Il nemico dell’occidente
di Fabio Falchi - 13/05/2011
Secondo Lucio Caracciolo anche se «non sapremo mai tutta la verità sui fatidici minuti del raid di Abbottabad [bisogna lasciare] i dietrologi alle loro esercitazioni, non perché non siano legittime, ma perché inutili. Peggio: devianti. Ci impediscono di guardare alla sostanza». (1) E la sostanza sarebbe che nel decennio della “guerra al terrorismo” è la Cina che avrebbe vinto a spese degli Usa e di «noi occidentali»: all’inzio del secondo millennio l’America era la «superpotenza solitaria», mentre oggi gli Stati Uniti, pur essendo ancora la prima economia mondiale , sono indebitati fino al collo, in particolare con la Cina. E lo sono anche per il costo della “guerra al terrorismo”, tanto che per Caracciolo (che non può fare a meno di chiedersi a che serva la strapotenza militare statunitense se Washington non è capace né di vincere né di terminare questa guerra) l’America di Bush sarebbe caduta nella trappola dei “terroristi islamici” «per sfortuna del suo paese – e di noi europei occidentali, che della protezione a stelle e strisce abbiamo goduto per i migliori decenni della nostra modernità». Pertanto ad Obama non rimarrebbe altro che il difficile compito di uscire dal labirinto afghano, per concentrarsi sugli “affari” che contano: l’economia e la competizione con la Cina (in sostanza, la stessa cosa).
Di questa analisi sorprende non tanto che non si distingua tra gli interessi della classe dirigente atlantista di Eurolandia e quelli dei popoli europei, né che si consideri del tutto “normale” che i Paesi dell’Europa occidentale siano a sovranità limitata, anche dopo che sono passati parecchi lustri dalla scomparsa del’Unione Sovietica, o che non ci si domandi quale sia (stato) il prezzo di questa “protezione”, quanto piuttosto che il sintagma “terrorismo islamico” sia usato per caratterizzare non un modo di agire di alcune determinate organizzazioni politiche, ma una specie di “entità malefica”, contro la quale gli Usa sarebbero impegnati per difendere il cosiddetto “Occidente”. Che i motivi che hanno indotto gli Usa ad invadere l’Irak e lo stesso Afghanistan abbiano invece poco o nulla a che fare con la” lotta al terrore”, è talmente ovvio e noto che non vale la pena di prenderli in considerazione. Del resto, si potrebbe pure osservare che la “guerra contro il terrorismo” ha causato centinaia di migliaia di vittime civili, ossia un numero enormemente maggiore delle vittime causate dal “terrorismo islamico”, e che se un americano o un sionista valgono molto di più di un iracheno, di un afghano o di un palestinese, non si capisce perché non sia vero anche l’opposto. Vale a dire che non si capisce perché non debbano essere considerati “terroristi” anche gli americani o i sionisti, indipendentemente dalla retorica che si usa per legittimare le “guerre umanitarie”. Tuttavia, non si possono sottovalutare le conseguenze che derivano dall’impiego di un termine astratto come “terrorismo” o di un sostantivo come “terrore” per riferirsi ad un qualsiasi soggetto politico che l’America ed Israele definiscano come “nemico dell’Occidente”. E che questi termini siano una sorta di “arma mediatica” contro i “nemici dell’Occidente”, lo conferma la recente affermazione del primo ministro israeliano Netanyahu secondo cui la riconciliazione tra Fatah ed Hamas sarebbe “un duro colpo per la pace e una grande vittoria per il terrorismo”. Lo Stato razzista e colonialista d’Israele può quindi definire “terrorismo” la lotta di liberazione del popolo plalestinese, esattamente come gli americani possono definire “terroristi” gli afghani che combattono per scacciare la Nato dal loro Paese o come le forze occidentali possono sostenere che sono “terroristi” i libici che “stanno dalla parte” di Gheddafi, cui il circo mediatico occidentale ha assegnato la parte del cattivo di turno, anche se già il “terrore” sta per mutare nuovamente “referente”, spostandosi l’attenzione degli “occidentali” verso il Medio e Vicino Oriente. D’altra parte, si deve pur considerare che un sintagma come “il nemico dell’Occidente”, secondo la filosofia del linguaggio fondata sulla semantica dei mondi possibili, (2) non è un designatore rigido, a differenza di un nome proprio (come, ad esempio, Obama, che sarebbe Obama, anche se non fosse il presidente degli Usa); mentre – in maniera del tutto simile alla descrizione definita “il presidente degli Usa” – “il nemico dell’Occidente” (o un termine di genere nominale come “terrorista”) designa soltanto un qualunque individuo/soggetto che abbia certe caratteristiche . E poiché è l’Occidente a decidere quali siano le caratteristiche che si devono avere per essere considerati “terroristi”, si può ragionevolmente sostenere che la denotazione del termine “terrorista” ormai varia al variare della denotazione/connotazione del sintagma “il nemico dell’Occidente”. Ciò non significa, è opportuno sottolinearlo, che non vi siano organizzazioni politiche “islamiche” che ricorrano al “terrorismo” per conseguire i loro scopi; ma – anziché cercare di capire quali siano, dove e come operino, quali siano i loro scopi, perché ricorrano, ammesso che vi ricorrano, al “terrore”, contro chi combattano e per quale motivo lo facciano, se abbiano o no dei rapporti tra di loro, se siano o no “pilotate” (e in che modo) da servizi di altri Paesi – si tende a fare, come si suol dire, di ogni erba un fascio, di modo che non siano considerate significative le differenze tra Hamas, Hezbollah, i guerriglieri afghani, al-Qaeda, gli “africani” e le “amazzoni” di Gheddafi. E naturalmente anche “Stato canaglia” ed espressioni simili si riferiscono ad una classe i cui membri cambiano a seconda del vento della storia “made in Usa”.
Di conseguenza, adesso che la “guerra al terrorismo islamico” (o meglio una “certa fase” di questa guerra) sembra essere terminata con l’annuncio della morte di Osama bin Laden, è di fondamentale importanza comprendere non tanto il significato del sintagma “terrorismo islamico”, quanto piuttosto quello del sintagma “nemico dell’Occidente”. Al riguardo, Tomislav Sunic ha sostenuto (3) che «chiunque osi sfidare militarmente [ma questo avverbio lo si potrebbe anche omettere] gli Usa corre il rischio d’essere espulso dalla categoria dell’umanità o, quanto meno, d’essere bollato come terrorista. Una volta che la si sia dichiarata estranea al genere umano o terrorista, d’una persona o d’una nazione si può disporre a proprio piacimento». A Sunic, che mostra di conoscere assai bene il pensiero del filosofo tedesco Carl Schmitt, non sfugge né che gli americani già durante la Seconda guerra mondiale avevano chiaramente dimostrato di volere diffondere la propria la visione del mondo con qualunque mezzo (“terrorismo” incluso), né come la retorica dei diritti umani , mescolata con il “fondamentalismo” di matrice biblica, tipico della cultura politica (e non solo politica) americana, da un lato abbia spinto «gli statunitensi ad abbracciare la causa del nuovo Stato d’Israele, con conseguenze imprevedibili per l’intero Vicino Oriente e l’umanità tutta»; dall’altro, abbia dato origine ad una “teologia politica” della democrazia liberale, che porta l’élite nordamericana a ritenere “giusto” impiegare ogni forma di violenza contro gli “altri”, ovvero contro «chiunque si opponga alla crociata religiosa degli Usa contro il “Male”». Perciò, a giudizio di Sunic, è essenziale rendersi conto che «gli interventi militari statunitensi non hanno mai avuto, quale unico obiettivo l’imperialismo economico, bensì piuttosto il desiderio di diffondere nel mondo la democrazia nordamericana». (Si spiega così anche il motivo per cui l’americanismo, in quanto forma di “teologia politica”, «deve rimanere immune da qualsiasi critica», tanto che l’antiamericanismo viene considerato dai filo-americani, per i quali chi non ama l’America non amerebbe sé stesso – proprio come l’ebreo che critica Israele odierebbe sé stesso -, addirittura una “malattia mentale”, come se l’americanismo non fosse un “ismo”, un’ideologia, e fosse invece sinonimo di “popolo americano”). Sicché, anche la considerazione che Israele, sotto il profilo geopolitico, rappresenta per gli Usa più un peso che una risorsa, non può che passare in secondo piano, rispetto al fatto che «Israele, metafisicamente parlando, è il luogo d’origine della missione mondiale e divina degli Usa, nonché l’incarnazione della loro stessa ideologia». D’altronde, non si può negare che l’imperialismo economico e il “messianismo democratico” dell’America sono, in realtà, due facce della medesima medaglia, come dimostra non solo la Seconda guerra mondiale (che trasformò l’America in una superpotenza militare e nell’unica grande potenza economica mondiale), ma anche la storia del secondo dopoguerra, che ha visto “crescere” gli Usa in funzione dell’ampliamento della loro sfera di azione politico-militare e dell’enorme espansione del loro apparato bellico (un aspetto “strutturale” del sistema americano, benché, stranamente, del tutto ignorato da Caracciolo nell’articolo sopraccitato). Ben difficilmente quindi gli Stati Uniti potranno ridurre drasticamente i loro impegni all’estero, per uscire dal pantano globale in cui si sono cacciati (procurandosi innumerevoli nemici e diventando sempre più palese – nonostante che i media manipolino l’informazione per favorire l’americanismo – la distanza tra gli obiettivi che gli americani affermano di voler raggiungere e il loro “reale” comportamento politico, militare ed economico). Molto più probabile invece è che la nozione stessa di “nemico dell’Occidente” venga ridefinita secondo una diversa strategia della talassocrazia statunitense. E quanto sta accadendo in Africa Settentrionale e nel Vicino e Medio Oriente pare offrire – pur tenendo presente che è ancora una situazione estremamente fluida, nella quale certamente agiscono diversi “attori politici” con differenti scopi – una buona chiave di lettura per capire quale possa essere il “nuovo corso” della politica di potenza americana. Tutto cioè lascia supporre che le “rivoluzioni colorate” abbiano fatto scuola e che l’America punti soprattutto su un approccio indiretto, sul “softwarfare”, per così dire, senza escludere a priori un intervento militare, ma facendo leva sul fatto che non vi è nessun blocco di alleanze in grado di contrastare il Wille zur macht degli Usa, anche mediante un’azione culturale, al fine di impedire che l’opinione pubblica mondiale continui ad essere “informata” soltanto secondo i criteri che orientano la politica di potenza americana. Certo, si deve prendere atto che gli Usa sono ancora una “grande potenza culturale”, come nota lo stesso Caracciolo, sebbene ciò dipenda anche dal fatto che l’Europa si è lasciata colonizzare perfino sotto questo aspetto.(Sarebbe però una vana consolazione notare che la produzione culturale americana è soprattutto – ma non solo – cultura di massa e commerciale, giacché è anche vero che è sempre più rilevante per quanto concerne il sistema educativo europeo – con effetti che sono già evidenti a tutti – e che la cultura europea “continentale”, anche nei settori in cui era tradizionalmente “più forte” – dalla filosofia alla teoria politica, dalla teoria critica della società alla studio del mito e delle religioni, dagli studi classici alla produzione artistica – si è vieppiù “indebolita” o è stata progressivamente “emarginata”, venendo a mancare anche un adeguato sostegno da parte delle istituzioni).
D’altra parte, si deve riconoscere che è troppo presto per sapere se questa sarà la nuova, più flessibile, strategia americana e se avrà più successo della “guerra contro il terrorismo” combattuta in quest’ultimo decennio (ma, in realtà, negli ultimi due decenni). E’ merito però di Susic anche aver ricordato che proprio Samuel Huntington, l’autore del famoso libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, ha evidenziato come gli Usa, fin dall’inzio della loro storia di Stato sovrano, abbiano combattuto contro quasi tutte le potenze europee , allo scopo di «impedire che Europa ed Asia fossero dominate da una sola potenza», sì che pare abbastanza logico che, una volta scomparso il cosiddetto “impero del male”, subito sia apparso un altro “nemico dell’Occidente”, ché lo “scontro” tra Islam e la “civiltà occidentale”, doveva giustificare l’unipolarismo americano e l’americanizzazione dell’Europa anche dopo la scomparsa del Patto di Varsavia, per “proteggerla” dal nuovo “nemico metafisico”. In che modo allora gli Usa potranno continuare a perseguire la supremazia globale, ora che l’imperialismo americano deve confrontarsi con un “mondo multipolare”, non avendo più né la capacità né la potenza necessarie per acquisire il dominio definitivo dell’Eurasia, sembra dipendere anche e soprattutto dalle “decisioni” degli europei. Peraltro, non v’è dubbio che la trasformazione dell’Europa in Eurolandia sia segno che la classe dirigente europea (con il consenso di una intellighenzia mercenaria che è giunta perfino a considerare irrilevanti quei diritti sociali, economici e culturali che, al di là delle differenze ideologiche, non possono non essere ritenuti dall’homo europaeus il fondamento stesso di qualsiasi altro diritto) si sia “convertita” all’atlantismo, ovvero all’americanismo ed al sionismo, vuoi per difendere i propri particolari interessi di “gruppo subdominante”, vuoi per il rischio di dover agire politicamente in un “mondo multipolare”, senza poter più contare sul “grosso bastone” americano. Per questo motivo si può ritenere che la definizione di “nemico dell’Occidente” venga ancora una volta a designare, in primo luogo, proprio quegli europei che si oppongono all’americanismo. In ciò non si dovrebbe comunque vedere soltanto un pericolo, ma anche un’occasione storica per liberarsi definitivamente di quell’assurda concezione in base a cui il cosiddetto “Occidente” denominerebbe solo la civiltà angloamericana, pur comprendendo anche l’Europa. Una concezione che, se Tomislav Sunic ha ragione, è a fondamento dell’imperialismo americano, in quanto espressione di un “messianismo parabiblico”, che si vuole unico erede ed “interprete” della civiltà europea, di modo da poter cancellare ogni differenza tra “occidentalizzazione” e sviluppo, non solo tecnologico ed economico, ma sociale e culturale – quasi che il processo di modernizzazione dell’Europa non fosse contraddistinto dal conflitto politico e sociale contro la barbarie della società di mercato – e poter funzionare come un formidabile fattore di “destabilizzazione” e di “corruzione” di qualsiasi “altra cultura”. Se si credesse però che, in definitiva, la distinzione tra homo occidentalis e homo europaeus sia solo o principalmente una “questione culturale”, si potrebbe obiettare che non è affatto accidentale, ma al contrario è questione di “forma” e di “sostanza”, il fatto che «la semplicità del discorso politico statunitense [ignori] tutte le sfumature di significato che nel mondo hanno portato a conflitti e fraintendimenti inenarrabili», pretendendo di far valere una «verità astratta, valida per tutti gli uomini di tutti i tempi» (Abraham Lincoln). Allora, più che al rischio che la “struttura economica americana” possa collassare sotto il peso di un gigantesco Warfare State, che peraltro è il vero “motore” dell’apparato tecnico-produttivo americano, perlomeno a partire dalla Seconda guerra mondiale (compresa), si dovrebbe prestare maggiore attenzione alle condizioni politiche e culturali che permettono agli Usa di continuare a conservare il loro ruolo di superpotenza, giacché fino a quando non si capirà che l’american way of life (e quindi anche il “cripto-americanismo” di molti sedicenti avversari dell’antiamericanismo, come sostiene Zbigniew Brzensinki, forse il più lucido e perspicace geopolitico americano), è un fattore fondamentale – e con ogni probabilità ormai il più importante – dell’egemonia americana (insieme con la potenza economica, tecnologica e militare), sia gli Usa che il loro principale alleato, Israele, potranno facilmente legittimare qualunque azione ritengano indispensabile per difendere i propri interessi, facendola apparire come una difesa degli interessi dell’intera umanità. Ed è la critica di questa aberrante forma di universalismo (che alcuni designano come mondialismo o come “pensiero unico”) che dovrebbe essere a fondamento di una opposizione seria e matura all’imperialismo economico americano e, in generale, al “turbocapitalismo” (o “finanzcapitalismo”, come lo definisce il sociologo Luciano Gallino) che si è sviluppato, non a caso, proprio negli anni della “guerra al terrorismo”. In altri termini, la critica determinata dell’occidentalizzazione sembra configurarsi come un compito che è al tempo stesso politico e culturale. Il che è, in sostanza, il modo più adeguato di contrapporsi al disegno egemonico che gli Stati Uniti perseguono fidando, più che nelle proprie capacità, nella totale acquiescenza e complicità di un’Europa disposta unicamente a far da ponte levatoio alla hybris della “grande isola” d’oltreoceano.
Note
1) Vedi http://temi.repubblica.it/limes/ma-lamerica-resta-nel-suo-labirinto/23339.
2) Per quanto concerne il rapporto tra il nostro linguaggio e gli oggetti da esso denominati vedi l’agile ma rigorosa analisi (con particolare riguardo alle proposte avanzate da Saul Kripke e Hilary Putnam) di M. Di Francesco, Problemi del significato e teoria del riferimento, Unicopli, Milano, 1982.
3) T. Sunic, In Yahweh we trust: la politica estera “divina” degli Usa, Eurasia, n. 3, 2010, p. 193-211.