso le regioni superiori dell’anima; perché, senza bisogno di scomodare l’Eros platonico, è intuitivo che chi non sa vedere la bellezza del corpo, non è neppure degno di apprezzare quella dell’anima.

Infatti, la bellezza del corpo e quella dell’anima non sono due cose diverse e contrapposte: sono due facce di una stessa medaglia. È vero, comunque, che il corpo non si accende di luce propria, che la sua luminosità non è autosufficiente; che sempre esso riceve la sua bellezza dall’alto, cioè dall’anima, e non avviene mai il contrario.

Ciò detto, tuttavia, non bisogna pensare che il corpo sia una sorta di errore del piano divino o uno scherzo esistenziale; e, anche se la sua reale consistenza ontologica è illusoria - così come lo è quella di ogni altro ente materiale -, fino a che noi viviamo nella presente dimensione, non possiamo separarci o emanciparci da esso, ma dobbiamo, al contrario, integrarlo nello splendore dell’anima, farlo tutt’uno con essa.

Per cui la giusta domanda che ci dovremmo porre non è se la nostra anima possa fare a meno del corpo, ma, piuttosto, se possediamo un’anima abbastanza grande, abbastanza luminosa, da abbracciare il corpo, da trasfigurarlo, da illuminarlo, da spiritualizzarlo. ppure la nostra anima è così piccola e meschina che non riuscirà mai a glorificare il corpo, per quante cure materiali noi prodighiamo a quest’ultimo, come si farebbe con un bambino viziato?

Noi non siamo cartesiani, grazie al Cielo; non siamo dualisti, non crediamo che si possa separare la “res cogitans” dalla “res extensa”. Crediamo e siamo profondamente convinti che non vi sia cosa più sublime e più nobile della fusione tra la dimensione corporea e la dimensione spirituale, quando due anime si incontrano fino a compenetrarsi anche nel corpo; quando due corpi si compenetrano fino a far scaturire l’anima, purificata e glorificata.

Nessuno ha il diritto di aggrottare le ciglia, di fare il moralista, di impancarsi a “uomo superiore” quando si parla di una delle più alte e preziose esperienze che siano concesse alle creature umane: quella di abbandonarsi pienamente, felicemente, incondizionatamente, l’una nelle braccia di un'altra, ritrovando - al tempo stesso - la propria parte più vera e trascurata.

Al fondo dell’anima umana, vi è un riflesso dell’anima cosmica e una scintilla dell’anima divina: e, se le potenze dell’estasi sensoriale sono capaci di ridestarne la consapevolezza, dischiudendo uno spiraglio d’infinito, allora vuol dire che la bellezza e la gioia del corpo sono anch’esse una delle nobili vie che conducono alla liberazione dell’anima.

Ciò non significa che automaticamente, sempre e comunque, l’incontro di due corpi si traduca nell’incontro e nella liberazione reciproca di due anime. Se le anime sono sufficientemente evolute, ciò può aver luogo. Ma può anche accadere che esse si trovino su due livelli evolutivi diversi; oppure che, pur trovandosi al di sopra del livello più basso ed egoistico, non siano ancora capaci di far scaturire quella melodia divina che si diffonde quando l’anima abbandona interamente i propri istinti di aggressione e di difesa, per lasciarsi andare alla gioia dell’incontro.

Per incominciare a vedere la luce, non basta avere lo sguardo limpido: bisogna anche che esso sia allenato; per godere il privilegio della fusione con l’altro, non basta possedere una retta coscienza e una disponibilità all’apertura spirituale: bisogna anche spogliarsi della paura e dell’istinto di conservazione, che tenderebbero a tenerci rinchiusi in noi stessi, diffidenti nei confronti di chiunque possa mettere in crisi i nostri equilibri faticosamente conquistati.

Potremmo definire l’essere umano come una creatura che vive, paradossalmente, nella terra di nessuno fra questi due istinti contrastanti: la sete di assoluto e l’istinto di conservazione. La prima lo spinge più oltre e più in alto; il secondo lo trattiene e lo richiama indietro, quand’egli si spinge avanti. La prima discende dalla sua parte celeste, il secondo è figlio della sua parte terrestre; la prima è essenziale alla realizzazione della sua vocazione divina, la seconda è necessaria alla sua preservazione nella sfera del finito.

L’uomo è un viandante in cammino, conteso da spinte contrastanti; ma non è lo zimbello di un destino incomprensibile, né il trastullo di dèi capricciosi. Entrambe le spinte svolgono una degna funzione, ciascuna nel proprio ambito; il male non è che esse mirino a obiettivi discordanti, bensì che l’uomo non le sappia leggere e riconoscere per la funzione che svolgono, evitando di porle in un ambito ed in una prospettiva che non competono loro.

Un essere umano che si lasciasse guidare unicamente dal richiamo dell’assoluto, si perderebbe in quanto individuo sociale e, probabilmente, finirebbe per consumarsi in quanto creatura di carne: come la falena che, volando troppo vicino al fuoco, prima o poi si brucia le ali. D’altra parte, un essere umano che si lasciasse guidare unicamente dall’istinto di conservazione, finirebbe per vivere come i bruti, contentandosi di soddisfare le necessità primarie e aggirandosi per le strade della vita come un ottuso cacciatore di piaceri.

La nostra nobiltà risiede nella sete di assoluto; ma, nella nostra presente condizione di esistenza, non possiamo perseguirla incondizionatamente, altrimenti finiremmo per disumanizzarci: della nostra umanità, infatti, sono parte anche le contingenze legate al corpo, ai sensi, alla bellezza della dimensione fisica. Il mistico che non sappia più gioire del sorriso di un altro essere umano, della luce che si accende al mattino sui monti, del rigoglio di un giardino in primavera, ha smarrito la sua profonda umanità in cambio di una velleitaria pretesa di autodeificazione.

Sì, in noi vi è una scintilla divina; ma questo non significa che noi siamo già pronti, qui e ora, per diventare delle creature incorporee, fatte di pura luce; né bisogna intendere questa condizione anfibia in senso puramente negativo, come un non poter essere quel che si dovrebbe essere. No, l’uomo è quella creatura che deve armonizzare in se stessa il richiamo delle altezze e la pienezza del poggiare i piedi al suolo, gioiosamente e senza riserve.

Il santo che prova orrore della propria dimensione fisica è un fanatico che ignora la vera natura dell’uomo; l’edonista che insegue continuamente il piacere effimero è una creatura di fango, del pari ignorante quanto al senso della propria vita. La commovente bellezza della nostra condizione è proprio quella di trovarsi sospesa quassù, sul sentiero a fil di rasoio: aggrappata al solido fianco della montagna da un lato, ma, al tempo stesso, affacciata su una tale vastità di orizzonti, da mozzare il respiro.

Tale è il nostro destino, tale il nostro ineludibile richiamo.

Noi siamo chiamati ad operare in noi stessi una suprema operazione alchemica: realizzare il grande nel piccolo, ciò che sta in alto con ciò che sta in basso.

Ha scritto il filosofo Salvatore Veca nel libro «Questioni di vita e conversazioni filosofiche» (Milano, Rizzoli, 1991, pp. 132-33):

 

«Ora, la vita può essere letteralmente un viaggio ottuso o disperato nei territori dell’orrore, dell’odio, della crudeltà e della desolazione. Essa può anche generare esperienze di eccellenza, dignità, fioritura, felicità, amore, intensa dedizione a piccole e grandi cause. Difficilmente riuscirei a riconoscere vite umane se esse non prevedessero un impasto variabile, un composto chimico instabile di valore e disvalore. Come potremmo parlare di cose importanti e questioni di vita  se non fosse così? Allo stesso modo, riconoscere il contrasto permanente  che nasce dall’esercizio del doppio sguardo non equivale a accettare l’esito dell’assurdo o quello, simmetrico, della euforia. Essi possono essere esiti nobili e eroici tanto quanto vili, ottusi e gretti. A volte, queste caratteristiche contrastanti si mischiano in un impasto dai contorni e dalle tonalità incerte e formano figure ambigue.

Riconoscere il contrasto può anche voler dire riconoscere la più umana e più rispondente descrizione del tipo di esseri che ci è accaduto di essere  o di essere divenuti,  con tutta la nostra storia e biologia.»

 

L’estasi dell’incontro fra uomo e donna si inscrive in questa richiesta di senso, in questo sforzo per realizzare pienamente le potenzialità della natura umana e per spalancare una finestra di infinito nella nostra dimensione finita, concedendoci - per così dire - un piccolo anticipo di quell’altra dimensione che sperimenteremo, quando non saremo più legati al corpo fisico.

Ma, fino a tanto che esiste un legame del genere, sarebbe sbagliato e fuorviante, oltre che impossibile, volerlo reprimere, negare, cancellare. Perché siamo figli del Cielo, ma - non dobbiamo dimenticarlo - anche della Terra; e disconoscere la nostra seconda discendenza, sarebbe ingratitudine e follia.

Nell’abbandono che trasforma l’incontro con l’altro in una perfetta offerta di sé, si rende a se stessi il dono più grande: l’oblio della ragione strumentale e calcolante, la ritrovata libertà del libero fluire dell’essere, al di là e al di sopra del rovello della ragione che pretenderebbe di capire tutto, di spiegare tutto e perfino di dare un nome a tutto.

Vi sono delle cose che non sono esprimibili a parole, semplicemente perché non esistono concetti capaci di descriverle; eppure se ne può fare esperienza, lasciando che ci prendano per mano e ci conducano lungo i fiammeggianti sentieri dell’Essere. Malati di razionalismo, non siamo abbastanza umili per ammettere una verità tanto semplice, dopo tutto: che la nostra facoltà di sentire le cose supera di molto la nostra capacità di esprimerle mediante la logica.

Aveva ragione Shakespeare, dunque, allorché affermava che vi sono molte cose tra la terra e il cielo, che la nostra ragione non è neppure in grado di sognare; e aveva ragione anche Nietzsche, quando aggiungeva che esistono tante cose, che non sono state ancora dette e nemmeno pensate. C’è tutto un mondo, là fuori, ma anche qui, dentro di noi, del quale la nostra ragione non sospetta neanche l’esistenza; meno ancora potrebbe descriverlo e analizzarlo.

Gli attimi di eternità che si rivelano nell’abbandono del nostro Ego e nella fusione con un altro essere umano, sono una delle esperienze del sublime che la nostra coscienza può realizzare in se stessa, uscendo, al tempo stesso, fuori di sé; così come accade che, in essi, si realizza il paradosso dell’atemporale che si riflette nel temporale.

Non vi sono parole per dire una cosa del genere.

Ci si può solo fare piccoli e silenziosi, per ascoltare.

Il prodigio è questo: che le cose più profonde ci parlano, solo quando noi siamo capaci di accoglierle tacendo; tacendo e contemplando.

Allora, quando si creano le condizioni per quella magica sospensione, tutto diviene possibile: anche vedere l’intero universo in una singola goccia d’acqua…