Dallo “Scudo della Democrazia” alla “Democrazia sorvegliata”: il nuovo volto del controllo europeo dell’informazione
di Stefano Stella - 14/11/2025

Fonte: La Fionda
La Commissione Europea ha recentemente presentato un pacchetto di misure sintetizzate all’interno dell’ “European Democracy Shield”, avendo come obiettivo dichiarato quello di proteggere i pilastri chiave delle democrazie.
Salta quindi immediatamente all’occhio l’uso del termine “shield”, per indicare un’ennesima emergenza imminente: gli attacchi da parte di poteri esterni alle sovranità democratiche degli Stati membri. L’intento può apparire nobile, ma nel sentire tali affermazioni pronunciate da rappresentanti delle istituzioni europee è difficile non richiamare alla mente una celebre citazione di Orwell:
“Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario.”
Per fare un’operazione di verità si deve infatti prima di tutto porsi la domanda: “Che cos’è l’Unione Europea?”
Che cos’è l’Unione Europea se non un gigantesco potere esterno alle sovranità nazionali? Sono forse le ingerenze di Russia e Cina ad essere pericolose per le democrazie europee?
In effetti, alla luce delle posizioni espresse da parte delle èlite europee appare necessaria un’operazione di ricostruzione di una verità che appare sempre più indicibile nel dibattito pubblico.
L’Unione Europea è sempre stata una modalità di istituzionalizzazione del neoliberalismo, ovvero di un’ideologia globalista, basata su istituzioni al riparo dal processo democratico e sostanzialmente ostili alla sovranità nazionale. Ciò è avvenuto attraverso un progressivo irrigidimento della politica economica intorno al consolidamento fiscale e, più in generale, verso politiche deflazionistiche e ostili alla classe lavoratrice.
Come sostenuto dalla stessa Commisione Ue infatti nel rapporto annuale su occupazione e sviluppi sociali la necessità di affrontare i rischi della povertà lavorativa del 2013:
“Il rapporto 2013 dimostra come le basi dei divari attuali siano state poste nel corso dei primi anni di introduzione dell’euro, giacché in alcuni Stati membri una crescita squilibrata, fondata sull’aumento del debito alimentato da bassi tassi di interesse e su massicci afflussi di capitale, è stata spesso associata a un andamento deludente della produttività e della competitività.
Venuta meno la possibilità di svalutare la moneta, i paesi della zona euro che tentano di recuperare competitività sul versante dei costi devono ricorrere alla “svalutazione interna” (contenimento di prezzi e salari). Questa politica presenta però limiti e risvolti negativi, non da ultimo in termini di un aumento della disoccupazione e del disagio sociale e la sua efficacia dipende da molti fattori come il grado di apertura dell’economia, la vivacità della domanda esterna e l’esistenza di politiche e di investimenti che promuovano la competitività non di prezzo.[1]”
In questo passaggio la Commissione ammette che le politiche di disgregazione dello stato sociale e di precarizzazione del mercato del lavoro sono strettamente legate all’adozione della moneta unica, pertanto ogni riferimento alla “giustizia sociale” o ai “diritti dei lavoratori” senza ridiscutere la struttura monetaria europea è mero flatus vocis.
Il fatto qui rilevante tuttavia è più di natura politica che economica. Queste misure di politica economica infatti sono state rigorosamente applicate dai governi italiani seguendo la filosofia del “pilota automatico” dell’ex Presidente della BCE Mario Draghi, favorendo e radicalizzando un processo di svuotamento delle democrazie e di parallelo rafforzamento delle tecnocrazie europee.
Come ormai argomentato da diversi studi, la crescita dei tanto vituperati partiti populisti va letta proprio in relazione alle politiche di austerità promosse dalle èlite[2]. Ciò si è verificato in un contesto di progressiva degenerazione del contesto geopolitico e di crisi dell’egemonia occidentale.
In questo scenario, appare significativo anche il periodo in cui le istituzioni e i media hanno intensificato la loro campagna contro la disinformazione. Questa iniziativa è stata avviata principalmente in seguito a pesanti sconfitte elettorali del blocco liberal-progressista, come le elezioni statunitensi del 2016 e il referendum sulla Brexit, dando il via a una persistente retorica di delegittimazione dell’elettorato. È curioso, tuttavia, che un simile allarme non sia stato sollevato in occasione delle evidenti distorsioni propagandistiche adottate dal blocco atlantico per giustificare l’intervento militare in Iraq: evidentemente, tali manipolazioni non sono state percepite come una minaccia alla democrazia, a differenza dei post critici diffusi sui social network da cittadini comuni o intellettuali non allineati. Tali ipocrisie sollevano dunque la questione della reale incidenza delle cosiddette fake news online: se la disinformazione fosse effettivamente determinata principalmente dai contenuti diffusi sul web, ci si aspetterebbe una vigilanza sistematica e imparziale su tutti i flussi informativi, indipendentemente dall’autore o dall’orientamento politico.
Va sottolineato, a tal proposito, che la tesi secondo cui la disinformazione sia principalmente determinata dalle fake news online non trova particolare riscontro scientifico, poiché numerosi studi evidenziano come il problema delle notizie false sul web sia spesso sovrastimato e che il fenomeno del fact-checking sia frequentemente caratterizzato da bias significativi e da scarsa trasparenza[3].
Ciò che emerge da questa breve ricostruzione è che le più recenti misure intraprese dalle istituzioni europee si collochino all’interno di un preciso processo storico che ha radici profonde e che, lungi dal proteggere la democrazia, costruiscono un’architettura censoria sempre più stringente, avendo un obiettivo piuttosto lampante: la stigmatizzazione e successiva repressione del dissenso.
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Ne è la prova recente la censura che ha visto come vittima il professor Angelo D’Orsi a cui è stato impedito di tenere una conferenza al Polo del 900’ a Torino, dal titolo: “Russofobia, russofilia e verità”. Lo storico, grande studioso di Gramsci, è stato accusato da Carlo Calenda di essere un “propagandista dei fascisti russi”. Appare evidente che Calenda non abbia una conoscenza approfondita di cosa fosse il regime fascista, o non prenderebbe le posizioni che ha preso, tuttavia l’aspetto davvero inquietante di questa storia è che attraverso strumenti come l’European Democracy Shield queste forme di censura diverranno più comuni.
In altri termini, l’Unione Europea si presenta come principale nemico delle, ormai defunte, democrazie europee, censurando il dissenso e presentando la propria propaganda come l’unica alternativa possibile.
Note
Commissione Europea, Al centro del rapporto annuale su occupazione e sviluppi sociali la necessità di affrontare i rischi della povertà lavorativa. Comunicato stampa,Bruxelles, 21 gennaio 2014.
Si veda ad esempio: Hübscher E, Sattler T, Wagner M. Does Austerity Cause Polarization? British Journal of Political Science. 2023;53(4):1170-1188. & Baccini, L., & Sattler, T. (2024). Austerity, economic vulnerability, and populism. American Journal of Political Science.
Si veda ad esempio: Altay, S., Berriche, M., & Acerbi, A. (2023). Misinformation on Misinformation: Conceptual and Methodological Challenges. Social Media + Society, 9 (1). & Park S., Park J., Kang J., Cha M. (2021), The presence of unexpected biases in online fact-checking, January, Volume 2, Issue 1, Harvard Kennedy School Misinformation Review.

