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Tra corporazioni e «libero mercato»

di Tonino Perna - 11/07/2006

 
Il decreto Bersani ha fatto scoppiare un conflitto sociale che sta dando un'inatteso spazio politico alla CdL che stava entrando in fibrillazione. Ma sarebbe un errore valutare questo conflitto all'interno della contrapposizione destra/sinistra, quanto banalizzarlo e criminalizzarlo come qualche giornale liberaldemocratico sta facendo in questi giorni. Al di là della contingenza, lo scontro in atto ha una valenza politica di prima grandezza, ci invita a confrontarci su una grande questione: il rapporto tra libero mercato e sistema corporativo. I sostenitori del cosiddetto «libero mercato» accusano le categorie che si sono ribellate - a partire dai tassisti e dagli avvocati - di voler mantenere isole di privilegio,rendite parassitarie che danneggiano il consumatore. Le categorie colpite parlano di «mercato selvaggio» che porterebbe un danno maggiore dei vantaggi che va sbandierando il governo. Chi ha ragione? e sono veramente questi i termini della questione? Per tentare di rispondere dobbiamo fare un passo indietro per storicizzare la questione e capire verso quale modello di società vuole andare l'attuale governo di centrosinistra.

Le corporazioni hanno una lunga storia, in occidente e non solo. Le prime associazioni tra produttori le troviamo già a cavallo del XII secolo. Nel 1099 nasce la corporazione dei tessitori di Magonza, nel 1106 è la volta dei pescivendoli di Worms, nel 1128 i calzolai di Wurtzburg, nel 1149 i fabbricanti di trapunte di Colonia, ecc. In Inghilterra sotto il regno di Enrico I (1110-1135) nascono diverse craftgilds, che coprono diversi campi di attività, come del resto qualche anno dopo avviene anche nell'Italia centrosettentrionale (Toscana in primis). Le corporazioni devono la loro origine - come ci insegnato Henri Pirenne nel suo saggio fondamentale «Storia economia e sociale del Medioevo» - a due fattori: le leggi promulgate dai comuni e l'associazione volontaria. Le leggi comunali rispondevano all'interesse dei cittadini-consumatori, l'associazione volontaria che assunse diversi nomi in Europa (gilde, anse, ecc.) aveva come obiettivo principale la difesa dei produttori-artigiani. Per un lungo periodo le due esigenze entrarono in conflitto, poi prevalse una sorta di compromesso che diede alle corporazioni alcune forme di autonomia, mentre riservava alle autorità municipali la regolazione generale dei mercati delle città.

Scopo fondamentale delle corporazioni in tutta Europa fu quello di proteggere l'artigiano non solo dalla concorrenza esterna ma anche da quella dei suoi colleghi. Fino al secolo XIX in molte città europee la concorrenza sul prezzo era proibita, era illegale e chi la praticava subiva delle dure sanzioni. La competizione avveniva sulla qualità dei prodotti e sulle relazioni sociali, mentre i prezzi delle merci, i salari e i profitti erano soggetti ad una attenta regolazione e negoziazione da parte delle autorità municipali. Nella sua monumentale opera sul «Capitalismo moderno», W. Sombart ha prodotto un'ampia documentazione su queste forme di economia regolata precapitalistica.

Questo modello sociale saltò con la rivoluzione industriale e l'ascesa della borghesia mercantile che, come è noto, fu possibile solo nei paesi come l'Inghilterra, che avevano fatto a pezzi queste norme e regolamenti. La stessa scienza economica nasce con A. Smith con un obiettivo politico preciso: convincere le classi dirigenti che il sistema corporativo andava abrogato a vantaggio del libero mercato. Ma è questo il punto: il free trade è davvero il migliore sistema di difesa del consumatore, di crescita sociale e civile? La storia di questi ultimi due secoli ci ha mostrato come il cosiddetto «libero mercato» sia un utile esercizio per gli studenti di economia, ma nella realtà quello che ha sostituito il sistema delle corporazioni è un mercato oligopolistico che ha prodotto un gap crescente d'informazione tra consumatore e produttore, creando nuove forme di rendita capitalistica. Anche la concorrenza al ribasso sui prezzi, se ha presentato dei vantaggi per i consumatori, non di rado ha portato ad un abbassamento degli standard qualitativi di beni e servizi. Il nodo è che, come insegna una vasta letteratura, esiste un'asimmetria nell'informazione e quindi nei rapporti di potere tra produttori e consumatori e tra i singoli operatori economici.

Se, per venire alle questioni all'ordine del giorno, avvocati o tassisti possono farsi liberamente la concorrenza sui prezzi dei loro servizi, il «libero mercato» non è garantito in quanto non tutti partono con la stessa dote di capitale umano e finanziario. Anzi. Chi ha un grande capitale da investire potrà trasformare in aziende capitalistiche tanto il servizio taxi quanto quello di assistenza legale (vedi la nascita dei grandi studi associati). Il consumatore potrà godere di qualche vantaggio sul prezzo del servizio, mentre sarà difficile che gli vengano garantiti gli stessi standard qualitativi. Tassisti sottopagati, stressati e con scarse conoscenze di una grande città, quanto improvvisati avvocati azzeccagarbugli, sono tra i possibili «effetti collaterali» di un sistema di «libero mercato».

D'altra parte, le corporazioni rimaste o sopravvissute al capitalismo, a partire dai vecchi ordini delle professioni, hanno scarse possibilità di resistere ai mutamenti in atto. Quello che la storia ci insegna è che le corporazioni hanno avuto un ruolo importante e prodotto una buona parte della crescita qualitativa nel Medioevo e nel Rinascimento grazie all'azione delle autorità municipali che hanno esercitato un efficace controllo e regolazione. E sono questi soggetti, ancor prima del governo, che dovrebbero impegnarsi a fondo in questa direzione. Già abbiamo visto i guasti di alcune forme di deregulation come quella sulle licenze commerciali che ha azzerato i piani commerciali delle città con effetti negativi tanto sulle forme della concorrenza quanto su un equilibrato sviluppo urbanistico. Certo, nessuno trova giusto che ci siano in Italia qualcosa come 5000 notai su quasi 60 milioni di abitanti. Basterebbe raddoppiarne il numero e togliere a questa categoria, come ha in parte già fatto il governo, il monopolio su alcuni servizi. Ma, soprattutto, occorre immaginare e sperimentare un altro modello sociale che superi la dicotomia corporazioni/libero mercato e che metta in campo altri soggetti, a partire dalle autorità municipali , per trovare nuove forme della regolazione dei mercati che tengano in conto tanto le esigenze qualitative che quantitative nella produzione di servizi, a partire dalla dignità dei lavoratori che è la prima garanzia di un benessere collettivo.