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Non abbiamo bisogno di psicanalisti, ma di medici dell’anima

di Francesco Lamendola - 30/05/2012


A chi si rivolge, nella nostra ricca (?) e progredita società tecnologica, un essere umano che sia scivolato nel baratro della sofferenza interiore, della mancanza di senso, del vuoto esistenziale, della insensibilità - o della ipersensibilità - affettiva?

A chi si rivolgono un uomo, una donna che non riescano più a dormire, che non riescano più a lavorare, che non riescano più a pensare ad altro che al proprio disagio quotidiano di esistere; che non riescano più ad essere padroni di sé, capaci di dare e ricevere amore?

A chi si rivolgono le persone quando perdono la speranza nel domani, quando il presente appare loro come un’unica, grigia palude; quando si alzano al mattino con un senso di stanchezza, di irritabilità, di disgusto; quando la famiglia sembra loro un peso insopportabile, anziché una fonte di gioia e di serenità?

Strano ma vero: nessuno lo sa esattamente.

Si sa dove andare a far aggiustare il computer, l’automobile, la televisione, quando questi mezzi smettono di funzionare.

Si sa anche - o, piuttosto, si crede di sapere - dove andare quando, guardandosi allo specchio, si scopre che il proprio corpo non piace più, che non ci si abita volentieri.

Si sa, infine, dove andare e a chi rivolgersi se ci si sloga una caviglia, se la vista si indebolisce, se i denti fanno male: per ognuno di codesti inconvenienti c’è un tecnico specializzato che se ne fa carico e che, certo pagandolo profumatamente, si impegna a restituirci il buon uso della nostra caviglia, della nostra vista, dei nostri denti.

Perfino se ci cadono i capelli sappiamo dove andare, prima di ricorrere all’estremo rimedio del parrucchino; perfino per tale evenienza esiste una ricca offerta di soluzioni o sedicenti tali, esiste una quantità di “esperti” ai quali rivolgersi per ricevere assistenza.

Solo per i mali dell’anima non esistono esperti.

Ci sono gli esperti della “psiche”: ma la psiche è solo una parte dell’anima, è la parte più esterna e più meccanica; essa sta all’anima, più o meno, come il corpo sta a lei.

La psicologia, storicamente, nasce proprio dopo il tramonto dell’anima sull’orizzonte della cultura occidentale moderna; nasce, inoltre, in pieno positivismo, cioè in piena ubriacatura razionalista e scientista, e i suoi esponenti ritengono di avere trovato la chiave per aprire il meccanismo della psiche, per rimettere a posto gli ingranaggi usurati, per restituire funzionalità all’insieme.

Naturalmente, non basta; ed ecco sorgere una nuova schiera di sedicenti esperti, ancora più ignoranti e presuntuosi, ancora più simili a dei lugubri cultori della magia nera: costoro, autoproclamandosi gli esploratori del profondo, affermano che si possono evocare le esperienze traumatiche relegate nelle caverne della psiche, farle rivivere al soggetto sofferente e restituirgli, così, l’armonia e l’equilibrio interiori.

I danni che costoro hanno fatto e continuano a fare sono incalcolabili: astuti o folli, come direbbe il Leopardi de «La ginestra», incapaci perfino di leggere in se stessi e di curare se stessi, pretendono di curare gli altri, mediante degli oscuri cerimoniali che riportano in luce gli strati più torbidi e fangosi dell’anima - ma senza riconoscerli come tali, perché essi negano l’anima -, come fossero dei semplici ricordi della psiche, rimossi e respinti nell’inconscio; e, dall’alto del loro “sapere”, con tono apodittico e con atteggiamenti da pretesi scienziati, maneggiano l’anima malata con la delicatezza di elefanti e la sottopongono ad ulteriori sofferenze.

Non riescono, però, a mostrare al paziente un solo raggio di luce, perché essi stessi ignorano cosa sia la luce; credono nell’inconscio, sede di pulsioni vergognose e inconfessabili, ma ignorano l’esistenza di un superconscio, luminoso e benefico; pensano che l’uomo, tutto l’uomo, si esaurisca nelle spinte e controspinte dell’Es e del Super-io e sia destinato a vivere in precario, drammatico equilibrio fra il bisogno degli impulsi di erompere dal fondo del primo, e le regole della società civile, che li interdicono e li respingono nel buio.

Un tempo, quando l’umanità non aveva ancora smarrito il concetto dell’anima, le persone sofferenti avevano degli interlocutori autorevoli ai quali rivolgersi: persone sagge, con una ricca esperienza di vita, dotate di un retto vedere, di un retto sentire, di un retto pensare; persone che, senza chiedere denaro, consigliavano gli incerti, sorreggevano i dubbiosi, incoraggiavano gli spauriti, guidavano i confusi, non applicando teorie cervellotiche, ma guardando in faccia colui o colei che avevano di fronte, il suo stato di salute fisica, la sua capacità di imparare a leggersi dentro, la sua attitudine alla verità o alla menzogna.

Non sempre si trovavano tali figure, ma comunque esistevano; bisognava cercarle, perché esse non si facevano pubblicità, non curavano le anime come professione, non pubblicavano inserzioni pubblicitarie sui giornali e non esibivano titoli di studio, incorniciati, sulle pareti di casa.

Poteva trattarsi di una persona anziana, resa saggia dalla vita e dalla propria capacità di introspezione; poteva trattarsi di un parente più grande, di un nonno, di uno zio; poteva trattarsi di un sacerdote, anche se certo non tutti i sacerdoti possedevano tale saggezza e tale attitudine a consigliare, guidare e curare le malattie dell’anima.

Potevano essere un santo uomo o una santa donna, un monaco o una monaca, capaci di leggere nello sguardo dell’interlocutore anche le cose che questi non trovava il coraggio di dire: perché lo sguardo parla a chi lo sa capire, parla e non mente mai, perché non ne è capace; parla e dice la verità, suo malgrado, perfino quando la persona sta mentendo: tutto sta a conoscerne il linguaggio, a comprenderne la grammatica.

Lo storico Jules Michelet si è fatto beffa, con amare parole, del sacramento della confessione; ha parlato del confessionale come di un lugubre armadio nel quale il prete, creature sordida e malevola, ruba alle donne i segreti delle famiglie e se ne serve per tenere in pugno i suoi parrocchiani, esercitando su di essi una pressione e una sorta di ricatto psicologico.

A Michlet non è mai venuto in mente che la società laica e liberale, da lui auspicata, avrebbe costruito altri e ben più osceni confessionali: quelli del Grande Fratello televisivo, per esempio, nei quali uomini e donne, rimbecilliti dalla ricerca esasperata della notorietà, non si peritano di vomitare tutte le maldicenze, tutte le basse insinuazioni, tutti i rancori, le perfidie, le gelosie, i sospetti meschini e rancorosi, nei confronti di coloro coi quali, subito dopo, fingeranno di andare perfettamente d’amore e d’accordo: e il tutto davanti a milioni di telespettatori.

Saper ascoltare un’anima in difficoltà, invece, è cosa delicatissima, nobile ed estremamente faticosa: c’è da rimetterci la salute, perché bisogna lasciarsi investire, per ore e ore, tutti i santi giorni, dal fango delle cattive azioni, delle cattive parole, dei cattivi pensieri; da una vera e propria marea di negatività, di dolore, di angoscia, di smarrimento: e a tutte queste anime piagate, purulente, lebbrose, bisogna saper dire una parola buona, una parola d’incoraggiamento e di fede, una parola che accenda la speranza e che ridesti l’amore per la vita.

È un compito eroico, che richiede infinita delicatezza, infinita disponibilità, generosità senza limiti; e, insieme, saggezza, discernimento, capacità di ascolto non giudicante, prontezza nel mostrare le possibili soluzioni, serenità, pazienza, coraggio.

Abbiamo eliminato la nozione di anima; abbiamo distrutto, idealmente, l’odioso armadio del confessionale: che cosa ci è rimasto? Il lettino dello psicanalista, con i suoi riti tenebrosi, simili alle evocazioni della magia nera? Oppure gli psicofarmaci generosamente distribuiti da una psichiatria che cura i sintomi, ma non sa, non può o non vuole andare alla radice del male? Intendiamoci, in taluni casi gli psicofarmaci sono necessari: a mali estremi, estremi rimedi.

Ma quand’è che abbiamo perduto così clamorosamente la capacità di ascoltarci, di riconoscere l’avanzata del disagio, dello squilibrio, del male; quand’è che abbiamo smarrito la connessione con noi stessi, con la nostra pare più vera e più profonda, con i nostri bisogni vitali, primo fra tutti il bisogno di realizzarci pienamente e felicemente come persone e non solo come individui, ossia come soggetti che vogliano realizzare compiutamente la propria umanità e non solo come membri di una specie biologica e di una comunità sociale?

È questa la domanda che dovremmo farci, prima di ogni altra; perché solo tornando sui nostri passi, ritrovando il punto in cui abbiamo incominciato ad allontanarci da noi stessi, possiamo sperare di ritrovare anche un po’ di luce, un po’ di speranza, un po’ di vero amore per la vita.

Viviamo in una società consumista e necrofila: perché amare le cose più delle persone è il segno più evidente che non si ama più la vita, ma la morte; e l’altissimo numero di aborti che si praticano in silenzio, accettandoli come cosa normale, è la prova del fatto che non amiamo più la vita, che abbiamo smesso di credere nel futuro e di investire in esso, di impegnarci in un progetto esistenziale dotato di senso e di ampio respiro.

Per curare il male di viverre, il male dell’anima, dobbiamo ritornare alla filosofia: che è, né più né meno, secondo il motto platonico, la capacità di vedere l’intero e non le singole parti. Siamo diventati dei professionisti delle mezze verità, degli esperti del mezzo vedere, del mezzo sentire, del mezzo comprendere: e tale sapere dimezzato, tale conoscere mutilato, lo abbiamo chiamato la verità, e abbiamo delegato a delle figure di semi-vedenti, di semi-udenti, di semi-sapienti, la cura e la soluzione dei nostri problemi e dei nostri mali.

Il tecnico è il personaggio emblematico di tale mezzo sapere: il tecnico, figura oggi più che mai prestigiosa, anzi ritenuta indispensabile, è colui che considera, appunto, i singoli problemi come parti staccate dal tutto, e come tali pretende di affrontarli, di curarli, di risolverli. Il tecnico dell’economia pretende di risanare i conti pubblici, il tecnico dell’urbanistica pretende di disegnare il territorio, il tecnico della psiche pretende di curare l’anima, negando peraltro che esista una cosa chiamata “anima”.

Questi mezzi vedenti e questi mezzi sapienti ci porteranno nel baratro, se continuiamo ad affidarci alla loro cattiva vista e al loro cattivo sapere; dobbiamo tornare ad assumerci la responsabilità di noi stessi, della nostra vita, del nostro presente e del nostro futuro; dobbiamo riacquistare la facoltà, un tempo presente anche nelle persone semplici e sprovviste di cultura scolastica, di vedere l’insieme e non solamente le singole parti.

Ci siamo fatti già abbastanza male, con tutta la nostra presunzione razionalista e con tutto il nostro grossolano materialismo; ora basta. Dobbiamo tornare a volerci un po’ di bene; dobbiamo smettere di disprezzarci così tanto.

Non basta andare ogni giorno in palestra o dall’estetista, a curare il corpo per renderlo desiderabile, per volersi bene; anzi, può darsi che tali comportamenti, quando diventano esagerati e compulsivi,  nascano proprio da uno scarso amore di sé, da una scarsa stima di sé, da una scarsissima accettazione di quel che si è, nei confronti di se stessi e nei confronti degli altri.

Verrà un tempo in cui sembrerà incredibile che la nostra società si sia affidata a simili guide, che si sia consegnata nelle mani di simili “guaritori”; verrà un tempo i cui sembrerà frutto di pazzia collettiva il fatto di aver creato una pseudo-scienza chiamata “analisi della psiche” e basata sul presupposto di una visione dell’uomo deformata, patologica, mostruosa.

Allora apparirà con chiarezza una cosa che avrebbe dovuto essere evidente a chiunque e fin dall’inizio: che non può curare gli altri, chi sia sprofondato nel male; che non può guidare gli altri, chi sia privo del bene della vista; che non può trasmettere speranza, positività, amore per la vita, chi sia imbevuto di una concezione del reale disperata, negativa, necrofila.

Apparirà evidente anche un’altra cosa: che è stata una follia quella di voler bandire la sofferenza dalla vita umana; che la sofferenza, cacciata dalla porta (magari con gli psicofarmaci), rientra dalla finestra, più virulenta e aggressiva che mai; che essa non è sempre e solo un nemico da temere e da odiare, ma lo strumento privilegiato per realizzare la conoscenza di noi stessi; il banco di prova del nostro valore; la via stretta, ma necessaria, per approdare al vero amore della vita: amore doloroso, talvolta, ma - proprio perciò - tanto più maturo e consapevole.

Con la propri anima, non si può barare: essa grida nei deserti della vita ed esige di essere ascoltata...