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L’Almone, il fiume sacro ai Romani

di Vittorio Sorci - 01/05/2011

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Un bassorilievo votivo, conservato in Campidoglio, rappresenta il fiume Almone con le figure di Ercole e Mercurio, con il giovane Hilas rapito dalle ninfe del fiume Ascanio e con le tre Grazie, indici della guarigione ottenuta dal dedicante.
L’Almone, il terzo corso d’acqua che aggiungendosi al Tevere e all’Aniene bagna l’Urbe, nasce a Marino sui colli albani in un bosco che appare essere una degli ultimi lembi di quell’antichissima silva Laurentina, già considerata primordiale al tempo di Roma antica, che scendeva ininterrotta dalle cime dei monti e dal Tevere fino a Terracina, dimora ancestrale dei numi tutelari del Latium vetus, di Pico, di Fauno, di Latino, della maga Circe e delle ninfe Venilia, Giuturna e Albunea. Tra questi boschi sacri di alberi giganteschi, plurisecolari, che coloravano la pianura a seconda dell’associarsi o del distinguersi delle diverse specie arboree, conservatisi sino alla metà del Cinquecento grazie al sentimento religioso degli antichi, che poté molto più delle odierne leggi di tutela forestale, scorreva l’Almone, con le rive ornate di felci smisurate, dafne, pungitopo, agrifoglio, violette e ciclamini, sino alla confluenza con il Tevere.
È qui che, nelle acque del ruscello, veniva immerso il simulacro della Dea Cibele, Madre degli Dei.
Il culto della Magna Mater era stato introdotto in Roma sin da IV aprile del 204 avanti l’era volgare, durante il periodo della seconda guerra punica, quando dietro richiesta del senato romano, su ingiunzione dei Libri Sibillini, per propiziare la vittoria sui cartaginesi, Attalo, re di Pergamo, aveva acconsentito che la pietra nera, immagine aniconica della Dea, fosse trasferita da Pessinunte, in Frigia, sino all’Urbe. Qui venne collocata nel tempio della Vittoria sul Palatino, in attesa che le fosse consacrato, pochi anni più tardi sempre sul medesimo colle, un proprio luogo di culto. La circostanza che alla Magna Mater sia stato edificato un tempio sul Palatino e non extra pomerium indica il carattere nazionale del culto, in quanto introdotto dal tirreno Dardano nella Troade e da lì nuovamente riportato in Italia, come conferma anche il provvedimento di Giulio Cesare Ottaviano Augusto, Padre della Patria, che, aumentandone il numero dei sacerdoti, definiva la Dea protettrice della gens Iulia.
La festa della Lavatio, che aveva il suo momento culminante sulle rive dell’Almone, si svolgeva il 27 marzo, sotto il controllo dei quindecemviri sacris faciundis. La cerimonia, celebrata more Romano, prevedeva una processione trionfale che, dopo essere partita dal santuario della Dea sul Palatino, varcava la cinta muraria dell’Urbe da Porta Capena per raggiungere l’Almone. Qui l’archigallo, che presiedeva il collegio sacerdotale a servizio della Grande Madre, vestito di porpora, bagnava la Dea. Venivano, poi, purificati, ossia lavati, gli utensili e gli oggetti di culto, mentre intorno alle rive del fiume si eseguivano canti e danze al suono della tibia. I quindecemviri completavano il rito rivolgendo preghiere per il bene dello Stato.
La lavatio simboleggiava il bagno mistico di purificazione che segnava il sacro sposalizio di Cibele con Attis, suo paredro, con cui la Dea si congiungeva in un’unione sacra. Lo Stato e i devoti, grazie all’immersione nell’Almone, diventavano così pronti a celebrare le grandi feste di aprile in onore della Magna Mater.
Anche nel mondo greco il simulacro di Hera, protettrice delle nozze, della vita sessuale femminile e del parto, era sottoposto a un annuo bagno rituale. In ambito italico ciò avveniva nelle acque del Silano, ove l’immersione della statua di Hera era accompagnata da una corale e simbolica immersione, da parte di un gruppo di fanciulle, di una serie di pupazzi in fiore, raffiguranti con tutta probabilità la Dea stessa.
Il bagno delle statue divine e l’immersione prenunziale non sono circoscritti soltanto all’ambiente mediterraneo, in cui il lavaggio nelle fonti, nelle paludi, nei fiumi, nel mare di notte o nelle ore mattutine del solstizio d’estate fu praticato ancora a lungo a Roma nel Tevere e a Napoli nel Tirreno, nonostante gli strali di Agostino di Ippona. Da Tacito il rito è attestato anche nel mondo germanico, ove un centro di culto delle Matres era situato sulla riva sinistra del Reno, a occidente di Colonia e Bonn. Ancora il Petrarca lo descrive nella forma di un avvincente costume calendariale collettivo, celebrato dalle donne, che immergevano le braccia denudate nell’acqua del Reno.
La santità attribuita al fiume nel mondo antico e l’esigenza di purezza in cui dovevano restare le sue acque è ben comprensibile leggendo il passo dell’Iliade in cui Achille, per vendicare la morte di Patroclo, contamina con i cadaveri dei nemici uccisi il corso dello Scamandro, rivo sacro ai Troiani, il quale con viso umano così si rivolge all’eroe greco: “O Achille… se il figlio di Crono ti ha dato di sterminare i Troiani / spingili almeno lontano da me, fa scempio nella pianura! / Le mie correnti amabili sono piene di morti, non posso ormai più versar l’acque nel mare divino / tanto son zeppo di morti: e tu massacri funesto. / Ma vattene e smetti, mi fai orrore, capo di eserciti”. All’ingiunzione Achille ubbidisce (“questo sarà, Scamandro divino, come tu l’ordini”), ma in un secondo momento, spinto da Apollo, sarà lui stesso a lanciarsi nelle acque del fiume in una sanguinosa mischia. Lo Scamandro, allora, infuriato gonfia le acque, getta fuori, mugghiando come un toro, nelle rive, a mucchi i cadaveri degli uccisi, che sono impuri, nasconde e salva i vivi nei grandi gorghi della sua corrente, avanza e solleva furioso i suoi flutti contro il guerriero acheo, lo mette in fuga, infrangendo sul terreno le sue onde, e lo avrebbe travolto senza un nuovo intervento degli Dei.
Con la caduta dell’Impero romano la valle della Caffarella, in cui scorre l’Almone, definita la Marmorea per i tanti monumenti che vi si trovavano, divenne oggetto di vandalismi, tanto che illustri personalità del Rinascimento levarono la loro voce in difesa delle memorie del passato. In una lettera, inviata a papa Leone X, Raffaello deplorava lo stato di abbandono in cui giacevano le vestigia: “Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, de’ Vandali e d’altri perfidi inimici del nome latino, se quelli che come padri e tutori dovevano difendere queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno atteso con ogni studio lungamente a distruggerle et a spegnerle?” Nel 1589, al tempo di Sisto V, il Conservatore Paolo Lancellotti con un appassionato intervento in Campidoglio riuscì a convincere il Senato di Roma a revocare l’ordine di demolizione del mausoleo di Cecilia Metella, cui già il cardinale Ippolito d’Este aveva posto mano per rimediare materiale da costruzione per erigere la propria villa a Tivoli.
Mentre gli edifici antichi cadevano in rovina, la rete di cunicoli e di canali, che rendeva possibile un efficiente convogliamento delle acque, permettendo l’eliminazione dei ristagni, priva di manutenzione, smise di funzionare. Si ricostituirono così le paludi, mentre lo stesso Almone perse la sua particolare individualità, assumendo nomi diversi secondo il tratto del suo percorso. Dalle Capannelle, dopo aver sfiorato le sorgenti della lodatissima Acqua Santa, le cui virtù curative erano ben note ai Romani, essendosi formato in tempi remoti nella ubertosa valle della Caffarella un lacus salutaris, l’Almone sottopassa l’Appia antica per costeggiare le mura aureliane e i bastioni del Sangallo per poi scendere fino al ponte della Moletta, sulla via Ostiense, e confluire nel Tevere. Capita, allora, che nel corso dei secoli l’Almone venga denominato Marrana della Caffarella, Fosso d’Acqua Santa, Fosso dello Statuario, Marrana della Travicella, Marrana dell’Incastro, Marrana del Calice, Marrana del Calicetto. Il fiume, che il Vasi nel suo Itinerario istruttivo di Roma riportava chiamato dai Romani anche di Mercurio, perché i mercanti aspergevano le loro merci con le sue acque, assunse frequentemente il nome di marrana dell’Acquataccio. L’appellativo di Acquataccio si ritrova nella pianta redatta da Leonardo Bufalini nel 1551, la prima che fornisce un’esatta rappresentazione urbanistica della Roma rinascimentale. Non si tratta di un toponimo peggiorativo, bensì è la deformazione di un nome nobilissimo, come spiega lo stesso Bufalini, in una versione manoscritta della sua pianta, sdoppiando la parola in “Acqua Accia”, che divenne pochi anni dopo nel Paciotti (1557) “Aqqua d’Accia” e nel Dosio (1561) “Acqua Daccia”. La spiegazione della denominazione è comprensibile laddove si consideri che nel medioevo la porta di s. Sebastiano, da cui abbandonava la cinta muraria aureliana la Regina viarum, fu detta Accia. Pertanto il toponimo è interpretabile come “acqua dell’Appia”, dal momento che l’Almone attraversa proprio la via consolare e vi scorre limitrofo.
Dopo i grandi interventi di sistemazione ambientale, i restauri dei monumenti sull’Appia antica compiuti da A. Muñoz, l’esproprio al terzo miglio del circo dell’Imperatore Massenzio e del mausoleo di suo figlio Valerio Romolo eseguito dal Comune di Roma durante il Fascismo, che con il Piano Regolatore Generale del 1931 intese salvaguardare la valle della Caffarella, bisognerà attendere il 1988 per l’emanazione della legge regionale n.66 istitutiva del Parco regionale dell’Appia Antica. Nel 1993 Antonio Cederna veniva nominato presidente dell’Azienda consortile e fino al termine dei suoi giorni denuncerà l’ “opera di corruzione svolta dalla stampa foraggiata dai padroni della città per cui il problema dell’Appia è stato abilmente presentato sotto panni estetici anziché urbanistici”, amaramente rilevando: “Il disastro è che la via Appia Antica sia capitata a noi, invece che a un paese civile e moderno, che l’avrebbe da mezzo secolo trasformata in zona pubblica e patrimonio permanente di tutta la città”.
Oggi il progetto di tutela dell’Almone giace abbandonato, mentre nel febbraio scorso ignoti ladri hanno svuotato un’autobotte piena di oltre diecimila litri di carburante nelle sue acque. Agli autori dell’infame gesto, ma ancor di più agli speculatori edilizi, che oppongono la loro volontà predatoria a qualunque esigenza di conservazione e protezione delle memorie dei nostri antenati, e agli amministratori locali, colpevoli di omessa vigilanza, se non di collusione, stante il perdurante lassismo nei compiti di salvaguardia del territorio, ossia del più vasto dei templi coperto dalla volta stellata del cielo, dedichiamo l’ammonizione di Cicerone perché, presto o tardi, i conti saranno saldati: “E voi chiamo testimoni, o tumuli e sacri boschi albani, voi, dico, atterrati altari di Alba, congiunti e associati nel medesimo culto del popolo romano, voi, che nel suo insano delirio egli ha schiacciato sotto la mole di mostruose fondamenta, tagliati e prostrati i vostri santissimi boschi. Allora la vostra divinità fece sentire la sua potenza; e la vostra maestà, che egli aveva con ogni scelleratezza contaminato, spiegò la sua forza. E tu, santo Giove, dal tuo alto Monte Laziale, tu, a cui egli ha profanato più e più volte con ogni sacrilegio la terra, i laghi, i boschi, hai finalmente aperto gli occhi a far vendetta; e a voi, al vostro cospetto benché tardi, ha pagato la giusta pena”.