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Comunitari o liberal

di Marcello Veneziani - 20/06/2006


Marcello Veneziani
Comunitari o liberal
La prossima alternativa?
2006, pp. 128, € 7,00
Collana Economica Laterza, [397]
ISBN 8842080055
Argomenti Attualità
Saggistica politica
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In breve
Caro Veneziani, condivido il punto fondamentale da Lei così bene espresso, là dove parla della necessità di sostituire gradualmente il vecchio e inservibile bipolarismo, senza rinunciare alla necessità di una democrazia dell’alternanza. Ma non sarà allora il caso di ripensare la stessa democrazia anziché andare a caccia di nuove spaccature simili alle vecchie? Ralf Dahrendorf

Veneziani attacca gli aspetti più politici della posizione liberale, e lo fa con notevole sensibilità per la tesi filosofica che difende e per quella che attacca. Sebastiano Maffettone, “Il Sole 24 Ore”

introduzione

Sinistra e destra, due nature morte separate dalla loro pianta d'origine. I bipolarismi in campo sono logorati sul piano teorico e pratico: anche quelli tra laburisti e conservatori, tra progressisti e moderati, tra liberaldemocratici e socialdemocratici. Si è assottigliato il terreno su cui esprimere ed esercitare le differenze, con la tendenza a ridurre la banda di oscillazione delle opzioni in un ambito sempre più ristretto e sempre più pragmatico e occasionale. L'identità è decisa dalla collocazione e non più viceversa. Trovarsi al governo o all'opposizione decide molto più che definirsi conservatori o progressisti.
La conseguenza è una tendenza generale verso il centro attraverso l'assunzione di un residuo ideologico progressista sul piano etico-culturale e di un crescente pragmatismo liberista sul piano economico-sociale. Questa osmosi avviene nel quadro di un indebolimento strutturale della sovranità politica in funzione di un rafforzamento dei poteri tecnocratici ed economici. Punto di incontro fra progressismo culturale e liberismo economico, fra ideologia e tecnocrazia, è il processo di globalizzazione che riassume in un significato freddo ed empirico sia l'internazionalismo «caldo» della tradizione di sinistra che l'espansione planetaria del mercato e della tecnica nel segno del capitalismo. Nelle democrazie occidentali sta affermandosi un nuovo centrismo a trazione tecnocratica che fonde sinistra culturale e destra economica; e in politica estera fonde pacifismo morale e interventismo militare attraverso il principio d'ingerenza umanitaria. Si configura il disegno di uno Stato etico mondiale, assistente morale e militare della globalizzazione.
Ora, questo processo indebolisce gli spazi della democrazia e della libertà, perché riduce di fatto la possibilità di scegliere tra opzioni politiche differenti. E tende a escludere o emarginare troppe realtà, convinzioni, culture, idee e diversità che non si riconoscono all'interno di una così ristretta forbice.
Dall'altra parte, insorge la realtà con le sue crisi di rigetto: che in Occidente si esprime scalando i gradini della disaffezione politica, dell'astensionismo elettorale, dell'abdicazione della sovranità popolare, del rifugio nei localismi o nelle tribù, della depressione di massa, dell'anomia diffusa. E nel resto del mondo si esprime nei forti conati di identità, rivendicazioni di autodeterminazione, guerre civili ed etniche, integralismi e nazionalismi.
Questo paesaggio induce molti teorici a ridisegnare il bipolarismo fuori dagli ambiti politici e dai sistemi elet-torali in una chiave fortemente valutativa: l'alternativa prossima ventura, viene ripetuto da più parti, sarà tra universalismo o tribalismo, come scrive ad esempio Salvatore Veca. È evidente che ponendo in questi termini l'alternativa, si attribuisce al primo valore positivo e al secondo valore negativo a priori. In subordine, si attribuisce al primo la vocazione e il destino dell'Occidente, prefigurando uno scenario unidirezionale; e al secondo la minaccia che riguarda il resto del mondo e le periferie occidentali, se non saranno convertiti con le idee, con le merci o con le armi, all'Occidente e al suo modello. All'universalismo, naturalmente, si attribuisce la democrazia, il rispetto dei diritti umani, la libertà e al tribalismo la loro negazione. Ma oltre a usare una comparazione impropria tra un «bene» e un «male», l'alternativa tra universalismo e tribalismo soffre di altre due debolezze: da un verso destina, per disparità di forze in campo, il secondo a essere soccombente rispetto al primo, capace di mobilitare la tecnica e l'economia, i mezzi di comunicazione e tutte le risorse di una potenza planetaria. E dall'altro non considera che come il localismo appare oggi una variabile dipendente e subordinata al globalismo, così il tribalismo appare oggi una specie di sottoprodotto dell'universalismo, un suo figlio deviato, quasi un suo effetto collaterale. A volte il tribalismo è usato dalla globalizzazione per scardinare le sovranità nazionali. Si tratta dunque di un'alternativa squilibrata,in cui un polo è soccombente sul piano dei valori, della forza e dell'autonomia culturale rispetto all'altro, fino a essere una sua fastidiosa escrescenza e deviazione. Insomma, un bipolarismo finto o provvisorio, che non suggeriscel'idea di una reciproca legittimazione quanto piuttosto il proposito dell'eliminazione progressiva del secondo polo, in ritardo rispetto alla razionalità «monoteista» del nuovo ethos mondiale.
In realtà le convulsioni di fine millennio che abbiamo sotto gli occhi non discendono semplicemente dalla pulsione «tribale» (e dunque dal revival etnico-religioso integralista o nazionalista) ma dal cortocircuito tra mondialismo e tribalismo, tra assenze di sovranità riconosciute e pretese di sovranità, e sul piano culturale tra nichilismo e fanatismo. Anzi, i residui integralismi del passato acquistano virulenza proprio nella loro trasformazione in ideologie, ovvero nel loro contagio «occidentale». I conflitti sono spesso innescati dal contrasto tra nuovi dei, d'importazione coloniale, e antichi dei, indigeni. Moderne volontà di potenza eccitano ancestrali ferocie di guerrieri. Molti nazionalismi e molti integralismi religiosi insorgono sulle ceneri di identità negate, di patrie depresse, represse o compresse, di modelli calati dall'alto, di riduzionismi culturali. Aggressività e frustrazione si alimentano a vicenda.
Si potrebbe arrivare a dire che l'universalismo sia un effetto positivo che sorge da una causa negativa (la perdita d'identità, lo sradicamento) e il tribalismo sia, al contrario, un effetto negativo che sorge da una causa positiva (la difesa dell'identità, il radicamento).
In realtà usiamo una coppia diseguale, che per giunta non è utilizzabile nelle categorie della politica e della democrazia. Allora il tentativo che percorre queste pagine è di ripensare all'alternativa d'inizio millennio non svalutando uno dei due termini in questione, ma cercando col massimo rigore di rappresentare la coppia antagonista nella miglior forma possibile e più compatibile con le democrazie occidentali e con le categorie odierne della politica.
Da qui la convinzione che stia delineandosi nella realtà ma anche nel pensiero un antagonismo sempre più chiaro e distinto: tra liberal e comunitari. È un'alternativa che non rimette in piedi i declinanti bipolarismi ma prende atto della contaminazione avvenuta e del loro sbiadimento e attraversamento. Se è vero che una cultura di segno progressista sia più attratta dall'opzione liberal, e viceversa una cultura di segno conservatore sia più attratta dall'opzione comunitaria, le scomposizioni e le ricomposizioni di campo non sono assolutamente marginali e presentano forti difficoltà di identificazione in paesi a vocazione centrista come l'Italia, pur oscillante tra guerra civile e consociazione. E dove i poli di centro-destra e centro-sinistra amano presentarsi come liberali, pur essendo il primo in prevalenza populista, e il secondo di larga provenienza comunista. Senza dire delle difficoltà di collocazione dei cattolici democratici in un'area liberal, come molte questioni di bioetica e riguardanti i valori comuni vanno evidenziando.
Tuttavia, emergono sempre più le contraddizioni dell'attuale scenario politico, le reciproche accuse di finto liberalismo, l'impraticabilità del presente bipolarismo che regge evidentemente su gambe fragili e storte.
Dall'altra parte in Italia e nelle altre democrazie occidentali emergono sempre più nettamente nuove divaricazioni sulle questioni decisive e più cruciali per i cittadini, riguardanti la genetica e la bioetica, l'immigrazione e l'integrazione, le sovranità popolari e nazionali, i valori condivisi, la famiglia, la religione, il rapporto tra individui e società.
Queste divaricazioni non sono più rappresentate dai vecchi antagonismi, ma delineano piuttosto una sensibilità liberal e una sensibilità comunitaria. Uso queste due definizioni non solo perché appaiono le meno imprecise per indicare le due differenti inclinazioni, ma per una ragione teorica confermata da una tendenza pratica: le maggiori divisioni politiche e sociali si registrano proprio quando sono in gioco istanze liberal contro istanze comunitarie; e sul piano scientifico la più forte distinzione che emerge nella filosofia politica contemporanea è proprio quella tra comunitari e liberal.
Naturalmente sul piano della lotta politica i termini usati non sono gli stessi: l'alternativa tra liberal e comunitari viene rappresentata in forme polemiche più contingenti, come ad esempio il conflitto tra oligarchie e populismo, per usare due espressioni entrambe svalutative. O tra internazionalisti e identitari, tra cittadini del mondo individual-cosmopoliti e «patrioti», o ancora tra universalisti e particolaristi, per usare la distinzione di Ernst Nolte.
Proviamo a fare un ulteriore passo in avanti nelle due definizioni, cercando di cogliere il rispettivo nocciolo teorico.
Chi è liberal? Anzi, cominciamo dal nome, perché liberal e non liberale? Perché liberale nella cultura continentale europea e soprattutto italiana evoca una tradizione di storia e di pensiero che si intreccia con il nazionalismo e il patriottismo risorgimentale, con l'hegelismo e lo Stato etico ed economicamente interventista, la destra storica, il conservatorismo, l'anticomunismo, la preferenza «umanistica» sulla cultura empirica e scientifica. Liberal, invece, evoca la tradizione anglosassone nel suo combinarsi tra empirismo metodologico e idealismo morale, che oppone liberal a conservative e assume al suo interno opzioni progressiste, laburiste e democratiche di sinistra, fino ad accogliere come compagni di strada anche i radical e i comunisti, non solo ex o post (come a livello politico accade in Francia e Italia). L'incontro con lo spirito liberal porta a maturazione il germe individualista del socialismo che era anche in Marx e di cui Louis Dumont è stato un lucido analista. Già Nietzsche rilevava che «il socialismo è uno strumento di agitazione dell'individualista [...] ciò che egli vuole non è la società come fine del singolo, ma la società come mezzo per rendere possibili molti individui».
Qual è il nocciolo dei liberal? L'idea di emancipazione, di liberazione dai legami, nel progetto di un'umanità liberata. Un'idea che si coniuga con la deterritorializzazione, il superamento dei confini, l'universalismo. Liberal è colui che punta sull'emancipazione dell'individuo dai vincoli sociali, territoriali, familiari, tradizionali. La cultura liberal è una corda tesa tra individualismo e internazionalismo, nel progetto di formare un cittadino del mondo. La sua azione politica è percorsa da un'idea correttiva della realtà: bisogna modificare l'esistente che non è frutto del destino o dei disegni della provvidenza, ma è pura casualità, gioco fortuito delle combinazioni, lotteria, ingiustizia da rimuovere. L'incidenza della «natura» intesa come origine va ridotta: sia perché la cultura è concepita come emancipazione dalla natura, dall'origine; sia perché quel che definiamo natura è spesso per il liberal solo stratificazione storica, proiezione di un dominio culturale, convenzione accumulata nel tempo. Si può dire che il liberal sia proiettato nella dimensione del possibile, del non ancora, dunque del futuro. Ma si potrebbe anche sostenere da un punto di vista critico l'esatto opposto: il liberal in realtà ha un solo antagonista, l'Origine, il reale, il già stato ed esaurisce la sua lotta a combattere e negare l'esistente: combatte con la testa rivolta alle spalle. La sua libertà non è in vista di ma liberazione da.
Dall'altro versante, dicevamo, i comunitari. Chi sono? Esiste da una parte un piccolo mondo culturale che si definisce comunitario, verso cui affluiscono circoli di nuova destra, ambientalisti, cattolici o provenienti dalla nuova sinistra; e dall'altra una sensibilità comunitaria diffusa e spontanea. Ma non esiste nel mezzo un movimento compiutamente comunitario: c'è un comune sentire da una parte e una teoria intellettuale dall'altra, e in mezzo il vuoto. Solitamente il riferimento teorico principale va ai communitarians americani, che hanno negli ultimi anni animato la questione comunitaria il più delle volte contrapponendola all'opzione liberal, in alcuni casi ibridandola con essa. Sono MacIntyre, Sandel, Taylor, Etzioni, di provenienza variegata, conservatrice o anche radical. Ma accanto a questo filone culturale di comunitarismo freddo (che confina con la nuova destra e con la nuova sinistra, con il pensiero anti-utilitarista, la sociologia di Lasch e di Maffesoli e la cultura cattolica) c'è poi un pensiero caldo del comunitarismo, umanistico e spiritualistico. Solo per limitarci al nostro secolo, si potrebbero citare quattro opere coeve di autori molto diversi tra loro: Simone Weil della Prima radice, Giovanni Gentile di Genesi e struttura della società, Thomas Stearns Eliot di L'idea di una società cristiana e Emmanuel Mounier di Rivoluzione personalista e comunitaria. Fili conduttori: il primato del noi, il richiamo alla continuità e alle radici, la forza del legame sociale, la visione religiosa della vita sociale e politica.
Proviamo allora a definire oggi il nocciolo del comunitarismo. Dov'è la sua scatola nera? È nel senso del radicamento in un orizzonte sociale e culturale avvertito come orizzonte comune, plurale e significativo. Comunitario è chi assegna valore all'identità, alla provenienza, dunque all'origine; e alle vie che conducono alle radici, come le tradizioni. Comunitario è chi assegna valore al legame sociale, religioso, familiare, nazionale, che non vive come vincolo ma come risorsa. Per il comunitario il legame non è la catena che ci imprigiona e ci limita nella libertà ma il filo d'Arianna che ci lega ad altri e ci sostiene. Il confine non è il male ma ciò che garantisce in concreto la sfera del nostro essere e il nostro agire. Comunitario è chi ritiene che ogni Io abbia un luogo originario o eletto, che avverte come patria; per lui non è insignificante o fortuita la sua origine o la sua destinazione, i suoi legami. Quel che il liberal vede come frutto di una lotteria del caso, il comunitario vive come evento significativo, se non voluto da un destino o una provvidenza. La realtà non è dunque una possibilità tra le altre da cui liberarsi, ma è ciò che ci definisce, ci identifica, ci chiama a un ruolo, a un senso e a un compito. Amor fati, si potrebbe dire con due filosofi tutt'altro che fatalisti: Friedrich Nietzsche e Simone Weil. Con le stesse parole indicavano due opposti disegni: per Nietzsche l'amor fati celebrava le nozze dell'uomo con la terra, per la Weil erano le nozze con il cielo.
Il comunitario infine è colui che assegna importanza al comune sentire, ai riti, le usanze e i costumi di un popolo. Importanza non sociologica o folcloristica, ma vitale, come modelli di riferimento per orientarsi. Archetipi che comprendono pure una zavorra fatta di pregiudizi, totem e tabù. Ma la convinzione «realista» del comunitario è che ogni individuo si circondi e si nutra di pregiudizi, totem e tabù; la differenza è che lui preferisce quelli consolidati da una tradizione a quelli dominanti nel proprio tempo. Come agenzia di senso preferisce affidarsi all'esperienza sociale ereditata piuttosto che alle fabbriche mediali e intellettuali del consenso e delle opinioni. Se il liberal procede nel futuro rivolto indietro a combattere contro il passato, la natura e l'origine, il comunitario procede nel futuro sentendosi sospinto dalle radici, dal passato. Il legame con la tradizione lo induce a confidare nella continuità, nella trasmissione, che è dunque non solo a parte ante ma anche a parte post. L'avvenire visto non come liberazione dal passato ma come gravidanza e dunque come passaggio aristotelico dalla potenza all'atto. Non creazione ma procreazione. La realtà per il comunitario non va abolita, rimossa, sostituita, nel nome di una pur «ragionevole utopia» (Veca); ma va organizzata, ordinata, messa in forma (Spengler).
Ho calcato la mano sulle differenze tra liberal e comunitari, sapendo che la realtà non presenta mai modelli così netti e distinti, e adesioni altrettanto nette e decise, ma procede per contaminazioni, attraversamenti, contraddizioni. Che sono non solo il segno dell'imperfezione ma anche la risorsa che consente la convivenza, la reciproca comprensione. Diciamo allora che la distinzione va fatta tra un atteggiamento prevalentemente liberal e un atteggiamento prevalentemente comunitario.
Nella declinazione di ogni bipolarismo c'è oggi una premessa che viene solitamente elevata al rango di giudizio a priori, se non di vero e proprio pre-giudizio: l'accettazione dell'orizzonte liberale. In altri termini non è ammessa una scelta comunitaria che non si riconosca a sua volta nell'ambito delle regole liberali. Questa premessa soffre però di un limite teorico e pratico che indebolisce il bipolarismo: l'unilateralità, la non reciprocità del riconoscimento. In realtà, se vogliamo ricondurre l'antagonismo sul terreno di valori realmente condivisi, nell'alveo del civile confronto e del comune rifiuto della violenza, dobbiamo partire da un'altra premessa: c'è un perimetro di mura fondanti di una polis che va riconosciuto da ambo le parti. Ovvero un perimetro basilare di principi condivisi che deve essere accettato da ambo le parti. Da dove attingere questi valori condivisi? Dal nucleo di verità che il liberal e il comunitario riconoscono nel rispettivo antagonista. Nel caso dei liberali, il rispetto per la libertà dei singoli, la necessità di porre limiti al potere, la tutela delle minoranze, la critica al perfettismo nel nome della tolleranza. Nel caso dei comunitari, il rispetto per le identità e le differenze, i diritti del comune sentire dei popoli, la tutela delle famiglie e dei legami sociali, i limiti al potere politico, economico ecc. nel nome di tradizioni, religioni, culture. Un liberal non può dirsi estraneo e ostile a questi valori comunitari, così come un comunitario non può dirsi estraneo e ostile ai valori liberali sopra accennati. Una democrazia non può sopravvivere se non c'è reciproca legittimazione e reciproco riconoscimento di un nucleo di verità. Un liberal non può far tabula rasa delle tradizioni e del comune sentire di un popolo; un comunitario non può prescindere dalle regole e dal rispetto delle leggi.
Dov'è allora la differenza, una volta ammessi valori condivisi? Nella scala delle priorità: fermo restando che i valori di libertà e i valori comunitari sono terreno condiviso da ambedue, il liberal assegnerà la precedenza ai primi e il comunitario ai secondi. Intendiamoci. L'esito concreto sarà tutt'altro che idilliaco, perché i margini di interpretazione restano assai controversi e le dure repliche della realtà inaspriscono i conflitti. Così come non mancano valori contesi o rigettati da ambo le parti e criteri di scelta caduti nella terra di mezzo. La solidarietà, ad esempio: è un valore che attiene più alle società liberal perché richiama la passione egualitaria di correggere le disparità originarie o alle società comunitarie perché evoca il legame sociale, il senso profondo del noi? La tutela delle differenze è messa più a repentaglio nelle società universalistiche ma preoccupate dei diritti delle minoranze o nelle comunità fondate sull'idem sentire ma preoccupate di tutelare le identità e le diversità? L'associazionismo, la circolazione delle élites, la selezione, sono più favoriti in una società di singoli o in una società in cui è più vivo il reticolo dei pluralismi sociali?
È evidente che si debbono precisare gli ambiti e le condizioni specifiche; ma è inevitabile che ci siano istanze da cui si può entrare e uscire da porte opposte. Ancora una volta il bipolarismo tra liberal e comunitari ha un valore orientativo, regolativo; non può avere un valore costitutivo assoluto.
Abbiamo rappresentato il bipolarismo al meglio; ma per una questione di metodo e non per una vocazione all'ottimismo. Sul piano storico le due opzioni presentano rischi speculari che vanno riconosciuti. Quali sono le possibili degenerazioni di una scelta liberal? Il rifiuto giacobino della realtà nel nome dell'utopia, il prevalere di un individualismo che sfocia nell'egoismo e nella solitudine, l'avvento di un pericoloso nichilismo sociale, la morte della politica e della società a vantaggio di un villaggio globale dominato dai signori della tecnica e della finanza, attraverso centri di potere oligarchico transnazionale, l'avvento dell'uniformità globale, l'assenza di valori superiori e di scopi comuni.
Quali sono le possibili degenerazioni di una scelta comunitaria? Il populismo e l'autoritarismo rifusi nel rischio cesarista, il riaccendersi di odi atavici, etnici, religiosi, nazionali, l'universo razionale insidiato dall'universo mitico-emozionale, la scarsa tutela delle minoranze estranee al comune sentire (gay, immigrati, tossicomani), i diritti individuali trascurati. In entrambe le forme degenerate ci può essere il rischio finale di un dispotismo; il primo, legato alla brutta miscela di nichilismo e uniformità globale, il secondo, legato alla brutta miscela di autoritarismo e fondamentalismo. E da entrambi può sorgere il pericolo di un conflitto radicale fondato sulla demonizzazione e l'eliminazione del nemico, considerato come nemico assoluto della libertà o della comunità, dell'umanità o della verità, della ragione o della tradizione. Si può perfino arrivare al razzismo da entrambi i versanti, per analogia o per contrappasso: ovvero si può alimentare il razzismo attraverso la negazione delle differenze, nel nome dell'emancipazione universale, o attraverso l'eccitazione delle differenze, nel nome della propria. Nota Todorov: «Identificare un ‘noi' e un ‘loro' sulla base delle caratteristiche fisiche [...] è il modo più facile per orientarsi in una società nella quale gli altri punti di riferimento sono scomparsi». Una società disgregata e nichilista può essere preda del razzismo perché semplifica le differenze e le traduce nel brutale parametro del dato fisico e quantitativo. Quando la diversità altrui è vissuta come un male, allora sorge il razzismo: ma questo può avvenire tanto in una società che vive la propria identità comunitaria come superiore alle altre o come esclusione degli altri, quanto in una società che vive l'omologazione come razionalizzazione del mondo e superiorità del proprio modello di vita. C'è il fondato rischio che per combattere il razzismo etnico sorga un razzismo etico, anch'esso intollerante ed esclusivo, imperniato sull'idea di superiorità etica, al punto da retrocedere il proprio avversario al rango di un'umanità inferiore, da educare, reprimere o eliminare. Il razzismo poggia sovente su un pregiudizio evoluzionista e progressista degli «emancipati» verso gli arretrati, i moderni contro i primitivi.
Il liberal preferisce correre i rischi del primo tipo, il comunitario preferisce correre i rischi del secondo tipo. E anche qui, il dispositivo per arginare i rischi delle due derive è nella funzione frenante che i valori comuni possono svolgere, ciascuno nel campo avverso. Chiamiamo democrazia il perimetro comunemente accettato dai liberal e dai comunitari in cui convivono le istanze di entrambi.
Infine sorge una questione relativa ai confini di questo bipolarismo: la scelta liberal e la scelta comunitaria devono comprendere oppure no chi non riconosce un terreno comune di valori condivisi? Devono accettare nel proprio seno o comunque nell'arco delle proprie alleanze gli estremismi e i radicalismi oppure rigettarli? Facciamo un esempio concreto: una coalizione liberal può inglobare anche la sinistra più radicale, per esempio coloro che si definiscono comunisti, gli anarchici o coloro che provengono dall'estremismo di sinistra? E una coalizione opposta può inglobare anche la destra più radicale, coloro che si definiscono nazionalisti o che provengono dal fascismo?
Anche in questo caso, quel che conta è che l'opportunità sia bilaterale. Rifiutare la bilateralità sostenendo l'incomparabilità tra le due galassie significa pretendere che il pre-giudizio ideologico di una parte sia unilateralmente imposto anche all'altra parte.
Ci sono allora due soluzioni coerenti: quella di una democrazia inclusiva, di un bipolarismo aperto, che riconosca all'interno di ciascun polo, seppure ai margini più periferici, anche le posizioni più estreme e perfino le posizioni che negano l'esistenza di valori condivisi. Se la soglia di accettabilità è stabilita solo dal consenso democratico liberamente espresso, è possibile includere le due ali. O, viceversa, si può preferire una democrazia protetta, e dunque un bipolarismo chiuso che escluda le ali estreme e rifiuti alleanze con chi non riconosce il perimetro comune della polis.
Quel che non è possibile fare se si tiene alla democrazia è consentire a uno schieramento un potere di coalizione che si nega all'altro. Come di fatto avviene oggi, con le coalizioni di centro-sinistra che accettano alleanze di governo con i partiti comunisti e la sinistra estrema, mentre le coalizioni di centro-destra devono respingere nazionalisti e destra estrema. Il più vistoso è l'esempio francese. L'esclusione o l'inclusione deve essere comunque bilaterale, altrimenti un bipolarismo diseguale produce una democrazia dimezzata con disparità di chance e un'egemonia ideologica che eleva uno dei giocatori ad arbitro della stessa partita che sta giocando.
Personalmente propendo per una democrazia inclusiva perché penso che i danni di un'esclusione dei due estremi siano superiori ai vantaggi: includendo anche le posizioni radicali si allargano i confini della democrazia e della partecipazione popolare, anche se si abbassa il tasso di omogeneità delle coalizioni; in tal modo si agevola la deradicalizzazione delle posizioni estreme, che a volte sono tali proprio perché è negato loro il pieno riconoscimento nella democrazia. Delegittimate, radicalizzano la loro opposizione al sistema. In ogni caso in una democrazia il vero discrimine di liceità dev'essere di tipo pratico-giudiziario e non teorico-ideologico: le opinioni non democratiche, anti-comunitarie o anti-liberali, non sono reati; lo sono i comportamenti violenti, gli atti che violano le leggi dello Stato e che danneggiano terzi. La buona regola per la democrazia è l'omeopatia: chi sceglie l'estremismo finisce alle estremità periferiche del gioco politico. Chi sceglie l'uso della forza viene dissuaso con la forza, chi combatte con le parole viene combattuto con le parole. A ciascuno il suo, secondo propria misura.
Ma torniamo all'antagonismo da cui eravamo partiti. La scelta liberal persegue un sogno finale per il terzo millennio: lo Stato etico mondiale, ovvero una società senza confini, governata da un potere sovrano che si muove «solo» per correggere i mali del mondo, come le ingiustizie, le disparità, le violenze e le guerre locali. Utilizza cioè la forza per ragioni umanitarie, lasciando per il resto il campo al libero gioco degli individui e dell'iniziativa privata. Una specie di Gendarme buono, di Coscienza del mondo in armi, di kantismo in tenuta militare per far osservare ovunque l'imperativo categorico su alcune scelte, lasciandone indisturbate altre (da qui l'accusa di permissivismo morale).
Il comunitario vive invece questo sogno liberal come un incubo orwelliano, perché lo considera come l'avvento di un Potere senza volto che governa su un mondo privato delle differenze e stabilisce a sua discrezione i nuovi confini del bene e del male. Le persone sono ridotte a individui, cioè pure nudità private della loro identità e così i popoli sono ridotti a target o audience, ovvero uniforme e labile massa priva di specificità radicate. Per la prospettiva comunitaria, lo Stato etico mondiale sarebbe in realtà l'egemonia di un Questore universale nel nome del nichilismo e dello sradicamento. E a questa prospettiva viene contrapposta la valorizzazione delle comunità in cerchi concentrici, dalle più piccole alle comunità nazionali, fino alle aree omogenee per cultura, tradizione, storia, geopolitica.
Naturalmente non mancano gli attraversamenti di campo. Ernst Jünger, che non era certo un liberal, sognava uno Stato planetario. Invece Ralf Dahrendorf, che è certamente un liberal, difende gli Stati nazionali. Peraltro il sogno di uno Stato universale appartiene alla tradizione dell'imperium (riecheggiata nel De monarchia di Dante), mentre la nascita degli Stati nazionali coincide con la modernità e la loro difesa ideologica coincide con l'avvento dei giacobini. Ma oggi la prospettiva liberal è tendenzialmente universalista perché intreccia il tradizionale internazionalismo della sinistra con la planetarizzazione perseguita dal liberalcapitalismo. E la prospettiva comunitaria è tendenzialmente portata a difendere la realtà di un mondo multipolare, composto da più aree, più culture, più identità e più popoli.
Liberal o comunitari, l'antagonismo possibile: un modo per pensare l'avvenire fuori dal determinismo del Modello unico, del Pensiero unico, della storia a senso unico. Recuperare la conflittualità della politica è garanzia della libertà e del rispetto delle differenze; ma si tratta di portare la conflittualità intra moenia, cioè dentro i confini del pari rispetto e della legittimazione reciproca, e dentro le mura di una comune cittadinanza.
Infine, onesta avvertenza: se non si è già capito, la preferenza di chi scrive va all'opzione comunitaria. Ma il compito principale da assolvere è di portare a rigore le posizioni in campo, cercando di dare dignità teorica e compostezza civile alle parti antagoniste.


Indice
1. Liberal o comunitari – 2. Critica della ragion liberale; 3. Critica della ragion comunitaria; 4. Etica dell'onore, etica della generosità; 5. Da un bipolarismo all'altro; Bibliografia essenziale