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Israele, la guerra degli storici

di Elisabetta Galeffi - 21/06/2006

 

La nascita dello Stato nel 1948 divide gli studiosi: un mito da demolire? E sotto accusa finisce la storiografia sionista.
È conflitto aperto all’interno della corrente dei «new historians». Per Ilan Pappé «vi fu una pulizia etnica nei confronti dei palestinesi, che proposero già allora un accordo di pace»; per Benny Morris «i crimini perpetrati non negano legittimità allo Stato ebraico»

Da Gerusalemme

La nascita dello Stato di Israele divide ancora gli storici israeliani. Gli avvenimenti della guerra del 1948, che portarono all'indipendenza, il 14 maggio 1948, rimangono il nodo da sciogliere, il passato da riconsiderare per togliere ogni dubbio sulla legittimità all'esistenza dello Stato di Israele. All'inizio degli anni '80 gli Archivi di Stato britannici e quelli israeliani hanno reso pubblici, per effetto della decadenza del segreto di Stato, i documenti riguardanti l'ultimo periodo del mandato britannico in Palestina e i documenti relativi ai primi anni dell'indipendenza dello Stato Israele.

Nel 1987, basandosi sullo studio di queste nuove fonti storiche, Benny Morris con il libro La nascita del problema dei rifugiati palestinesi 1947-1948, ha inaugurato la corrente dei "new historians". Morris e il collega-rivale Ilan Pappé sono gli esponenti più importanti della corrente israeliana dei "nuovi storici", tutti e due, quest'anno, alle prese con la scrittura di nuovi testi, ancora una volta sugli avvenimenti della guerra del 1948. Il nuovo libro di Pappé s'intitolerà invece “1948: pulizia etnica palestinese”: insomma, è chiaro che i due studiosi non la pensano nello stesso modo. Pappé vuole mettere in crisi tre miti relativi alla nascita dello Stato d'Israele. La guerra di indipendenza israeliana non fu combattuta e vinta contro le truppe dell'intero mondo arabo, ma solo contro pochi soldati arabi e palestinesi.

I palestinesi non lasciarono volontariamente le loro case e alla fine delle ostilità furono proprio loro a tentare, ma inutilmente, di raggiungere un accordo di pace con gli israeliani. Tutto il contrario è da sempre sostenuto dalla storiografia tradizionale sionista, che racconta la guerra del '48 come di una eroica battaglia di sparute truppe israeliane contro un grande esercito arabo, e la fuga di pochi palestinesi da luoghi dove vivevano in ottemperanza agli ordini degli stessi capi arabi. Per questo i nuovi storici vengono chiamati anche "post -sionisti", perché hanno rinnegato la storiografia sionista, colpevole, secondo loro, di aver mentito su quei fatti. Pappé ammette il diritto al ritorno nei territori palestinesi dei rifugiati a rischio dell'identità "ebraica" di Israele, in breve della ragione stessa del sionismo.

L'ultimo Morris cerca invece una giustificazione alle atrocità messe in atto dagli israeliani e li salva, in nome del diritto alla difesa e al realismo necessario in tempo di guerra. Partendo da queste premesse, le previsioni sul futuro dello Stato israeliano non possono che essere opposte. Pappé crede che «la pace si può raggiungere solo con la creazione di un unico Stato dalla bi-nazionalità». Per Morris invece, l'equazione fra verità storica e conseguenze politiche non porta, obbligatoriamente, a questo risultato: «Aver dimostrato l'esistenza di crimini perpetrati dalle truppe israeliane non nega legittimità allo Stato ebraico». Il sionismo non ha perso la sua battaglia, secondo Morris, che non accetta l'etichetta di post-sionista, soprattutto dopo la delusione nata dal fallimento degli accordi di Camp David del luglio 2000 e dal rifiuto del leader palestinese Arafat di accettare l'accordo proposto dal presidente americano Clinton nel dicembre dello stesso anno. «I palestinesi hanno dimostrato di volere un unico Stato, arabo», sostiene Morris che aggiunge: «Con loro ogni accordo rimane impossibile». La via per la pace è la netta separazione in due Stati, ben distinti e divisi dal "Muro" come confine.

«Il sogno del Grande Israele è il mito sionista sconfitto - continua - , la vittoria del partito di Kadima alle ultime elezioni politiche israeliane, indica che l'unica via realistica per la pace è il ritiro unilaterale dai territori occupati. Meglio sarebbe se i confini tornassero quelli del tracciato della green line e giusto sarebbe dividere in due anche Gerusalemme. La società israeliana di oggi è pronta al compromesso».


Pappé scommette, invece, sulla pace possibile soltanto se il peccato originale di cui si è macchiato Israele, il piano studiato a tavolino di pulizia etnica ai danni della popolazione palestinese, sarà riconosciuto dagli israeliani. I fallimenti di tutti gli accordi coi palestinesi sono la conseguenza di aver mentito sui fatti del '48. Lo Stato bi-nazionale è un'ipotesi realistica, secondo lui, perché «i palestinesi storicamente, sono passati da una dominazione straniera ad un'altra e questo non è un problema irrimediabile, anzi è una fortuna. Se avessero dietro di loro la stessa storia di tutti i governi mediorientali, sarebbero solo capaci di dar vita ad altri regimi dittatoriali, invece i palestinesi hanno l'idea della democrazia».

Ma per Pappé, il sionismo non ha ancora perso nessuna delle sue battaglie: «L'opinione pubblica internazionale guarda cosa succede ad Israele, lo smantellamento di alcune colonie serve solo a tranquillizzare il mondo. La verità è che si divide la West Bank in due parti, una sotto diretto controllo israeliano, Gerusalemme e Hebron, l'altra, Gaza e Ramallah, sotto controllo indiretto, ma il fine rimane quello sionista: annettersi tutto.» Su un punto i due "nuovi storici " vanno perfettamente d'accordo, oggi sono più pessimisti che in passato, la pace rimane un miraggio, sia con lo Stato bi-nazionale , sia con la scelta di due Stati distinti.