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Karzai, schiaffo agli USA

di Michele Paris - 19/03/2012

 
    


Le conseguenze del massacro commesso domenica scorsa da un sergente americano nel sud dell’Afghanistan continuano a farsi sentire, mettendo a repentaglio la strategia dell’amministrazione Obama per il ritiro delle truppe di occupazione nel paese e stabilire una qualche presenza militare di lungo termine. Nella giornata di giovedì, infatti, il presidente afgano, Hamid Karzai, ha chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di confinare i soldati della NATO all’interno delle proprie basi entro il prossimo anno. Contemporaneamente, i Talebani hanno emesso un comunicato nel quale annunciano la sospensione degli stentati negoziati di pace con Washington che sembravano aver mosso i primi passi proprio in queste settimane.

La richiesta di Karzai è stata espressa nel corso di un incontro con il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, ed è significativamente giunta il giorno successivo la dichiarazione congiunta di Obama e Cameron a Washington, nella quale i due leader avevano confermato l’intenzione dei rispettivi governi di rispettare la scadenza fissata entro la fine del 2014 per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

Per Karzai, la fine delle operazioni di combattimento con protagoniste le forze di occupazione NATO servirebbe a porre un freno all’escalation di vittime civili seguita al potenziamento del contingente militare statunitense in Afghanistan deciso dal presidente Obama nel dicembre 2009. “Le forze internazionali”, ha affermato Karzai, “devono ritirarsi dai villaggi e spostarsi nelle loro basi”. Il presidente afgano ha poi aggiunto che “entrambe le parti devono lavorare ad un piano per completare il processo di trasferimento dei compiti legati alla sicurezza entro il 2013 invece del 2014”.

La mossa di Karzai, che di fatto bloccherebbe la campagna militare NATO proprio in vista di una nuova offensiva nelle aree di confine con il Pakistan, è legata indubbiamente alla rabbia diffusa tra la popolazione afgana dopo la strage di domenica che è costata la vita a 16 civili, buona parte dei quali bambini. Se le proteste in questa occasione non hanno eguagliato quelle esplose in seguito al rogo del Corano qualche settimana fa, in questi giorni ci sono state comunque varie manifestazioni, in particolare nella provincia di Kandahar, dove si sono svolti i fatti di sangue.

Il militare americano responsabile del massacro, nel frattempo, è già stato trasferito in Kuwait, da dove finirà sotto custodia negli Stati Uniti per affrontare un processo davanti alla corte marziale. Secondo gli accordi tra Washington e Kabul, i militari americani impiegati in Afghanistan godono della stessa immunità garantita ai diplomatici dalla Convenzione di Vienna.

L’allontanamento del sergente dal paese ha però suscitato l’ira della popolazione e, di conseguenza, di molti politici locali. Questi ultimi, giovedì, avrebbero perciò chiesto a Karzai di vincolare la firma del trattato di partnership strategica con gli USA alla possibilità di processare il militare statunitense in Afghanistan.

I negoziati per giungere ad una presenza stabile di militari americani, sotto forma di “consiglieri” o “addestratori”, è resa già complicata anche da altre questioni delicate, a cominciare dai raid notturni delle forze speciali a caccia di terroristi. Questi blitz hanno causato numerose vittime civili e sono estremamente impopolari tra la popolazione afgana. Karzai da tempo ne chiede lo stop, ma per gli USA rimangono un’arma fondamentale per mettere le mani su presunti militanti.

Secondo alcuni ufficiali della NATO, in realtà, la richiesta di Karzai di giovedì non si differenzierebbe di molto dal piano di disimpegno approvato da un vertice dell’alleanza a Lisbona nel 2010. Esso prevederebbe infatti un graduale trasferimento delle responsabilità legate alla sicurezza ai militari afgani dalle forze di occupazione a partire dal 2013, anche se queste ultime manterrebbero compiti di combattimento fino al 2014. Il capo di gabinetto di Karzai, tuttavia, ha sottolineato che la richiesta del presidente, sia pure da sottoporre all’esame degli Stati Uniti, intende anticipare di un anno questo processo di transizione.

Il livello di professionalità raggiunto dalle forze armate indigene, a detta dei vertici NATO, non sembra però essere ancora tale da garantire il controllo del territorio in maniera autonoma. Secondo uno studio condotto dalla stessa NATO nel 2011, ad esempio, solo uno dei 158 battaglioni dell’esercito afgano sarebbe in grado di sostenere combattimenti senza il supporto americano.

La sicurezza generale nel paese centro-asiatico rimane inoltre a dir poco precaria, come conferma l’episodio che giovedì ha funestato la visita di Panetta, giunto in Afghanistan per scusarsi di persona con il presidente Karzai per il massacro di domenica scorsa. Un interprete afgano impiegato dalla NATO ha sottratto un automezzo ad un militare suo connazionale, lanciandosi contro un gruppo di Marines che stava aspettando l’arrivo del numero uno del Pentagono presso l’aeroporto di Helmand. L’attentatore si è alla fine schiantato a poca distanza dall’aereo di Panetta in fase di atterraggio ed è morto in seguito all’esplosione del mezzo rubato.

Nonostante la richiesta fatta giovedì, il presidente Karzai teme che un eventuale ritiro affrettato delle forze NATO, da cui il suo governo dipende totalmente, possa segnare la fine del suo regime. Allo stesso tempo, però, l’odio sempre più diffuso nei confronti di un’occupazione ormai decennale rischia di alimentare ulteriormente le simpatie per la resistenza talebana, trasformandosi in una minaccia ancora più pericolosa per la sua permanenza al potere. Da qui, dunque, l’atteggiamento sempre più ostile tenuto pubblicamente nei confronti degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l’amministrazione Obama, la strategia afgana ora sempre più a rischio ha preso le mosse dall’aumento due anni fa delle truppe USA sul campo fino a 100 mila uomini. Essa prevede l’indebolimento della resistenza all’occupazione, così da aprire negoziati con i Talebani da una posizione di superiorità e, parallelamente, stipulare un accordo con Kabul per mantenere un contingente militare nel paese a lungo termine. Raggiunti questi obiettivi, la Casa Bianca potrebbe portare a termine il ritiro della maggior parte dei militari impiegati in Afghanistan.

A scompaginare i piani statunitensi, come già ricordato, è stato l’altro giorno anche l’annuncio pubblicato su un sito web vicino ai Talebani del congelamento dei negoziati di pace con Washington. I colloqui, secondo il comunicato, erano in fase iniziale e stavano ruotando attorno alla possibile liberazione di alcuni prigionieri talebani detenuti a Guantanamo, quando gli americani hanno cercato di imporre nuove condizioni per la prosecuzione delle trattative.

I membri dell’ex regime islamista afgano avevano recentemente ottenuto anche il via libera per l’apertura di un proprio ufficio di rappresentanza a Doha, in Qatar. Un segnale di distensione che sembra essere svanito in seguito agli episodi di sangue delle ultime settimane. La strage di domenica e le sue conseguenze, infine, potrebbero aver convinto i vertici talebani che in Afghanistan continui ad esserci terreno fertile per reclutare forze nuove e proseguire la resistenza armata contro gli occupanti occidentali senza scendere a compromessi.