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Jesse James: l'ultimo ribelle della guerra civile americana

di Giulio Giorello - 02/07/2006

 
La figura contraddittoria del fuorilegge americano in una biografia di T.J. Stiles Jesse James

Molto si è scritto, soprattutto in America, per classificare le figure come Jesse e il fratello (maggiore) Alexander Franklin (più brevemente, Frank), nonché gli altri membri di maggiore spicco della banda. Sul finire degli anni Sessanta dell’Ottocento tutti loro erano divenuti banditi di professione, ovvero uomini che avevano fatto di certi crimini - come svaligiare banche e treni - una sorta di «mestiere» redditizio, vista anche la fragilità delle istituzioni emerse dalla crisi della guerra civile americana. Inoltre, i treni che spostavano merci preziose e denaro da un capo all’altro del Nordamerica sembravano davvero costituire le «arterie stesse dell’Unione», in cui scorreva tutta l’energia del Capitale: un fenomeno che produceva meraviglia, fascino, ma anche sconcerto e timore, soprattutto presso coloro che si sentivano, per i più diversi motivi, vittime di trasformazioni che il Sud tendeva a percepire come imposizioni. Si tratta di un fenomeno che ha corrispondenti nel Vecchio continente, apparentemente più scettico e disincantato del Nuovo mondo delle Americhe. La tecnologia del vapore e il correre su rotaie dovevano sembrare uno scatenamento di energie insieme vitali e mortifere: per esempio, a un letterato come Charles Dickens o a uno scienziato come Thomas Huxley. E non dimentichiamo che il treno è il simbolo (tecnologico) della «forza vindice della ragione» celebrata nell’Inno a Satana del nostro Carducci! Ma, come vuole la tradizione, fin dalla prima rapina al treno quelli della banda James-Younger osavano contrapporre al «grido» del «mostro» di metallo, che sprizzava scintille e vapore, il rebel yell , l’urlo di battaglia degli incursori sudisti contro gli odiati yankee. Non era difficile per lo stesso Jesse James - e per la stampa che lo fiancheggiava - prospettare quelle che altrimenti sarebbero state imprese di banale delinquenza come azioni di resistenza a un impero politico, economico e sociale la cui potenza appariva visibilmente incarnata nelle reti ferroviarie.

I due James e i loro accoliti potevano così sentirsi come nuovi «cavalieri» in lotta contro un sistema oppressivo di cui il treno era il meccanismo più evidente, una sorta di «redentori», combattenti di un alternativo «impero invisibile» (prosaicamente basato - avverte Stiles - sull’«uso sistematico della violenza e dell’intimidazione»). Non ci sarebbe troppo difficile presentare questi stessi banditi «cavallereschi» come «reazionari» incapaci di rassegnarsi a un processo di trasformazione economica ormai inarrestabile: ma l’etichetta di chivalry of crime (cavalleria del crimine) escogitata per conferire un alone romantico alle scorribande di Jesse e dei suoi si riferiva a un’arte del delitto capace di sfruttare alcuni aspetti di quello stesso processo di modernizzazione che i cavalieri dalle lunghe ombre pretendevano di contrastare, a cominciare dal miglioramento delle armi da fuoco. In questo sfaccettato ritratto del fuorilegge Jesse Woodson James, inoltre, Stiles dà il giusto peso anche all’aspetto del bandito d’onore, deciso a «vendicare» i torti subiti da famiglia e proprietà.

«Bandito d’onore», «bandito di professione» e «bandito sociale», se non addirittura «espropriatore degli espropriatori» o combattente nostalgico del bel tempo che fu: tutte categorie che possono bene adattarsi a Jesse James, almeno in superficie. Ma la ricerca di Stiles, così ricca di documentazione e attenta al contesto, mostra come tutte queste non fossero altro che maschere che il fuorilegge era il primo a utilizzare con forte senso della «propaganda». Di nuovo, un dettaglio mostra quanto un certo tipo di maschera possa rivelarsi più significativo dei tratti anche più marcati del volto del bandito-cavaliere: nella già citata rapina dello Iowa, alcune testimonianze dovevano richiamare il fatto che Jesse e i suoi indossavano maschere del Ku Klux Klan, l’organizzazione sudista decisa a «tener sotto» qualunque «Jim Crown» di qualsiasi Stato, come veniva chiamato con disprezzo in quel di Dixie ogni afroamericano. (...)

La storia di Jesse James che Stiles ci racconta è veramente la parabola dell’«ultimo ribelle della guerra civile», un apologo sulla violenza di cui è intrisa la stessa (ri)costruzione dell’Unione dopo lo scontro dei due Leviatani, nordista e sudista. (...)

In particolare, osserva Stiles, la strana vicenda di Jesse Woodson James è anche una «storia afroamericana», visto che l’intera esistenza del fuorilegge fu condizionata da scelte di famiglia e da scelte di sodali nel banditismo «pro o contro la libertà dei neri». A questo punto, è solo questione di etichette dichiarare che Jesse James fu un guerrigliero degenerato in bandito o che, all’inverso, fu un bandito che cercava nella «vecchia causa del Sud» una giustificazione ideologica. Ci ricorda Stiles che «il tempo erode tutte le virtù», sia quelle dello spirito libertario degli abolizionisti più coerenti, sia quelle dell’indomita volontà di resistenza dei rebels sudisti, insofferenti di qualsiasi vincolo che paresse loro, a torto o ragione, «tirannico». Jesse James continua a restare, ammette Stiles, per non pochi aspetti della sua personalità, una figura enigmatica e segreta. «Permeato dalla religione battista», «assassino sboccato» che sapeva odiare «con ferocia senza pari», manipolatore accorto della stampa, «audace, coraggioso e capace di una resistenza stupefacente», ma talora inquieto fino a rasentare l’autodistruzione, il «Poor Jesse» della leggenda è stato una figura che non poteva che dividere (come spietatamente dividono le guerre civili), e non solo sul piano della politica.


Il testo : questo brano è tratto dall’introduzione scritta da Giulio Giorello per il saggio di T.J. Stiles «Jesse James. Storia del bandito ribelle» (Il Saggiatore, pp. 603, 25), in libreria in questi giorni