Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Parsifal in Toscana: a San Galgano rivive la leggenda del cavaliere

Parsifal in Toscana: a San Galgano rivive la leggenda del cavaliere

di Luca Lionello Rimbotti - 11/07/2006


 

La famosa abbazia
gotica in rovina,
col cielo per tetto e
il prato verde per
pavimento: sembra
uno spaccato di
Bretagna rifatto in
terra di Toscana. A San Galgano si
rivive la leggenda del cavaliere eremita,
le ombre di Parsifal e Lancillotto
incombono col loro fascino
mitico, re Artù galoppa a metà strada
fra Siena e Grosseto. La valle
del Merse, incuneata in una zona
selvosa, ai piedi delle colline
Metallifere, circondata dal poggio
Fogari e dalle alture di Monticiano,
di Chiusdino, di Montieri, tutti luoghi
di antico incastellamento,
nasconde come meglio non potrebbe
un potente brano di tradizione
europea. È la storia di Galgano di
Guidotto da Chiusdino, nato nel
1148 e morto nel 1181. Un archetipo:
giovane dapprima amante delle
cose del mondo, alla classica svolta
dei trent’anni è segnato dal duplice
sogno fatale.
Nella prima visione è San Michele,
il santo guerriero, che lo sprona a
indossare la cintola e la spada da
cavaliere. Nella seconda, più tarda
di anni, lo stesso San Michele guida
il giovane in un vero viaggio
iniziatico: c’è da superare il ponte
periglioso sopra abissi di acque
mulinanti, ci sono il prato delle
delizie e più oltre la caverna da
attraversare e, infine, l’apparire del
mistico edificio rotondo, in cui i
dodici apostoli mostrano a Galgano
il libro di tutte le sapienze e dipoi
la luce abbagliante del divino. Fu
solo dopo i due sogni che Galgano,
mutati i panni del cavaliere in quelli
del cavaliere di Cristo, si fece
eremita, vinse gli assalti del demonio,
si stabilì tra le selve del Monte
Siepi vivendo di fede e di erbe selvatiche.
E per santificare il luogo
prodigiosamente scelto dal suo
cavallo, fece della spada una croce,
conficcandola nella roccia, «la quale
insino al dì d’oggi così è ne la
pietra fitta», commenta un testo trecentesco
della leggenda.
Effettivamente, ancora oggi, chi
sale al Monte Siepi, a poca distanza
dall’abbazia, vede la spada di Galgano
miracolosamente piantata nella
roccia. Sono più di otto secoli
che questa vicenda segna la zona.
Dapprima fu un’epopea eremitica.
Dopo la precoce morte di Galgano,
subito un nucleo di anacoreti suoi
devoti si installò tra quelle inospiti
plaghe. Poi la cosa si fece seria, le
voci sulla santa figura di Galgano
presero a dilagare, cominciarono i
miracoli, la gente accorreva, prendeva
corpo l’affare, la faccenda si
fece politica: c’erano di mezzo
donativi, elargizioni, elemosine. Si
sa, in mani adatte, questi culti in un
lampo diventano business da gestire.
Già nel 1185 c’è un’inchiesta
pontificia, nel 1206 Innocenzo III
pone il cenobio sotto protezione
papale: dalla devozione popolare si
passa a una questione di potere. Gli
eremiti, divenuti ingombranti, furono
prontamente allontanati e la
cosa passò in mani più ferme e concrete.
Ci pensò il tempestivo stanziamento
in loco dei Cistercensi, il
potente ordine monastico particolarmente
versato nell’imprenditoria
che, sbaragliando la concorrenza
degli Agostiniani, divenne in breve
il gestore della figura pubblica di
Galgano. A garanzia arriva un
diploma imperiale nel 1191, poi il
“privilegio” papale nel 1216, quindi
la costruzione della cappella di
Monte Siepi e la “spartizione” delle
reliquie (la testa del sant’uomo fu
alla fine assegnata al potere civile
di Siena). A seguire abbiamo la
costruzione dell’abbazia gotica a
partire dal 1220, stesso anno in cui
viene vergata da Rolando da Pisa la
prima “Vita” ufficiale del santo.
Quindi, in rapide tappe, si hanno
l’elevazione di Galgano al culto
ufficiale della Repubblica senese
dopo averlo strappato a Volterra e,
di lì, l’erezione del santo agli altari,
al calendario ecclesiastico, al rango
di patrono della città insieme ad
Ansano. Insomma, potremmo dire:
come da un’immaginetta devozionale
ti costruisco un culto politico.
Ma non è questo che a noi più interessa.
Ci interessa, invece, verificare che
tra le pieghe della leggenda toscana
di Galgano si muova un “topos”
universale della tradizione indoeuropea,
che comprende i cicli provenzali,
quelli arturiani e carolingi,
il catarismo, ma - ancora più indietro
- la favolistica longobarda e
addirittura quella legata ai miti
mazdei presenti nell’“Avesta”. Un
eccezionale “corpus” di antropologia
culturale che ci parla essenzialmente
di una simbologia unitaria.
L’esperienza di Galgano, ad esempio,
si lascia confrontare da vicino
con quella del re longobardo Guntramno,
la cui leggenda è riportata
da Paolo Diacono: e anche qui ci
sono il sogno, il ponte, il fiume, la
caverna. Ma poi la stessa assonanza
tra Galgano e Galvano - uno dei
protagonisti della saga del Graal e
nipote di re Artù - ci porta diritti
verso quei mondi.
Molte le similitudini: Parsifal è
figlio di un cavaliere, e Galgano è
figlio di un devoto a San Michele, il
patrono dei cavalieri: e in entrambi
i casi è presente la madre, come
figura dalla quale operare il distacco.
Di Lancillotto, inoltre, ci sono
lo stato di sonno, di nuovo il ponte,
le acque, la spada. Ma c’è di più.
Franco Cardini anni fa ha ricordato
il collegamento tra i romanzi del
Graal e la tradizione del mazdeismo
iranico. Come già altri studiosi avevano
notato, egli ha riconosciuto
nel tema del passaggio del ponte
pericoloso - centrale nella visione
iniziatica - un nesso sostanziale con
l’“Avesta” zoroastriana e con eguali
simbologie della “prova”, quali, ad
esempio, quelle di cui parla Dumézil
nel “Libro degli eroi” a proposito
del viaggio dell’eroe nel Paese
dei Morti. Tema quanto mai diffuso
nella nostra cultura, da Orfeo
Enea e fino a Dante. Presente nei
romanzi cavallereschi e diffuso in
Italia dai Cistercensi, nel cui ambito
erano stati composti come tema
narrativo legato alla “santa milizia”.
La storia di San Galgano non
affabulazione casuale e neppure
imprestito forestiero. Essa è giunta
in Toscana dopo un ampio arco di
progressione millenaria, all’interno
di una sempre omogenea “koiné”
etnica e culturale, transitando dall’Iran
arcaico alle pianure sarmatiche,
dove ancora nell’Alto Medioevo
vivevano i popoli bianchi delle
steppe, fino all’idea romana di
nobiltà cavalleresca e al mondo
franco-germanico e provenzale che
rielaborò questa materia con tardi
sigilli cristianizzati. Quello della
cerca del cavaliere, della sua gloria
insieme terrena e spirituale, è, dunque,
tema non semplicemente celtico
e non semplicemente cristiano,
ma che rimonta alle viscere indoeuropee
della nostra civiltà: l’idea che
la lotta del guerriero è lotta mistica,
che la sua spada è una spada di giustizia.
Infine, quando il mito si localizza
la leggenda esaurisce il proprio
viaggio, l’archetipo produce un ultimo
simbolo: la fede dell’eroe si
radica nella roccia, la terra immutabile
su cui vive.