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Riflessioni di una domenica d’inverno

di Francesco Lamendola - 31/01/2011


 

Oggi siamo passati a trovare il nostro amico ***, bidello in pensione, gran lavoratore, trent’anni in Africa nelle imprese di costruzione italiane, fra dighe, ponti e strade, per assicurare un po’ di benessere alla famiglia e comprarsi la casa, ai piedi delle Prealpi Bellunesi; e, adesso, un grande orto da mandare avanti da solo, con passione, con amore.

Insieme a sua moglie, abbiamo fatto una passeggiata per i borghi del paese, fra le antiche case in pietra, nell’aria umida e fredda della sera d’inverno (da queste parti, la notte, il termometro scende a qualcosa come dieci gradi sotto lo zero); la domenica aveva portato un minimo di animazione per le strade ed i viottoli che, nei giorni feriali, tornano ad essere semideserti, avvolti in una sognante malinconia.

È un paese non privo di richiami storici ed artistici, già scelto, più volte, per fungere da sfondo a qualche film d’ambientazione medievale; col suo bravo castello appollaiato sul costone della montagna sovrastante, che una volta era sede di una comunità religiosa e poi è stato acquistato da privati per farne un albergo e un ristorante di lusso, con tanto di sala da gioco e di ascensore esterno per condurre i clienti direttamente dal paese, senza dover affrontare la salita a piedi o in automobile: ascensore che è stato installato sbancando mezzo costone roccioso e deturpando il paesaggio fin da lontano.

Almeno metà delle case del paese sono ormai vuote e, di queste, una buona parte sta andando in rovina, sotto il peso delle piante rampicanti e dell’azione inesorabile del tempo: dei circa ottomila abitanti di una volta, sparpagliati su tutto il territorio comunale, ne sono rimasti sì e no la metà, e meno di metà di essi risiedono tuttora nel capoluogo.

Le giovani generazioni se ne sono andate e lasciano deperire le case dei loro genitori e dei loro nonni, un tempo costruite con tanta cura e con tanto amore per i particolari: con i sassi a vista perfettamente levigati e i ballatoi in legno che si affacciano sui cortili interni, ai quali si accede per mezzo di archi in pietra che sono dei piccoli gioielli di architettura rustica. Una gran parte delle abitazioni sono in vendita, talvolta con il malinconico cartello appeso sulle imposte cadenti di legno o sulla facciata invasa dall’edera selvatica.

Fino a qualche anno fa vi si precipitavano sopra legioni di immigrati, specialmente marocchini, impiegati nelle vicine fabbriche, soprattutto falegnamerie; due o tre famiglie si mettevano insieme e riuscivano non solo ad affittare, ma anche ad acquistare quei vetusti edifici. Ma ora, con la crisi economica che divora sempre nuovi posti di lavoro, molte fabbriche hanno chiuso e i finanziamenti a fondo perduto, che lo Stato aveva loro concesso (qualcosa che né in Germani, né negli Stati Uniti, né altrove, si era mai vista) si sono risolti in una perdita secca per il contribuente; e pare che nessuno, vedi caso F.I.A.T., abbia preteso da quei signori, prima di trasferire all’estero capitali e impianti, di restituire quanto era stato loro generosamente prestato.

Così, anche la domanda di alloggi è bruscamente caduta e quelle case finiranno per crollare su se stesse, in attesa che qualche speculatore compri i ruderi e i terreni per quattro soldi e incominci a costruire palazzine in un orribile stile moderno, mettendole poi in vendita a beneficio di qualche vacanziere veneziano o romano il quale, se tutto andrà bene, le abiterà per non più di un paio di mesi all’anno.

Due o tre di tali costruzioni moderne già deturpano il paesaggio sul fianco della collina; altre sono sorte più in basso. Non è raro che siano state costruite non solo ignorando totalmente il contesto edilizio e paesaggistico, ma anche le regole più elementari dell’architettura funzionale. Per esempio, se ne vedono di quelle che non rivolgono a sud,  verso i benefici raggi del sole, più di un paio di modeste finestrelle; mentre le facciate sono rivolte a nord, quasi perennemente in ombra. Dio solo sa quanto spenderanno i loro abitanti in fatto di riscaldamento e luce elettrica, e questo solo perché chi le ha progettate non si è minimamente domandato quale fosse l’orientamento più conveniente da adottare.

L’amico *** mi accompagna in questa ricognizione del tempo perduto, lui che è vissuto qui fin da bambino e che poi, tornato dall’Africa, vi ha rimesso definitivamente radici, amandolo di un amore virile, ma intenso, per cui non finisce mai di stupirsi delle sue bellezze, dei frutti che offre il bosco, della varietà della natura nel corso delle stagioni.

Arrivati all’altezza del torrente che attraversa il paese, mi fa osservare l’imponente lavoro di arginatura che è stato attuato sei o sette anni fa, mediante la posa di enormi pietre squadrate nel fondo del letto, al di sotto dell’argine in sasso risalente al 1800. Senonché i massi sono stati collocati in modo da lasciare uno spazio troppo angusto al deflusso delle acque che scendono dalla montagna e, per giunta, sono stati allineati con una angolazione di novanta gradi, in modo da offrire la massima presa alla furia della piena, anziché di quarantacinque, come avrebbe dovuto insegnare l’antica esperienza.

Il risultato è che, in più punti, i pietroni sono stati asportati e abbandonati di traverso dalla forza del torrente; in almeno un punto l’intero argine è crollato, offrendo un misero spettacolo di disordine e di rovina; mentre il muro di quasi duecento anni or sono è rimasto perfettamente integro, senza perdere nemmeno un sasso, come se fosse stato innalzato non più tardi di qualche settimana o qualche mese fa.

Non si può non pensare alle somme di denaro pubblico che sono state dilapidate in un’opera che è, al tempo stesso, grandiosa, inutile e sbagliata: gli architetti che l’hanno progettata dovrebbero tornare sui banchi di scuola, tanto evidenti sono gli errori che hanno commesso. E le autorità comunali, che hanno commissionato loro il lavoro, dovrebbero chiedersi se sia giusto spendere altro denaro dei contribuenti per restaurare un’opera che è quasi nuova di zecca, ma sta già franando da tutte le parti.

È vero che l’arte di lavorare il sasso è ormai andata persa, come tanti altri saperi del recente passato; gli architetti e i muratori di oggi sino abituati a lavorare solo con materiai modernissimi e ciò spiega gli errori quasi inconcepibili che hanno commesso. Tuttavia, osservando lo spettacolo di tanta inefficienza e di così ingiustificabile spreco, non si può non vedervi una sorta di fedele fotografia della crisi dell’Italia ai nostri giorni: crisi di competenze, di idee, di laboriosità, di morale pubblica e privata.

Quando questo paese, come tanti altri del Nord Italia, era molto più povero e sovrappopolato, ed intere famiglie vivevano in casette di due stanze con un’unica fontana, giù in cortile, per soddisfare le necessità di uomini e animali insieme, nulla andava sprecato, né un pezzetto di terra da coltivare, né un mattone, né un albero da frutto. Si sfruttava tutto, si raccoglieva tutto: i contadini si inerpicavano fino in cima ai colli più erti per coltivare la vite e raccoglievano fin l’ultimo frutto selvatico che offriva il bosco, fin l’ultima rastrellata di fieno per le mucche, che, d’estate, venivano portate al pascolo su in montagna, presso le malghe alpine.

Ai bambini si dava la frutta da mangiare, quando si recavano a scuola o quando consumavano lo spuntino del pomeriggio; ora i kaki, le prugne, i fichi, vengono lasciati sui rami finché cadono a terra e marciscono. Nessuno li raccoglie; ai bambini si dà da mangiare il merendino industriale, pieno di coloranti e di conservanti. Non che ce ne siano ancora molti, di bambini; il paese è pieno di vecchi, i loro figli se ne sono andati altrove e i nipotini, qui, ci vengono sì e no una volta l’anno, per dare ai nonni giusto un fuggevole saluto.

Ecco qui un percorso fra i muri a secco delle vecchie case: qualcuno ha deciso che era necessario pavimentarlo di bel nuovo come un salotto aristocratico, posandovi delle eleganti pietre levigate e collocando addirittura un sistema di illuminazione a livello del fondo stradale, per mezzo di lampadine elettriche (che in realtà, col buio, rischiarano poco e niente) sotto delle apposite cupolette di cristallo. Un’opera faraonica, che sarà costata centinaia di migliaia di euro, per una passeggiata deserta, che vedrà al massimo due o tre decine di persone alla domenica, e molte meno nel resto della settimana.

Diceva Andreotti che a pensare male, in politica, si farà pure peccato, però ci si azzecca quasi sempre: sarà per questo che non può non venire in mentre che un lavoro del genere, sproporzionato alle necessità della cittadinanza e fuori da ogni misura di buon senso, deve essere stato voluto per delle ragioni che non sono precisamente quelle che, senza dubbio, sono state pubblicamente sostenute, e che forse hanno a che fare più con la convenienza di singoli individui, che con l’interesse dell’intera comunità?

Il mutato stile di vita, improntato al consumismo e all’utilitarismo sfrenati, si ripercuote negativamente anche sulla stabilità dell’assetto idrogeologico.

Di quando in quando, frane e smottamenti che scendono a valle minacciano e danneggiano alcune abitazioni isolate: il bosco, abbandonato a se stesso, privo di ogni manutenzione, si vendica, non trattenendo più le acque che scorrono sul terreno durante le copiose piogge autunnali (questa è una delle zone di massima piovosità di tutta Italia). Le colline rinselvatichiscono, i vigneti si concentrano a valle, divenuti proprietà di grandi aziende agricole di tipo industriale, che li irrorano abbondantemente, per mezzo di aerei, di sostanze chimiche, dannose per la salute e suscettibili di inquinare le falde acquifere.

Non si sa come, ma intanto la mortalità da tumore è, in questi bellissimi paesi della Pedemontana, nettamente superiore a quella dei comuni limitrofi di pianura. Anche di questo dobbiamo ringraziare un progresso senza coscienza e un modello di economia e di pubblica amministrazione che di tutto si è preoccupato, tranne che della salute delle persone.

Queste sono le malinconiche riflessioni che non abbiamo potuto evitare, in questa fredda sera d’inverno, passeggiando per un antico e bellissimo paese ai piedi delle montagne, circondato dai boschi, che avrebbe potuto essere una specie di paradiso terrestre, se qualcuno avesse avuto a cuore non solo il profitto economico, ma anche la necessaria armonia fra uomo e ambiente; o, almeno, se avesse avuto per esso tanto amore, quanto ne hanno sempre dimostrato i suoi abitanti, fino a non più di un paio di generazioni addietro.

Tutto questo rappresenta un mesto ritratto del declino dell’Italia nel corso dell’ultimo mezzo secolo: un Paese allo sbando, senza idee, senza persone competenti preposte ad amministrarlo, senza amore per la terra, prive di sobrietà e di senso etico. Un Paese che avrebbe delle grandi potenzialità, ma che il miraggio del successo facile e dalla filosofia aberrante del “tutto e subito” ha condotto, attraverso una nefasta ubriacatura di falso benessere, iniziata negli anni Cinquanta del secolo scorso, alla drammatica situazione odierna.

Usciremo da questo vicolo cieco, nel quale ci siamo con tanta ostinazione avventurati, ignorando ogni campanello d’allarme ed ogni grido della coscienza ferita?

Sapremo ritrovare le vie della saggezza, del senso della misura, della vera socialità e della consapevolezza del bene comune, in luogo del perpetuo - e fallimentare - inseguimento del benessere egoistico?

Nessuno può rispondere a queste domande: essere pessimisti per principio sarebbe macchiarsi di una grave colpa contro il diritto alla speranza delle giovani generazioni; ma essere ottimisti così, tanto per dovere d’ufficio, sarebbe una leggerezza imperdonabile.

La situazione è grave.

All’interno di un modello di sviluppo radicalmente sbagliato, diffuso in tutto il mondo moderno, il nostro Paese vive l’ulteriore contraddizione di un groviglio di insipienze e di negligenze vecchie e nuove, di antiche facilonerie e di recenti furberie da quattro soldi, che si ritorcono inesorabilmente contro chi credeva di volgerle a proprio favore.

I nodi stanno venendo al pettine.

Non sappiamo come andrà a finire; ma è certo che non finirà bene, se non avremo il coraggio e l’onestà intellettuale di farci una severa autocritica.

Inoltre, è già molto tardi; il tempo a nostra disposizione sta per scadere.

Non ce ne resta molto da sprecare in chiacchiere: ne abbiamo appena a sufficienza, sì e no, per correre ai ripari con la massima tempestività.

E poi, che Dio ci aiuti.