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Belli e dannati

di Francesco Lamendola - 15/12/2010


C’è una fotografia che raffigura due giovani, un ragazzo e una ragazza, allegri, sul bordo di una piscina: sono belli e pieni di vita.

Lei sembra uscita da un telefilm della serie «Baywatch»: bionda, ben proporzionata, atletica; e lui, con quell’aria da bravo ragazzo e quel taglio accurato dei capelli, sembra la versione maschile dello stesso modello: attraente, sportivo, disinvolto.

Sono belli e sembrano felici; anche se il sguardo è nascosto dalle lenti degli occhiali da sole, l’espressione del viso di lei è sorridente, spensierata; ancor più sembra esserlo quella del giovanotto che si accuccia, per gioco, ai suoi piedi.

Ebbene, questi due giovani sono dei mostri.

Sono canadesi e la foto risale, più o meno, al 1988; i loro nomi sono diventati tristemente celebri nelle cronache del loro Paese: Karla Homolka e Paul Bernardo. Hanno rapito e ucciso tre ragazzine giovanissime, sottoponendole a inimmaginabili violenze sessuali: e una delle tre era la sorella minore di Karla. Inoltre, Bernardo aveva in precedenza stuprato una quindicina di ragazzine, riuscendo sempre a farla franca; e ciò prima e durante il matrimonio con la sua compagna di crimini.

Il processo del 1995 ha attribuito la responsabilità quasi totale all’uomo, che è stato condannato all’ergastolo; mentre la donna, la cui deposizione è stata decisiva per inchiodare l’assassino alle sue responsabilità, se l’è cavata con una pena piuttosto mite, cosa che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica: dodici anni di prigione, interamente scontati. Dal 2006 è tornata libera, essendo stata incarcerata già nel 1993.

Di questa pagina atroce di cronaca nera ci eravamo già occupati a suo tempo (nell’articolo «Non occorre scomodare Dante o Dostojevskij per scendere nei gironi infernali dell’anima umana», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 10/01/2009), per cui non indugiamo in ulteriori dettagli sulla vicenda in se stessa; piuttosto, vogliamo svolgere qualche riflessione sul rapporto fra bellezza e malvagità.

La cultura occidentale è vittima di un grosso equivoco, che è - come tante altre cose - di origine greca: che la bellezza di un essere umano sia anche indice di grandezza d’animo, di eccellenza spirituale. I Greci erano pressoché ossessionati dall’equazione di bellezza e di virtù; tanto è vero che se volevano rappresentare un personaggio moralmente spregevole, come nel caso di Tersite nell’«Iliade», immancabilmente lo rappresentavano come brutto, gobbo, deforme, insomma come fisicamente ripugnante.

Viceversa, tutti gli eroi omerici sono splendenti di bellezza, di giovinezza, di forza; e, se non bastasse, ci sono gli dèi benevoli che intervengono per accrescere la loro venustà: come quando Atena circonfonde il corpo di Odisseo di grazia e di splendore, per far sì che la giovane Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, ne rimanga come folgorata. Non parliamo di Paride che, se pure non è un campione in fatto di coraggio fisico, nondimeno possiede un tale fascino, da far cadere ai suoi piedi la più bella delle donne greche: Elena, moglie di Menelao.

E chi non ricorda l’episodio di Frine, tradotta davanti ai giudici dell’Areopago con l’accusa di avere introdotto in Atene delle divinità straniere? È sufficiente che vedano nuda la bellissima donna, perché quegli augusti personaggi lascino cadere ogni accusa nei suoi confronti: una bellezza così smagliante non può essere che il dono di Afrodite.

Il contrario, per i Greci, sarebbe stato quasi inconcepibile: pressoché inconcepibile, per loro, immaginare che un personaggio dotato di alte virtù personali, non fosse anche fornito delle migliori doti del corpo; per loro, si trattava di un binomio praticamente scontato.

 

Era il culto della bellezza che portava i Greci a pensare in tal modo, e nemmeno il grande Platone riesce a sottrarsi del tutto a tale incantesimo; tanto è vero che egli vede nella bellezza fisica il primo passo sulla via della rivelazione della bellezza morale.

La cultura cristiana medievale ha un po’ cambiato i termini della questione: non si dava più per scontato che un essere umano dotato di virtù morali dovesse avere anche la dote della bellezza fisica; anche perché le virtù del perfetto cristiano non erano le stesse del pagano, prevalendo in esse non quelle guerriere, con l’inevitabile predominanza della dimensione fisica, ma quelle dell’ascesi, della carità e del perdono: aspetto che non va enfatizzato, come hanno fatto tanti moderni, ma neppure sminuito.

San Francesco esalta tutti gli aspetti della creazione, ma evidenzia il fatto che la bellezza del mondo è un semplice riflesso dell’amore divino; quanto alla bellezza del corpo, non ne parla affatto. Né gli artisti, almeno fino al tardo romanico, la mettono in evidenza: e non perché non possiedano le capacità tecniche per farlo, ma perché ciò non interessa il discorso che vogliono fare sull’uomo. Della Francesca di Dante, non si dice che sia bella, ma che sia perdutamente innamorata del suo Paolo; dei paladini delle “chansons de geste”, si parla in termini di valore, abnegazione, lealtà e intrepidezza, non di bellezza fisica.

Il binomio di bellezza e qualità morali ritorna con le prime avvisaglie della modernità: in un primo tempo con il romanzo cortese cavalleresco e con la lirica provenzale, che a sua volta influenza il Dolce Sitl Nuovo; in un secondo tempo, a partire da Francesco Petrarca, con la “riscoperta” umanistica della dimensione corporea e con la sua celebrazione, che culmina nell’arte del Rinascimento. I santi e le Madonne dei pittori del XV e XVI secolo sono un inno alla bellezza fisica, a volte perfino audace (certi San Sebastiano ignudi che paiono celebrare la bellezza terrena più che quella spirituale), tanto che diviene inconcepibile, come per gli antichi Greci, rappresentare o anche solo immaginare che possa essere diversamente.

Ciò vale, a maggior ragione, per l’immagine di Gesù Cristo; solo che, se almeno fino a Giotto, si tratta di una bellezza sobria, solenne, per così dire mistica, a partire dal Rinascimento essa diventa una bellezza splendidamente terrena: al punto che, se si togliessero l’aureola o, nel caso della passione, la croce e la corona di spine, si potrebbe benissimo immaginare che non del Cristo si tratti, Figlio di Dio e Redentore dell’umanità, ma di un bell’uomo prestante dalle forma atletiche, simbolo di forza, di grazia e di eccellenza fisica.

Lo stesso dicasi delle Madonne e dei santi della pittura rinascimentale: anche se assorti in un’aura pensosa e come distaccata da tutto, i loro corpi e i loro visi parlano per loro: sono un inno alla bellezza fisica e, il più delle volte, alla giovinezza. Perfino quei santi che la tradizione vuole si rappresentino in età avanzata, come San Girolamo, o immersi in esercizi spirituali particolarmente austeri, come Sant’Antonio Abate, non mancano quasi mai di vigore, di prestanza, di giovanile freschezza e fanno sfoggio di una superba muscolatura.

Insomma potrebbero benissimo, questi santi rinascimentali, fungere da modelli per l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci: il soggetto religioso diviene un semplice tributo esteriore alla committenza, ma quel che palpita in essi è lo spirito antropocentrico della nuova età. Dio scivola in secondo piano e l’Uomo, assiso al centro del mondo, riunisce in se stesso le più alte doti del corpo e dello spirito, in un unico movimento.

Ci stiamo avvicinando, così, all’idea moderna della bellezza corporea e al suo legame con l’interiorità. Nella cultura moderna, l’uomo ha preso definitivamente il posto di Dio; però nuove forze tendono a prendere,  a loro volta, il posto dell’uomo, a cominciare dalla macchina. Il mondo si è arricchito di una bellezza nuova, scrive Filippo Tommaso Marinetti nel «Manifesto futurista»: la bellezza della velocità.

La bellezza corporea, pertanto, domina l’immaginario moderno, ma non si tratta di una bellezza “umanistica” nel senso greco e rinascimentale; bensì di una bellezza che richiama la potenza, l’efficienza e la velocità della macchina. Non aveva affermato, sempre Marinetti, che un’automobile lanciata in corsa, con tutti i suoi tubi serpeggianti, è infinitamente più bella della «Nike» di Samotracia?

Del resto, quante volte la pubblicità non si serve della bellezza del corpo per reclamizzare le macchine? Quante volte non si serve dei corpi di possenti atleti lanciati in corsa, oppure dei corpi di sensualissime modelle in pose conturbanti, per reclamizzare l’ultimo modello di automobile, o di motocicletta, o magari di computer?

Accanto all’elemento “tecnico”, che rende quei corpi efficienti e lubrificati come macchine, molleggiati e, in un certo senso, metallizzati: depilati, abbronzati, coi capelli tinti: insomma sempre più artificiali e simili a robot, altri due elementi si sono fatti strada a partire dalla tarda modernità: l’elemento erotico e quello “demoniaco”.

Il primo era già implicito nella visione rinascimentale e, come abbiamo suggerito, fa capolino già all’interno della stessa arte sacra, sotto mascherati sembianti: quando la rappresentazione dei santi e persino il loro martirio diventa un pretesto per esibire corpi nudi e, a loro modo, conturbanti e sensuali, non senza una certa componente di sadismo, nella sfrenata crudeltà dei persecutori e nella macabra ingegnosità delle torture da essi escogitate.

Ciò che ha portato l’elemento erotico definitivamente alla ribalta, ad ogni modo, è stata la pubblicità: in una società di mercato ove tutto è soggetto a divenire merce, non fa certo meraviglia che il corpo umano, esasperatamente erotizzato, sia stato la prima risorsa cui si è fatto ricorso per aumentare le vendite di qualsivoglia prodotto, e non solo dei prodotti che, come l’abbigliamento intimo, possiedono un ovvio legame con la corporeità.

Il secondo elemento nuovo è stato la cattiveria: bello e cattivo; bello e dannato; bello e perfido (o perfida).

Anche qui, gli scrittori aprono la via, già verso la fine dell’Ottocento: «Bel Ami» è un po’ il manifesto di questa nuova estetica della malvagità; mentre le varie versione di «Salomé», come quella, famosissima, di Oscar Wilde, ne costituiscono la versione femminile. Cosa vi può essere, infatti, di più torbidamente sensuale di una bella ragazza che danza seminuda e che poi esibisce su un vassoio d’oro la testa dell’uomo da lei (e da sua madre) così ferocemente odiato quanto, forse, segretamente amato? La poesia, il cinema, la televisione, la musica-spettacolo (si pensi alle ultime, sempre più esasperate erotizzazioni del corpo nei video delle canzoni) seguiranno a ruota nello sfruttamento questo nuovo filone.

Il caso limite di questo archetipo è quello della donna-vampiro o dell’uomo vampiro: Baudelaire e Bram Stoker si danno la mano in questo rito di magia nera, che consiste nella erotizzazione e nella glorificazione estetica del male; ma già John Milton, alle soglie della modernità, nel «Paradise lost» aveva anticipato il motivo, raffigurando Satana come una creatura romantica “ante litteram”, tanto  bella quanto infelice nella sua titanica solitudine.

Ed eccoci arrivati ai «belli e dannati» della «gioventù bruciata», versione hollywoodiana e popolare del «poeta maledetto» di matrice decadentistica, stile Baudelaire, Verlaine e, soprattutto, Rimbaud. Una intera generazione di attori e di attrici di fama internazionale, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, hanno definitivamente imposto tale associazione fra bellezza del corpo, erotismo e malvagità (si pensi solo a «Il portiere di notte» di Liliana Cavani); al punto che, oggi, riesce perfino difficile concepire, nell’immaginario collettivo, che le cose possano stare altrimenti: proprio come era inconcepibile, per i Greci, che il “buono” non fosse anche “bello”.

A forza di esaltare il connubio di bellezza e tenebrosità, abbiamo creato un modello che ha messo profonde radici nella nostra sensibilità e nella nostra immaginazione e sarà compito arduo snidarvelo, mostrandone l’origine arbitraria e del tutto artificiale, vale a dire costruita freddamente a tavolino.

Non è forse presente, questo connubio, anche in alcuni fatti di cronaca nera degli ultimi anni e decenni, e specialmente quando si accompagna alla giovinezza? Non ha forse ricevuto Pietro Masso, il ventenne che uccise a sprangate i genitori per intascarne l’eredità, centinaia di lettere d’amore e di proposte di matrimonio, pur nella sua condizione di carcerato? E la stessa cosa non è forse toccata alla minorenne Erika, che uccise la madre e il fratellino con decine di coltellate: accomunati, il giovane veronese e la giovanissima ligure, da una certa avvenenza fisica, oltre che dall’inconcepibile crudeltà e gratuità dei loro rispettivi delitti?