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Che cosa si deve dire a un bambino che ha perso la sua mamma?

di Francesco Lamendola - 09/12/2011





Come ci si deve comportare, che cosa si deve dire a un bambino di sette, otto anni, che abbia perso per sempre la sua mamma?
Il bambino piccolo, fin verso i quattro o cinque anni, pur essendo in grado di soffrire per una simile perdita, non ne afferra ancora tutta la portata; non ha sviluppato con la madre un rapporto così profondo, e al tempo stesso così consapevole, da rendersi conto pienamente di qual genere di disgrazia l’abbia colpito; inoltre, in lui le riserve di affettività e le capacità di recupero spirituale sono ancora intatte, ed egli può attingervi pienamente, proprio perché inconsapevolmente.
Il ragazzino di dieci, dodici anni, viceversa, si rende conto perfettamente di cosa voglia dire la morte di una persona amata, anzi, della più amata di tutte; e, senza dubbio, ne soffre intensamente: però incomincia già a sviluppare gli strumenti per razionalizzarla e, quindi, per farsene una ragione, per quanto lungo e doloroso potrà essere il percorso.
In altre parole, il bambino piccolo, in età prescolare, non sa ancora cosa sia la morte; pensa, per esempio, che da essa, e sia pure a determinate condizioni e in speciali circostanze, si possa anche fare ritorno: la sua irreversibilità non gli è ancora chiara.
Il bambino ormai grandicello, d’altro canto, il ragazzino che ha terminato il ciclo delle scuole elementari, ha maturato la consapevolezza di tale irreversibilità e non si fa più illusioni al riguardo, però dispone ancora di grandissime energie vitali per superare il trauma o, comunque, per reagirvi con successo, specialmente se aiutato e guidato dagli adulti.
La posizione più delicata, quindi, è quella del bambino che è abbastanza grande per cominciare a capire che dal paese della morte nessuno fa ritorno, ma ancora troppo piccolo per farsene una ragione e per calare tale consapevolezza nella realtà del proprio vissuto, venendo a patti, per così dire, con essa, almeno sul piano emozionale, e attingendo alle proprie risorse interiori per gestire e oltrepassare la terribile ferita ricevuta.
È certo che un ruolo decisivo, nella rielaborazione della morte di una persona cara, e tanto più se si tratta di un bambino che ha perduto la sua mamma, viene svolto dal mondo degli adulti nel suo complesso: perché essi sono il suo punto di riferimento, il modello a cui guarda ed in cui cerca non solo conforto, ma anche un orientamento spirituale.
Il ruolo giocato dagli adulti, e specialmente dal padre, è, dunque, doppiamente significativo: sul piano affettivo e sul piano concettuale.
Sul piano emotivo, non è cosa indifferente, per il bambino, assistere a manifestazioni di dolore scomposto da parte degli adulti, a pianti incontrollabili, a gesti disordinati di disperazione, perché tutto questo gli farà la scoprire che, davanti alla prova, gli adulti non hanno saputo essergli da guida, anzi,  non hanno saputo nemmeno essere d’aiuto a se stessi: così, al suo dolore personale si aggiungerà l’ulteriore trauma di scoprire la propria solitudine davanti al mistero della morte, l’assoluta impotenza e inadeguatezza degli adulti come modelli positivi.
Sul piano concettuale il discorso è ancora più delicato: si tratta di vedere se le convinzioni degli adulti possano essere o no di conforto e di guida al bambino in un momento così difficile; e, qualora non lo siano, se sia giusto che essi, in nome di un malinteso senso di coerenza e di schiettezza, le lascino trasparire o che, addirittura le proclamino apertamente.
Se le convinzioni degli adulti sono di tipo materialistico e ateo, per esempio, si tratta di vedere se sia giusto che, coerentemente con esse, venga detto al bambino che non rivedrà mai più la sua mamma, non solo in questo mondo, ma neppure nell’altro; che non c’è un altro mondo, che dopo la morte non c’è nulla; e che, pertanto, sua mamma è precipitata nel nulla.
Ebbene, a nostro avviso un simile comportamento nei confronti del bambino non sarebbe né giusto, né umano; e quegli adulti che se ne assumessero la responsabilità, non agirebbero positivamente verso di lui, anzi verrebbero meno al codice etico fondamentale dell’adulto nei confronti del bambino, che deve sempre mettere in primo piano la protezione di quest’ultimo.
Il danno che potrebbe provocare un adulto, dicendo a un bambino di otto anni che sua mamma è scomparsa nel nulla, così come tutti nel nulla finiscono, è pressoché incalcolabile; e non crediamo che lo si possa attenuare o magari negare, sostenendo che gli effetti positivi di una tale franchezza si vedranno col tempo, fortificandolo e rendendolo più maturo.
In primo luogo, non si ha il diritto, con un bambino, di presentargli come verità certa una opinione soggettiva, quando essa comporta un aumento della sua sofferenza presente, perché egli non ha ancora forze bastanti per reggere un peso che perfino molti adulti stenterebbero a sopportare: e questa è l’obiezione centrale.
La seconda obiezione è che con il bambino (ma la stessa cosa vale, secondo noi, anche per gli adulti, salvo caso eccezionali), è sempre auspicabile un atteggiamento di delicatezza e di protezione, per cui bisogna evitare una franchezza brutale che possa turbarlo inutilmente e in maniera sproporzionata, così come bisogna evitare, sul piano fisico, di sottoporlo a sforzi e fatiche superiori alle sue possibilità.
Ciò non significa che si debba cadere nell’eccesso opposto, ossia che bisogni tenerlo artificialmente lontano da ogni sia pur minima difficoltà, come se fosse sotto una campana di vetro; ma da qui a demolire in lui ogni speranza, a distruggere in lui ogni fiducia nella persistenza dell’amore materno, anche dopo la scomparsa fisica della mamma, ce ne corre.
Bisogna stare molto attenti su questo terreno e ricordare che il bambino lascia vedere, come l’adulto ma più dell’adulto, solo una parte di sé; che vi è un mistero in lui, non sempre riconoscibile nemmeno da parte di coloro che credono di conoscerlo meglio; e che dietro certi comportamenti, magari sbarazzini e superficiali, si cela, forse, una sensibilità esasperata, che l’adulto ha il dovere di rispettare e di proteggere, non di inacerbire ancora di più.
Vi sono più cose in ogni persona, di quante gli altri non ne sospettino e di quante non ne sospetti lei stessa; e ciò è particolarmente vero nel caso del bambino, che non è, come vorrebbe certa pedagogia illuminista, un piccolo adulto, o meglio un adulto che ancora non si è formato, ma un essere umano quasi d’altra specie, che sente, pensa, ricorda e immagina in maniera radicalmente diversa da come sente, pensa, ricorda e immagina l’adulto.
Più in generale, vi è un grande problema a monte del nostro ragionamento sul bambino e la morte, e cioè l’atteggiamento nevrotico, schizofrenico, dell’uomo moderno davanti ad essa, davanti all’idea della propria fine naturale e inevitabile.
È un nervo scoperto dell’uomo nell’età della scienza e della tecnica, perché gli ricorda in maniera fin troppo concreta che egli, dopotutto, non è in grado di dominare la natura oltre un certo limite, anzi, che a ben guardare non è in grado di dominarla affatto; e che tutti i suoi delirî di onnipotenza sono soltanto fumo che il vento disperde.
L’uomo moderno non vuol pensare alla morte, non ne vuole parlare, tanto meno ha voglia di guardarla in faccia; ha perfino creato un sistema sociale che delega la gestione della morte agli ospedali prima, alle agenzie di pompe funebri poi: tutto perché essa non entri in casa, non contamini la sua vita privata con la sua ingombrante presenza.
Stando così le cose, si può capire come l’uomo moderno non sia nella posizione migliore per parlare di essa ai bambini; e meno ancora che lo sia per parlare ad essi della morte della loro mamma.
Questa reticenza, questo imbarazzo, questa ripugnanza traspaiono dal suo modo di fare a persino dal suo modo, eventualmente, di tacere: e sia che egli parli, sia che taccia, il bambino riconosce la sua impreparazione, il suo disagio, la sua paura, e ne viene inevitabilmente contagiato; sicché, diventato adulto a sua volta, anche lui riprodurrà questo circolo vizioso.
Come ci si deve comportare, dunque; che cosa si deve dire a un bambino o a una bambina che abbiano perso irreparabilmente la loro mamma?
Gli adulti che possiedono una fede religiosa dovranno parlare della morte in generale come di un processo naturale, per il quale non esiste un tempo preciso, ma che può venire in qualunque momento, perché il tempo non appartiene all’uomo, ma a Dio; e aldilà della quale non vi è il nulla, ma l’inizio della vita vera, più piena e luminosa di quella presente.
Della morte della loro mamma, in particolare, essi dovranno parlare con dolcezza, con delicatezza, come di un viaggio felice, nel corso del quale ella non cesserà di amarli e di essere presente accanto a loro, sia pure in una forma diversa da prima, non più visibile né percepibile con gli altri sensi; e che con lei essi potranno continuare a dialogare, anche se non più nella maniera precedente, non con le parole, ma con la preghiera interiore.
Non si tratta di incoraggiare sentimentalismi o forme leziose di infantilismo, ma di rispettare un grande mistero, anzi, un doppio mistero: il mistero della morte, di cui poco o nulla sappiamo razionalmente; e il mister del bambino, con i suoi tesori di sensibilità e di affettività, che una parola incauta o indelicata potrebbe ferire irreparabilmente.
Gli adulti non credenti, da parte loro, devono astenersi da qualunque discorso, da qualunque affermazione che possano suggerire l’idea di una scomparsa nel nulla di colei che è morta e della totale, incolmabile separazione fra il mondo dei vivi e quello dei defunti; tengano per sé le loro certezze materialistiche e non spengano la luce di speranza che dà conforto al bambino rimasto orfano e lo aiuta a superare il dolore della perdita.
Divenuto a sua volta adulto, poi, colui che oggi è un bambino farà le proprie scelte e crederà in quello che riterrà vero: per adesso, nessuno faccia violenza alla sua tenera età e alle camere sacre del suo sentire, del suo amare e del suo soffrire.
Chi siamo noi per distruggere, con disumana superbia, il mondo delle credenze infantili? Perfino con la favola di Babbo Natale non dovremmo avere troppo fretta di demolire le poetiche credenze del bambino, che noi stessi, del resto, gli avevamo insegnato; a maggior ragione quando si parla di cose infinitamente più profonde e delicate, come il mistero della morte di una persona amatissima e, di per sé, insostituibile.
Allo stesso modo, è sbagliato, totalmente sbagliato, cercar di strappare dal cuore del bambino il ricordo della sua mamma, ad esempio facendo sparire le sue fotografie o i suoi oggetti personali, credendo, magari, di aiutarlo a dimenticare più in fretta: egli non deve dimenticare la sua mamma, ma superare il dolore della separazione da lei, che è tutta un’altra cosa.
Il padre, pertanto, dovrebbe essere molto cauto e molto delicato anche nel caso abbia preso la decisione di risposarsi, e sia pure con le miglior intenzioni, ad esempio per ridare una figura materna ai propri figli: deve essere ben chiaro che la mamma vera non potrà mai essere sostituita da alcuno al mondo; una nuova figura femminile adulta dovrà rispettare questo fatto e partire da esso, nello sforzo di colmare il vuoto affettivo e lenire il dolore dei bambini.
Sono cose che richiedono tempo, pazienza, gradualità: non stiamo parlando di sostituire un mobile vecchio o un elettrodomestico; gli oggetti e le macchine si possono sostituire, le persone no: bisogna elaborare il dolore del distacco da esse, non cercare di mettere qualcosa di nuovo al loro posto.
La perdita della propria mamma, per il bambino, è un evento lacerante, senza dubbio il più doloroso in assoluto; ciò non significa che gli adulti non debbano aiutarlo ad oltrepassarlo, al contrario: ma ciò non lo si può fare negandolo; e anche il fatto di non parlarne mai, come pure talvolta accade, è un modo di negarlo, che non dà alcun aiuto al bambino.
Ciò detto, resta da aggiungere che le cose più importanti non si dicono con le labbra, ma con i gesti, con gli sguardi, con una carezza: e se ciò é vero nella vita degli adulti, lo è ancora di più nelle relazioni fra gli adulti e i bambini, e specialmente in presenza di un evento così traumatico, come quello di cui ci siamo occupati.
Infine, non siamo soli. C’è una forza benefica, che scende dall’alto, pronta ad aiutarci nei passi perigliosi della vita; e ne saremo più consapevoli se, talvolta, sapessimo farci piccoli anche noi.