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Beni comuni, una definizione [quasi] impossibile

di Paolo Cacciari - 19/05/2011



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Definire un concetto è un lavoro intellettuale importante. Ma per i «beni comuni» si tratta di un esercizio sempre più arduo, tanti e non sempre coerenti sono gli usi che ne vengono fatti. Per un economista, ad esempio, un bicchiere d’acqua non può essere considerato un bene comune prestandosi a un uso «rivale»: se lo bevo io non lo puoi bere tu. Ed essendo tecnicamente possibile bacinizzare, intubare e imbottigliare l’acqua, essa si presta perfettamente a usi esclusivi regolati dalle leggi dell’economia di mercato. All’opposto, per i movimenti sociali l’acqua è la quintessenza dei beni comuni poiché si tratta di un elemento insostituibile per ogni forma di vita.

Pensieri inconciliabili, poiché i primi ragionano nell’ottica del valore di scambio delle cose, i secondi in quella del loro intrinseco valore. Una rana ha un valore anche se non viene utilizzata in nessun processo produttivo e di consumo. Secondo questa nostra concezione i commons, in genere, sarebbero dei beni e dei servizi [ecosystem service e beni cognitivi] primari, delle preesistenze imprescindibili e condizionanti lo svolgimento di qualsiasi processo vitale. Quindi, dovrebbero essere a disposizione di tutti e di proprietà di nessuno.

benicomuniliberiIl confine tra beni comuni e «diritti umani fondamentali», universali si fa così molto labile tanto che alcuni giuristi e scienziati sociali li gtendono a sovrapporre. Ma non sono solo sfumature linguistiche le differenze che passano tra «common goods», «commons» [Peter Linebaugh], «commonwealth» [Hardt e Negri], «commons-based society» [On the Commons], «communism» [David Harvey], «common good of humanity» [Fracois Hutardt]… «sumac kawsai» [vivere bene insieme in lingua Quechua].

Essendo gli esseri umani non meramente dei vegetali e capaci di esprimere bisogni e desideri non solo biologici, ma storicamente e socialmente determinati, potremmo procedere per estensione e stabilire che non solo l’aria, l’acqua e il cibo sono beni comuni, ma anche molte delle infinite protesi tecnologiche [la cosiddetta «seconda natura»] che nel tempo ci siamo costruiti attorno e da cui ormai dipendiamo non solo psicologicamente. Ad esempio: potremmo noi oggi vivere degnamente senza internet? Uno dei leader egiziani più noti della rivoluzione dei gelsomini è un blogger [tra le sette persone più influenti nel mondo secondo la solita rivista americana].

Quindi, possiamo ben dire che anche i beni relazionali sono beni comuni. «L’informazione non è una merce», si diceva un tempo per significare che essa è la «materia prima» della democrazia. Senza dimenticare mai che un reddito di base e un accesso al credito sono – non da oggi – beni indispensabili e insostituibili, quindi da condividere tra tutti. «La ricchezza o è comune o non è»; questo il titolo lapidario di una iniziativa del cardinale di Venezia Angelo Scola all’Università di Cà Foscari. Come non essere d’accordo: se la ricchezza è il frutto del lavoro sociale, essa non può che essere di tutti!

Il mio amico Ciro Pesacane mi ha informato divertito che al San Paolo di Napoli è apparso uno striscione con su scritto: «Cavani Bene Comune». Evidentemente i tifosi della curva hanno qualcosa da ridire sull’intenzione della società di vendere il giocatore. Chi può stabilire quali sono i «bisogni primari» legittimi [basic needs, per usare le categorie keynnesiane] e quali quelli «superflui» in un società che ama definirsi dei consumi e dell’immagine [non dei produttori, né del materiale, che delocalizziamo volentieri]?

Al fondo, la individuazione e la rivendicazione di un bene comune sta a significare la messa in discussione da parte di un gruppo di individui, di una comunità o di una popolazione, di un diritto di proprietà esercitato in un modo esclusivo e non condiviso. La proprietà come appropriazione usurpatrice, predazione, saccheggio di beni pensati e giudicati come collettivi, comuni, appunto.

Più che una definizione teorica univoca, ciò che li definisce meglio è il processo di riconoscimento storico-politico e il conflitto che sorge tra i possibili, diversi modelli di gestione. E’ del tutto evidente che l’esplosione dei conflitti sui beni comuni indica una crescente insofferenza nei riguardi del modello unico di rapporto sociale determinato dalla proprietà privata capitalistica. Una contestazione generalizzata della prepotenza [che produce disuguaglianze] e dell’inefficienza [estinzione della biodiversità] delle grandi proprietà [pensiamo alle multinazionali dell’agro-farmaceutica], ma anche una voglia di tentare di fare altrimenti.

L’importanza del premio Nobel conferito alla Elinor Ostrom consiste nel fatto che la studiosa americana ha rotto un tabù: non è sempre vero che la proprietà privata sia il modo migliore di ottimizzare l’uso delle risorse naturali. Vi sono sistemi «misti», «ibridi», territorializzati [direbbero Magnaghi e Viale] che sono più capaci di prendersi cura di beni comuni e di generare ricchezza non solo economica e nel tempo lungo. Basterebbe seguire due semplici principi di base: la non esclusività e la rigenerazione. L’equo accesso a tutti gli esseri viventi alle risorse della Terra e la loro preservazione.

Due principi etici che sono inconciliabili con la logica proprietaria del mercato: massima intensificazione del rendimento del capitale investito.

I beni comuni sono un paradigma forte che comincia a preoccupare i potenti della terra perché si basa su elementi antichi come lo sono il sole, il cielo, il globo terrestre, le acque degli oceani, dei fiumi, delle falde e ne reinventa altri di modernissimi come lo sono le informazioni e le comunicazioni, le conoscenze e i saperi.

La riscoperta dei commons come base di ogni ricchezza sociale, da curare e condividere solidalmente, sono una rivoluzione culturale opposta a quella neoliberista e conservatrice che ha egemonizzato la società negli ultimi trent’anni. Sui commons è possibile disegnare una visione di società alternativa, una cosmologia, direbbe Hutard, che fin’ora è mancata tanto alle sinistre, quanto ai movimenti ambientalisti.

[Paolo Cacciari ha curato «La società dei beni comuni» per Carte e Ediesse, che sarà presentato a Terra futura, venerdì 20 alle 14].

Fonte: http://www.carta.org/2011/05/una-definizione-quasi-impossibile/.