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Un'altra "mission accomplished"

di George Friedman - 05/09/2011

 


 
 

soldier

 

LIBIA: UNA PREMATURA CELEBRAZIONE DELLA VITTORIA

 

La guerra in Libia è finita. Più precisamente, governi e mezzi di comunicazione hanno deciso che la guerra in Libia è finita, a dispetto del fatto che i combattimenti proseguono. L’aspettativa, non realizzatasi, di questa guerra era sicuramente che Gheddafi avrebbe finito per capitolare di fronte alle forze schierate contro di lui e che le sue stesse milizie lo avrebbero abbandonato una volta compreso che la guerra era perduta. Ciò che è stato celebrato la scorsa settimana, con presidenti, primi ministri e media che proclamavano la sconfitta di Gheddafi, si rivelerà probabilmente vero a tempo debito. Ma il fatto che non sia ancora vero, non ha impedito a costoro di congratularsi con se stessi.


Ad esempio, il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, ha affermato che solo il 5 per cento della Libia è ancora sotto il controllo di Gheddafi. Sembra proprio una cifra poco precisa, tranne che per le notizie riportate dal giornale italiano La Stampa, secondo il quale “Tripoli viene ripulita” quartiere per quartiere, strada per strada e casa per casa. Nel frattempo, i bombardamenti stanno ancora martellando Sirte, dove, secondo i francesi, Gheddafi sarebbe riuscito ad arrivare, sebbene non si sappia come. La città strategicamente rilevante di Bani Walid – un altro possibile nascondiglio e una delle due sole vie d’accesso rimaste ad un’altra piazzaforte di Gheddafi, quella di Sabha – è stata circondata.


Per dirla in altri termini, le forze di Gheddafi conservano ancora il controllo militare di zone fondamentali. A Tripoli è in corso un combattimento casa per casa. Vi sono ancora numerose roccaforti, con sufficiente forza difensiva, in cui le truppe nemiche non possono entrare senza una significativa preparazione militare. Benché la posizione di Gheddafi sia attualmente sconosciuta, la sua cattura è oggetto di importanti operazioni militari, inclusi i bombardamenti aerei della NATO su Sirte, Bani Walid e Sabha. Quando Saddam Hussein venne catturato, stava nascondendosi in un buco nel terreno, solo e senza un esercito. Gheddafi sta ancora combattendo e lanciando sfide. La guerra non è finita.


Si potrebbe sostenere che se è vero che Gheddafi controlla ancora una forza militare coesa e una parte significativa del territorio, egli tuttavia non governa più la Libia. Ciò è certamente vero e significativo, ma sarà più significativo quando i suoi nemici saranno riusciti a prendere il controllo delle leve del potere. E’ poco ragionevole aspettarsi che siano in grado di farlo pochi giorni dopo essere entrati a Tripoli e in presenza di perduranti combattimenti. Questo però solleva una domanda cruciale: se i ribelli possiedano coesione sufficiente per dar vita ad un governo efficace e se non sia lecito attendersi nuovi scontri tra fazioni libiche anche dopo che le milizie di Gheddafi avranno cessato di funzionare. In parole povere, Gheddafi appare avviato verso la sconfitta, ma non ci è ancora arrivato, e la capacità dei suoi nemici di governare la Libia è assai dubbia.

 


Intervento Immacolato

Visto che la conclusione appare lontana, può essere interessante chiedersi perché Barack Obama, Nicolas Sarkozy e David Cameron, principali attori di questa guerra, abbiano tutti dichiarato la settimana scorsa che Gheddafi era caduto, sottintendendo che la guerra era finita, e perché gli stessi media abbiano proclamato la fine della guerra. Per capirlo, è prima di tutto importante capire quanto sia stato sorprendente per questi leader il corso di questa guerra. All’inizio ci si aspettava che l’intervento della NATO, prima con la no-fly zone, poi con bombardamenti diretti sulle postazioni di Gheddafi, avrebbe portato ad un rapido crollo del suo governo e alla sua sostituzione con una coalizione democratica nell’est del paese.


Due forze si erano coalizzate per condurre a questo epilogo. La prima era rappresentata dai gruppi dei diritti umani esterni ai governi e alle fazioni presenti nei ministeri degli esteri e nel Dipartimento di Stato, i quali sentivano che un intervento era necessario per fermare un possibile massacro a Bengasi. Questa fazione aveva un problema serio. Il modo più efficace per porre fine a un regime brutale era l’intervento militare. Tuttavia, dopo aver condannato l’invasione americana dell’ Iraq, progettata, almeno in parte, per eliminare un regime brutale, questa fazione si trovava in difficoltà a giustificare un rapido intervento militare terrestre in Libia. Le argomentazioni morali hanno bisogno di un minimo di coerenza.


In Europa, la dottrina del “soft power” è diventata una dottrina centrale. Nel caso della Libia, era difficile trovare un percorso per il soft power. Sanzioni e condanne non sarebbero probabilmente bastate a fermare Gheddafi, ma un’azione militare sarebbe stata la negazione del soft power. E’ emersa così la dottrina di un “soft power” militare. Istituire una no-fly zone era un sistema per intraprendere un’azione militare senza fare del male a nessuno, tranne che ai piloti libici che eventualmente fossero decollati. Soddisfaceva la necessità di distinguere la Libia dall’Iraq, evitando di invadere ed occupare la Libia, ma esercitando al tempo stesso una pressione schiacciante su Gheddafi.


Ovviamente, la no-fly zone si rivelò ben presto inefficace e irrilevante, e i francesi iniziarono a bombardare il giorno stesso le forze di Gheddafi. I libici sul terreno morivano, ma non i soldati francesi, britannici e americani. Se la no-fly zone era stata annunciata ufficialmente, la sua trasformazione in campagna di attacchi aerei emerse nel corso del tempo, senza che venisse resa pubblica una decisione precisa. Per gli attivisti dei diritti umani, ciò consentiva di evitare la preoccupazione delle morti provocate dai bombardamenti aerei, i quali non sono mai precisi come si ama pensare. Ai governi, consentiva di presentarsi come se si fossero imbarcati in ciò che io ho chiamato un “intervento immacolato”.


La seconda forza a cui piaceva questa strategia era rappresentata dai vari reparti aerei coinvolti nelle operazioni. E’ indiscutibile l’importanza delle forze aeree nella guerra moderna, ma si discute spesso se l’utilizzo delle sole forze aeree sia sufficiente, di per sé, a raggiungere gli obiettivi politici prefissati senza l’intervento di truppe di terra. Per la comunità delle forze aeree, la Libia era il posto in cui dimostrare la propria efficacia nel conseguire questi obiettivi.


Così i sostenitori dei diritti umani potevano concentrarsi sulle finalità – proteggere i civili libici di Bengasi – e fingere di non avere appena approvato l’inizio di una guerra che avrebbe essa stessa provocato la morte di molte persone. I leader politici potevano anch’essi convincersi che non stavano andandosi a infilare in un pantano, ma stavano intraprendendo un intervento facile. Le forze aeree potevano dimostrare la propria utilità nel conseguire i desiderati risultati politici.

 


Come e perché

Occorre trattare anche la questione delle inespresse ragioni della guerra, visto che circolano storie secondo le quali le compagnie petrolifere starebbero contendendosi in Libia grosse quantità di profitti. Queste storie sono tutte ragionevoli, nel senso che le motivazioni reali restano difficili da scandagliare, ed io provo simpatia per coloro che sono alla ricerca di una grande cospirazione per spiegare ciò che è accaduto. Anch’io voglio provare ad ipotizzarne una. Il problema è che scatenare una guerra contro la Libia per ottenere petrolio non era affatto necessario. Gheddafi adorava vendere il petrolio, e se i governi della coalizione gli avessero semplicemente detto che lo avrebbero bombardato se non avesse firmato accordi diversi sui destinatari dei profitti petroliferi e sulle royalties che spettavano a lui, Gheddafi avrebbe firmato tranquillamente i nuovi contratti. Era un individuo cinico quanto basta per comprendere il sottile concetto che cambiare partner petroliferi e rinunciare a un bel po’ di guadagni era sempre meglio che essere bombardati.


In effetti non esiste nessuna teoria che cerchi di spiegare questa guerra in virtù del semplice petrolio, semplicemente perché non c’era nessun bisogno di entrare in guerra per ottenere qualunque concessione si desiderasse. Perciò la storia di proteggere la gente di Bengasi dal massacro è l’unica spiegazione razionale di ciò che è avvenuto, per quanto difficile sia da credere.


Bisogna anche rendersi conto che, data la natura della moderna guerra aerea, un piccolo numero di forze della NATO doveva già essere presente sul terreno fin dall’inizio, almeno a partire da qualche giorno prima dell’inizio dei raid aerei. L’identificazione accurata dei bersagli e la loro eliminazione con sufficiente precisione implica la presenza di squadre speciali ben addestrate che indirizzino l’artiglieria verso gli obiettivi. Il fatto che vi siano stati relativamente pochi episodi di “fuoco amico” indica che sono state attuate le procedure operative standard.


Questi gruppi erano probabilmente accompagnati da altri operativi specializzati che addestravano – e in molti casi guidavano informalmente – le forze locali durante le battaglie. Nei primi giorni di guerra vi sono stati numerosi rapporti secondo i quali sul terreno vi erano gruppi operativi speciali che addestravano e organizzavano i combattenti contro Gheddafi.


Ma questo approccio ha evidenziato due problemi. Prima di tutto, Gheddafi si è rifiutato di arrotolare la sua tenda e capitolare. E’ parso stranamente poco impressionato dalla forza che aveva di fronte. Secondo, le sue truppe si sono rivelate altamente motivate e capaci, almeno se paragonate ai loro avversari. Prova ne sia il fatto che non si sono arrese in massa, hanno mantenuto un sufficiente livello di compattezza e – prova definitiva – hanno resistito per sei mesi e stanno ancora resistendo. L’idea dei gruppi per i diritti umani, secondo la quale un tiranno isolato sarebbe crollato dinanzi alla comunità internazionale, l’idea dei leader politici, secondo la quale un tiranno isolato sarebbe caduto in pochi giorni di fronte alla potenza delle forze aeree NATO e l’idea delle stesse aviazioni militari, secondo la quale i raid aerei avrebbero spezzato la resistenza, si sono tutte rivelate sbagliate.

 


Una guerra prolungata

Parte di ciò è stato dovuto alla cattiva comprensione della natura della politica libica. Gheddafi era un tiranno, ma non era completamente isolato. Aveva dei nemici, ma aveva anche molti sostenitori che avevano ricevuto beneficio da lui o perlomeno credevano nelle sue dottrine. Tra i soldati governativi (alcuni dei quali sono mercenari provenienti dal sud) c’era anche la convinzione diffusa che una capitolazione avrebbe significato essere massacrati, e tra i leader di governo vi era la convinzione che la resa avrebbe significato essere processati all’Aia e dover scontare anni di prigione. La richiesta della comunità per i diritti umani affinché la Corte Criminale Internazionale (CCI) processasse Gheddafi e gli uomini a lui vicini, non ha lasciato a questi ultimi alcuno spazio per la ritirata; e uomini che non hanno più spazio per la ritirata combattono duramente, fino alla fine. Non è stato lasciato spazio per una resa negoziale che non fosse pubblicamente approvata dallo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Gli ammiccamenti e i cenni con cui un tempo si spingevano i dittatori a lasciare, oggi non esistono più. A tutti i paesi aderenti allo Statuto di Roma è richiesto di consegnare un dittatore come Gheddafi al CCI perché venga processato.


Pertanto, a meno che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non stringa pubblicamente un accordo con Gheddafi, accordo che sarebbe avversato dalla comunità per i diritti umani e non sarebbe bello a vedersi, Gheddafi non si arrenderà, e nemmeno le sue truppe. La settimana scorsa vi sono stati rapporti secondo i quali alcuni soldati governativi sarebbero stati giustiziati. Vero o falso, giusto o ingiusto che sia, ciò non rappresenta certo un forte incentivo alla resa.


La guerra era iniziata con la missione specifica di proteggere la popolazione di Bengasi. Ciò si è trasformato rapidamente in una guerra per spodestare Gheddafi. Il problema è che tra gli obiettivi militari e quelli ideologici, le forze impiegate nella guerra erano insufficienti a portare a termine questa missione. Non sappiamo quante persone siano rimaste uccise nei combattimenti negli ultimi sei mesi, ma scatenare una guerra usando in questo modo il “soft power” militare ha certamente prolungato le ostilità e probabilmente provocato molti morti, sia militari che civili.


Dopo sei mesi, la NATO si è stufata e così abbiamo assistito all’assalto di Tripoli. L’assalto sembra essere stato condotto in tre fasi. Dapprima c’è stata l’infiltrazione di truppe operative speciali della NATO che (in numero di centinaia, non di migliaia) hanno guidato gli operativi dell’intelligence che già si trovavano a Tripoli, hanno attaccato e destabilizzato le forze governative presenti in città. La seconda parte è stata un’operazione mediatica con cui la NATO ha fatto credere che la battaglia fosse finita. Il bizzarro incidente in cui il figlio di Gheddafi, Seif al-Islam, è stato dato per catturato solo per poi ricomparire su un SUV con un’aria molto poco da prigioniero, era parte di questo gioco. La NATO voleva far credere che la leadership fosse stata intaccata e le forze di Gheddafi piegate, per convincere quelle stesse forze a capitolare. L’apparizione di Seif al-Islam era invece studiata per segnalare alle sue truppe che la guerra continuava.


Grazie agli attacchi degli operativi speciali e alle operazioni mediatiche, i ribelli occidentali sono entrati in città con gran pompa e tanto di sparatorie in aria di festeggiamento. I media di tutto il mondo hanno trasmesso la cronaca della fine della guerra, mentre i gruppi operativi speciali si dissolvevano e i gloriosi ribelli prendevano il potere. C’erano voluti sei mesi, ma era finita.


E poi è diventato palese che non era finita affatto. Il cinque per cento della Libia – interessante come calcolo – non era stato liberato. I combattimenti nelle strade di Tripoli continuavano. Diverse zone del paese erano ancora sotto il controllo di Gheddafi. E lo stesso Gheddafi non era dove i suoi nemici avrebbero voluto che fosse. La guerra continuava.


Da tutto ciò dovremmo trarre un certo numero di lezioni. Prima di tutto, è importante ricordare che la Libia, in sé, potrà non essere importante per il mondo, ma conta moltissimo per i libici. Secondo, mai presumere che i tiranni siano privi di sostegno. Gheddafi non ha certo governato la Libia per 42 anni senza sostegno. Terzo, mai presumere che il numero di forze che si è disposti a schierare sia il numero di forze di cui c’è bisogno. Quarto, eliminare l’opzione di una conclusione negoziata del conflitto ricorrendo ai tribunali internazionali, potrà essere moralmente soddisfacente, ma fa sì che le guerre proseguano e le vittime crescano. E’ importante decidere cosa sia più importante: alleviare le sofferenze del popolo o punire i colpevoli. A volte bisogna scegliere una cosa o l’altra. Quinto, e più rilevante, mai prendere in giro il mondo dicendo che una guerra è finita. Dopo la comparsa di George W. Bush su una portaerei decorata col festone “mission accomplished”, la guerra in Iraq divenne ancora più violenta e il danno d’immagine per lui fu enorme. Le operazioni mediatiche possono essere efficaci per persuadere le truppe nemiche ad arrendersi, ma la credibilità politica scivola via quando una guerra è dichiarata conclusa e i combattimenti continuano.


Alla fine, Gheddafi probabilmente cadrà. La NATO è più forte di lui e per abbatterlo verrà impiegata tutta la potenza possibile. La domanda, ovviamente, è se non ci fosse un altro sistema di ottenere ciò, con meno costi e più guadagno. Tralasciando la teoria della guerra-per-il-petrolio, se lo scopo era quello di proteggere Bengasi e spodestare Gheddafi, un maggior impiego di forze o un’uscita negoziata con garanzie di non essere processato all’Aia avrebbe probabilmente prodotto risultati più rapidi e un minor spreco di vite che non l’applicazione del “soft power” militare.


Mentre il mondo contempla la situazione in Siria, bisognerebbe tenerlo presente.

da STRATFOR

traduzione di Gianluca Freda