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L'animale visionario

di Romano Màdera - Paolo Bartolini - 09/03/2011



VisionaryMadera

Iniziamo con questa intervista al filosofo Romano Màdera una serie di microindagini sulle idee per la Transizione, piccole introduzioni a pensieri che potrebbero accompagnarci a lungo, ora che non vogliamo attardarci con gli schemi del XX secolo: la solita destra-sinistra, le isole culturali incomunicanti, gli scontri di civiltà, il mercato delle idee funzionale alle ideologie dell'accumulazione, sullo sfondo delle possibilità autodistruttive della nostra specie. Conosceremo invece menti creative, libri davvero originali, pensieri diversi. Forse conosceremo soluzioni ai problemi generati da un cambiamento difficile.

Romano Màdera, lei in un suo libro particolarmente apprezzato – L’animale visionario (1999) – descrive l’essere umano come l’unica specie capace di “immaginare altrimenti”, di produrre dunque alternative che modifichino l’esistente liberando la dimensione del Possibile. Ciò è vero perché l’uomo, grazie allo iato che la cultura produce fra stimoli biologici e risposte differite dell’organismo, si trova ad agire in un mondo aperto, instabile, nel quale tracciare indispensabili orizzonti di senso. Nell’epoca del pensiero unico neoliberista intravede ancora degli spiragli per immaginare altrimenti il futuro dell’umanità?


Credo che sia un’esagerazione pensare che il pensiero neoliberista sia davvero unico. E’ il pensiero egemone, solo questo. E un’egemonia sgangherata, perché l’egemonia americana, oggi, è ormai da tempo in declino. Non sappiamo se ci sarà, o quale sarà, la forza egemonica nel futuro prossimo, o se, invece, entreremo in un’epoca di confusa competizione fra diverse aree geopolitiche che incorporano grandi gruppi capitalistici. Una delle possibili prospettive, relativamente nuova, è quella di una sovrapposizione di diverse sfere di giurisdizioni e d’influenza non più riconducibili a sfere istituzionali esclusive, come sono state quelle degli stati nazionali o dei blocchi internazionali.

Ma nella pancia del mondo ci sono anche milioni di piccoli esperimenti, come ben sapete, che moltiplicano le sfaccettature di un altro mondo possibile. Non cambieranno la sorte complessiva, a breve, ma sono laboratori di alternative di ogni genere, pronte a tornare utili nella lunga fase di transizione della crisi generale del nostro modello di vita. Una crisi che riguarda, come si sa, fonti di energia, materie prime e risorse alimentari, distribuzione mondiale del lavoro e della popolazione per classi di età, divaricazione fra istruzione e mercato del lavoro, servizi alla persona, assenza di istituzioni sovranazionali forti e credibili.

 

Come esperto di pratiche filosofiche e psicoanalista junghiano lei è uno dei pochi, in Italia, a rivendicare per i percorsi terapeutici un esito trasformativo che non si fermi al benessere privato, ma inauguri piuttosto un’etica di “autorealizzazione solidale” non lontana dalla saggezza buddhista. Ci chiarirebbe meglio questo concetto?

Non lontana, direi, dalle linee comune delle diverse forme di saggezza, occidentali e orientali, che attraversano filosofie e spiritualità di tipo religioso e no. Il benessere privato, in senso stretto, è una povera illusione, di scarso respiro e di breve periodo. Ogni malessere psichico sta nell’interfaccia fra biologia e società, è una funzione di mediazione che non riesce più a trovare un senso per le sofferenze del corpo e delle relazioni con gli altri. Questo non vuol dire che la soluzione stia nella società dell’avvenire e che, nel frattempo, si possa solo soffrire ed essere alienati. Al contrario, la prospettiva di senso della mia azione di oggi può offrire sufficiente soddisfazione, pienezza di vita, capacità di sopportare sconfitta, delusione e sofferenza. Dunque si tratta di pensare e sentire la via dell’autorealizzazione come particella del tutto che la costituisce, anche intimamente. Senza la prospettiva della trascendenza del proprio interesse egoistico non c’è nessuna terapia che possa avere un minimo di stabilità. Diventa soltanto un rafforzamento, precario, delle difese narcisistiche della nostra cultura dominante.

 

Lei, professore, ha parlato di “civiltà dell’accumulazione” per descrivere la nostra epoca dominata dal processo di perpetuo autoaccrescimento del capitale. In che senso potremmo dire, come lei ha fatto, che il Denaro è il Dio del nostro tempo?

Prendendo la splendida definizione del teologo protestante Paul Tillich del divino come ultimate concern, quello che mi riguarda in ultima istanza, che struttura le mie finalità, i miei interesse profondi. Che il denaro che si accumula sia il dio del nostro tempo lo aveva già detto con chiarezza Karl Marx, peraltro, che aveva diagnosticato e prognosticato la religione feticistica della nostra vita quotidiana. C’è bisogno di dimostrarlo? Si vendono organi da trapiantare, si specula sulle derrate agricole mentre milioni muoiono di fame o di denutrizione, si corrompono dirigenti e sottoposti in qualsiasi settore della vita associata e in tutti i paesi del mondo, si accumulano ricchezze spropositate giocando alla finanza spregiudicata, si producono armi di ogni genere per venderle al migliore acquirente, si trasforma la vita interiore e affettiva in una vetrina di sessualità immaginarie e deaffettivizzate, e via e via. E’ persino puerile fare il gioco quasi infinito degli elenchi di orrori. Ma il dio ha anche i suoi lati gloriosi: non c’è quasi attività buona e giusta che non debba passare per un giudizio di fattibilità economica.

Questo non è solo male, anzi, forse è un modo indiretto, ancora imperfetto perché poco cosciente, di far valere l’importanza del giudizio sociale su ciò che ci si propone. Ma anche il dio del denaro che si accumula morirà, come tutti gli dei della storia. La questione decisiva è sempre: quale dio lo sostituirà? Beninteso, non credo affatto ai filosofemi pseudo religiosi, di contraffatta e camuffata emozionalità, tipo l’heideggeriano roboante appello al “solo un dio ci può salvare”, estraneo alla nostra prassi. Il dio non è in potere delle costruzioni consapevoli dei singoli, ma non è neppure un’entità autonoma e sovraordinata, puramente misteriosa.

Piuttosto, il dio che verrà, sarà il risultato delle nostre interazioni, consapevoli e non. Dunque la sua venuta è anche, sottolineo anche, responsabilità di tutti e di ciascuno. Insomma, questo è un modo mitico-simbolico per parlare di un effetto sistemico delle interintrarelazioni che producono il senso complessivo della vita associata.

 

Nel suo Il nudo piacere di vivere (2006) lei sottolinea la necessità di recuperare il senso del limite e della misura per scardinare la logica dell’accumulazione infinita e i suoi effetti patologici sulla vita delle persone. Qual è la sua opinione sul tema della «Decrescita»? In che modo pensa che possa diffondersi una nuova cultura del limite capace di incidere sia sul versante degli stili di vita individuali che su quello della macroeconomia?

Milioni di microesperimenti in questa direzione, semplicemente perché in modo più o meno confuso l’assenza di limite è radicalmente insoddisfacente, radicalmente angosciante. E la sempre più acuta percezione che stiamo arrivando al capolinea dello sviluppo, uno sviluppo che, ormai è sempre più chiaro, non è conquista di maturazione umana. Il disgusto crescerà insieme alla crisi. Il disagio psichico delle popolazioni sopra il livello di sussistenza si specchierà nel rovescio della disperazione dei poveri del mondo, scatenando ancora più depressione e rabbia espulsiva, ma anche preoccupazione e stimolo a convertire le nostre abitudini di vita. Certo non basterà. Noi umani siamo testoni, ancora impariamo solo dalle catastrofi. Penso che ci saranno passaggi molto duri, tremendi, le convulsioni del vecchio mondo possono durare secoli, e non è detto che sorga poi il sole dell’avvenire. Ma avere in mente una meta di patto di equilibrio e di pace può orientare le azioni e iscrivere la propria vita nella sensatezza. Serve la crescita consapevole di una nuova avanguardia.

Non di un nuovo partito, ma di una avanguardia spirituale, capace di sperimentare su di sé una disciplina spirituale (con spirituale intendo l’unità dello psichico, del corporeo e della cultura sociale di un dato tempo), una cultura della cooperazione e della competizione non distruttiva e non espulsiva.

La cellula virale capace di iniettare la possibilità di un esito positivo alla grande crisi di civiltà che stiamo attraversando. Sperimentare su di sé e con gli altri forme di comunicazione e di cooperazione solidale, esercitarsi quotidianamente per rendersi capaci e degni di questo compito, utilizzando in modo eclettico, sincretico ed ecumenico – sulla base della propria esperienza biografica di vita – lo sconfinato patrimonio di saggezza che ci è stato consegnato da filosofie, religioni, spiritualità e arti di tutte le culture.

Confesso però che il termine di Decrescita – non l’idea che condivido nella sua ispirazione di fondo – mi suona, comunicativamente, troppo legata a una negazione, ancora troppo polemica. Preferisco parlare di “patto dell’equilibrio e della pace”. Equilibrio e pace nel rapporto con la casa comune che è costituita dagli altri, dal lavoro di tutti e dalla natura. Voglio dire, ovviamente, che il punto non è in sé crescere o decrescere, ma come, rispetto a che cosa. So che questo è ben presente nella teoria, ma lo slogan che la traduce non mi convince e rischia di dare un’immagine falsata di quello che si propone. Bisogna dire che vogliamo che crescano, crescano immensamente, attività sensate, consumi attenti, tempi di riflessione, di contemplazione, di gioco, di cura…

 

Infine, chi volesse superare la dicotomia fra destra e sinistra per produrre un’alternativa credibile all’attuale totalitarismo capitalistico, quali forze simboliche dovrebbe mettere in campo per riconquistare i cuori dei delusi dalla politica?

Le forze simboliche non si inventano, si raccolgono e si re-inventano sulla base di una memoria capace di creazione, come sempre è in realtà la memoria. Abbiamo possibilità meravigliose: possiamo mettere in sintonia e in sincronia la concordia di tutto ciò che di saggio, di buono e di bello hanno creato le culture della storia del mondo. Il criterio può appunto essere ciò che contribuisce a costruire un patto di equilibrio e di pace fra i popoli e nell’interiorità di ciascuno.

Ma non serve neppure basarsi soltanto su ciò che forma la grande concordia della saggezza universale, sui punti di coincidenza che pure sarebbero più che sufficienti e di stupefacente capacità trasformativa.

Con un metodo adeguato di comunicazione che rispetti la singolarità biografica e la faccia vivere nella fecondità dello scambio comunitario, possiamo, senza urtarci, far tesoro delle più fini diversità, senza pretendere di imporle. Uno dei milioni di microesperimenti è anche quello che conduciamo in piccoli gruppi di pratiche filosofiche da quindici anni, pratiche fra le quali, appunto, c’è anche la sperimentazione di regole di comunicazione biografico-solidali.

Questo per dire cosa tento di fare personalmente. Facciamo invece un esempio in grande: prendiamo uno dei temi più scottanti di scontro e di incomprensione di universi simbolici, usati spesso a rinforzo di politiche fondamentaliste, contrappositive, sostanzialmente succubi, peraltro, agli interessi della civiltà dell’accumulazione. Quali tesori simbolici sono da snidare nelle convergenze fra le religioni del Libro – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – quali forze simboliche possono essere evocate a vantaggio della fratellanza e della cooperazione, della trasformazione interiore e della condivisione sociale e materiale, quali spinte generose verso la comunità universale dell’umano !

Certo, bisogna impegnarsi in un processo di purificazione, di vera e propria catarsi, liberando le religioni – queste e tutte le altre – dalle loro incrostazioni complici di mentalità oggi inaccettabili: bisogna liberarle dall’etnicismo, dal classismo, dal sessismo, dall’autoritarismo, farle passare da questo setaccio, trattenendo solo le perle che vincono il tempo.