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Il Ventunesimo secolo sarà dei soggetti "post-traumatici"

di Antonio Gnoli - 28/04/2011



In pochi anni le generazioni che hanno vissuto il Novecento e che con esso si sono confrontate, hanno combattuto e interrogato in linea con la modernità (e perfino con la postmodernità), sembrano aver dilapidato quel patrimonio di idee e di esperienze come mai in epoche precedenti era accaduto. È come se il nuovo secolo lungi dal tentare una continuità con il precedente faccia di tutto per staccarsene, per mostrarsi radicalmente diverso o quanto meno indifferente al proprio passato. In che modo dunque ci si può predisporre all´analisi dei nostri tempi se questi tempi sembrano refrattari all´uso delle categorie consuete?
Prendete un pensatore come Slavoj Zizek, un tipo gioviale - per via delle fattezze fisiche, gli amici lo hanno soprannominato "l´orso di Lubiana" - uno che gira il mondo e che quando riflette non si accontenta degli schemini liberal-democratici o postmoderni, ma va dentro alle questioni con molta determinazione e qualche originalità, ebbene perfino Zizek ha dovuto fare un grande sforzo di ripensamento del proprio lavoro come dimostra il suo nuovo libro il cui titolo è già la spia di un disagio: Vivere alla fine dei tempi. Quali tempi, vi chiederete. E la risposta non può che essere il tempo globale, quello che tutto avvolge e ricomprende sotto una stessa cifra, sotto una stessa bandiera, sotto un medesimo sentire. E che per reazione ha prodotto localismi impensabili solo qualche decennio fa. Mai un secolo, o meglio un millennio, si è aperto con così tante paure e angosce, neppure nei tempi più bui, neppure in quell´attesa di catastrofe millenaristica che segnò la svolta dell´anno Mille. Eppure il libro di Zizek non è una riflessione sulla decadenza, non va confuso con quelle opere, alla Spengler per intenderci, che parlavano di inesorabili tramonti nei quali l´Occidente era ormai destinato. Vivere alla fine dei tempi è semplicemente vivere nei nuovi tempi, quelli che oggi ci appartengono e dai quali difficilmente riusciremo a evadere.
Dunque tuffatevi nella lettura di queste seicento pagine - a volte geniali e a volte confuse - ma senza immaginare che lì si trovi la soluzione al problema, perché il problema semplicemente non risponde più alle sollecitazioni consuete, alle interrogazioni tradizionali. Wittgenstein, a suo tempo, parlò di "crampi linguistici". Ecco: è come se Zizek riproponesse quella scena: la muscolatura dei concetti e delle parole si è contratta, irrigidita e facciamo molta più fatica a camminare, cioè ad analizzare il percorso. Naturalmente nel libro ritroviamo alcuni temi cari a Zizek: il suo marxismo duro ed eterodosso, la sua passione per il cinema (soprattutto hollywoodiano), le cui trame sono le nuove narrazioni capaci di popolarizzare la nostra vita concettuale; infine Jacques Lacan: il maestro, il punto di riferimento che attraverso la triade Immaginario, Simbolico, Reale ci offre una possibile e plausibile spiegazione del mondo. Nel leggere i testi di Zizek mi sono chiesto da dove nascesse questo interesse (diciamo pure fedeltà) al cinema e alla psicoanalisi e la risposta è che entrambi ci offrono virtualmente un´altra vita, un´altra occasione di godimento (di eccedenza libidinale) nei riguardi di un reale che ha perso i tratti della riconoscibilità. Abbiamo perciò bisogno dell´inconscio, del sogno, del magma invisibile e sotterraneo per riprendere contatto col mondo.
Fin qui, verrebbe da dire, siamo ancora al Zizek innamorato del moderno e dei suoi grandi interpreti: Cartesio, Kant, Hegel, Marx, Freud. Ma in Vivere alla fine dei tempi qualcosa è mutato, qualcosa è accaduto alla nostra civiltà, al sistema globale del capitalismo che sta andando dritto verso un apocalittico punto zero. Quattro sono le emergenze: il collasso ecologico, la riduzione biogenetica degli umani a macchine manipolabili, il controllo digitale totale sulle nostre vite, la crescita esplosiva delle esclusioni sociali. In fondo non è affatto vero che stiamo esportando democrazia e che stiamo andando verso società più egualitarie. Il quadro che ci si prospetta è quello di una violenza sconosciuta in passato e che si realizza attraverso le speculazioni finanziarie e le catastrofi di vario tipo (naturali, fisiche, mentali). Con quali conseguenze? Se il secolo Ventesimo è stato dominato dal soggetto scabroso (titolo di un libro di Zizek), cioè un soggetto che interroga, che mette in dubbio ed è capace di reagire anche con durezza alle avversità, il Ventunesimo secolo porrà al centro il soggetto post-traumatico. Si tratta di una figura di "sopravvissuto" alla violenza (rifugiati, clandestini, vittime del terrorismo, sopravvissuti ai disastri naturali, e perfino i malati di Alzheimer), la cui nuova identità simbolica è prodotta interamente dal trauma subito. E allora si capisce bene la frase per cui «l´11 settembre ha segnato la fine della postmodernità, la fine dell´epoca dell´ironia e della correttezza politica». Il nuovo soggetto che avanza è dunque agli occhi di Zizek uno sconosciuto che non ha più legami col proprio passato. Inquietante, verrebbe da osservare. Ma su questa entità misteriosa che cosa il pensiero può dire di nuovo? Mi ha colpito una frase di Zizek: «Il mio sogno è avere una casa composta solo di spazi secondari e luoghi di passaggio - scale, corridoi, bagni, ripostigli, cucine - senza soggiorno né stanze da letto». In fondo la vita intellettuale dell´"orso di Lubiana" è molto simile al suo credo architettonico: un pensiero inospitale, dove le soste sono emergenze brevi e non esistono più luoghi nei quali trovare un riparo sicuro.