Marchionne, l’Italia e l’ingrata secessione del profitto
di Giacomo Cattaneo - 07/11/2010
La minaccia di Marchionne – abbandonare l’Italia – per Maltese è l’avvio di una «secessione nei fatti», perché la Fiat è stata «una fabbrica lunga come lo Stivale, da Mirafiori a Termini Imerese, con centinaia di migliaia di lavoratori da ogni regione, provincia, forse da ogni comune d’Italia». Da Marchionne parole ingiuste: «Gli operai non vogliono più abbattere il capitalismo, ma i capitalisti lottano per abbattere gli operai». Un industriale tedesco non si sarebbe mai permesso di sparare sul proprio paese: in Germania operai e ingegneri guadagnano il doppio, per aver puntato «sulla ricerca piuttosto che sulle rottamazioni», e oggi l’auto tedesca domina il mercato mondiale. La Fiat invece sopravvive grazie al mercato italiano, paga male i dipendenti e ora «sputa nel piatto dove mangia».
Cosa vuole Marchionne? Semplice, risponde Giorgio Bocca: «Sottomettere la società agi interessi dei più ricchi e più forti e dei padroni». Delocalizzare? Significa esportare le fabbriche dove c’è più convenienza capitalistica. Marchionne parla dell’Italia come se la Fiat fosse un’azienda straniera da chiudere? «Un modo di ragionare da apolide, da supermanager la cui unica patria è il profitto». Dimenticando che la Fiat è patrimonio nazionale: appartiene al paese che per più di un secolo «le ha fornito uomini, capitali, solidarietà civili e politiche e anche alcune licenze e privilegi».
Nel 2010 la Fiat non fa più utili in Italia? Però negli anni precedenti, grazie al sostegno dello Stato, ha messo insieme profitti e il know-how serviti per acquistare la Chrysler e formare quadri, tecnici e venditori che ne hanno fatto la maggiore azienda italiana. Marchionne è «un uomo di grande intelligenza e capacità manageriali», scrive Bocca, ma afflitto da finta modestia, capace di definirsi «un metalmeccanico». Certo: «Un metalmeccanico da qualche milione di euro l’anno», chiosa Bocca, preoccupato per l’allineamento dell’ad del Lingotto alla filosofia che accomuna da sempre «i capitalisti più aggressivi», pronti a colpire i diritti del lavoro per il loro unico obiettivo: non la responsabilità sociale, ma solo il profitto.