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I paradossi del diritto penale internazionale. Intervista a Danilo Zolo

di Gianluca Sacco* - 14/07/2006

Fonte: rivista.ssef


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Attento studioso dei processi di evoluzione o involuzione del diritto penale internazionale Danilo Zolo[1] è uno dei pochi filosofi del diritto che sembra avere preso sul serio, con le dovute distinzioni, le profezie di Carl Schmitt, esposte soprattutto nel Il  Nomos della terra. In suo testo dal titolo Chi dice umanità,   riprendendo una frase di Proudhon cara anche al giurista di Plettenberg, Zolo ricostruisce con chiarezza i motivi che hanno portato alla guerra ‘umanitaria’ contro la Repubblica Federale Jugoslava nell’aprile del 1999, analizzando le origini del conflitto e le sue appendici processuali: contesto, quest’ultimo, particolarmente significativo per tentare di capire come il reato penale venga concepito, interpretato e applicato in questa epoca. Lo abbiamo intervistato sottoponendogli una serie di domande che tendono a ripercorrere la strada sia procedurale sia sostanziale del reato penale internazionale che giunge fino all’attuale processo contro Saddam Hussein, focalizzandolo, per quanto possibile, attraverso la lente del crimine contro l’umanità; una fattispecie apparsa per la prima volta nel famoso processo di Norimberga che costituisce a suo modo un ‘paradigma’. Ne è emerso un quadro problematico, non privo di contraddizioni e di paradossi, che costituiscono probabilmente il presupposto per cominciare a pensare una nuova filosofia penale e un nuovo assetto dei rapporti di forze che non si risolva nel già noto e inefficace cosmopolitismo giuridico  di stampo kantiano-kelseniano.

 

- Domanda

 Il diritto internazionale penale, per la sua natura consuetudinaria e pattizia, offre un fertile campo di ricerca entro cui tentare di individuare delle chiavi di lettura che aiutino a comprendere una fattispecie giuridica in rapida evoluzione: il reato. Nel susseguirsi delle corti penali internazionali degli ultimi sessant'anni lei ha individuato un paradigma nel processo di Norimberga. In cosa consiste? Quali sono le caratteristiche e le implicazioni? Questa sua chiave di lettura è valida anche per il processo che si sta intentando nei confronti di Saddam Hussein?

 

- Danilo Zolo

Per giustificare l'istituzione del Tribunale speciale iracheno che dovrà giudicare Saddam Hussein e i suoi principali collaboratori alcuni osservatori occidentali si sono richiamati a quello che ho proposto di chiamare il "paradigma di Norimberga". Il processo di Norimberga viene invocato come un precedente di diritto internazionale quando si intende processare il nemico dopo averlo sconfitto militarmente. Hans Kelsen, il massimo giurista del secolo scorso, sostenne una tesi esattamente contraria: il processo di Norimberga non poteva essere assunto come un precedente. La punizione dei criminali di guerra nazisti avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Per Kelsen era un fatto incompatibile con la funzione giudiziaria che a Norimberga solo gli Stati sconfitti fossero stati obbligati a sottoporre i propri cittadini alla giurisdizione di una corte penale. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto accettare che i propri cittadini, responsabili di crimini di guerra, venissero processati da una corte internazionale. E questa avrebbe dovuto essere una vera corte internazionale e cioè un'assise indipendente, imparziale e con una giurisdizione ampia e non un tribunale di occupazione militare con una competenza fortemente selettiva.

 

- D.

Se il 'paradigma di Norimberga' si muove in un ambito procedurale (la violazione dei principi del 'giudice terzo' e della irretroattività della legge penale), è possibile individuare un secondo paradigma proprio nel contenuto del crimine che per la prima volta è comparso in quel processo, ovvero il crimine contro l'umanità? Non è forse questa la ragione del titolo del suo testo "Chi dice umanità", che fa suo un motto di Proudhon ripreso da un autore a lei caro: Carl Schmitt?

 

- Zolo

'Fare giustizia' dovrebbe significare che si intende interrompere la sequenza politica della divisione, dell'odio e dello spargimento del sangue per decostruire il conflitto e tentare di esorcizzarlo attraverso l'uso di mezzi giudiziari. La giustizia, in questo senso, si oppone alla faziosità della politica e alla violenza della guerra perché è la ricerca di uno spazio di imparzialità, è il ricorso a principi giuridici capaci di dirimere e neutralizzare il conflitto. E' proprio per questo che l'istituzione di tribunali speciali a conclusione di una guerra -- internazionale o civile -- può essere, non diversamente dalla amnistia, il primo passo verso la pacificazione della memoria collettiva e l'inibizione della vendetta generalizzata. Il processo di Norimberga ha invece stravolto l'idea di giustizia internazionale, annullandone ogni distinzione rispetto alla politica e alla guerra. E' stata una resa dei conti, il regolamento delle pendenze, la vendetta dei vincitori sui vinti.

Che tutto questo sia stato coperto sotto l'etichetta dei "crimini contro l'umanità" di cui si sarebbero resi responsabili i criminali nazisti conferma ancora una volta la massima proudhoniano-schmittiana secondo la quale "chi dice umanità cerca di ingannarti". Gli Stati Uniti che, assieme all'Unione Sovietica, vollero con la massima determinazione il Tribunale di Norimberga, si macchiarono in parallelo di uno dei crimini di guerra più efferati: la strage atomica di Hiroshima e Nagasaki, in cui perirono centinaia di migliaia di innocenti. L'accordo di Londra del 6 agosto 1945, che istituì il tribunale, venne infatti siglato dalle potenze vincitrici del conflitto mondiale esattamente due giorni dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e tre giorni prima del bombardamento atomico di Nagasaki. Questi furono "crimini contro l'umanità" rimasti per sempre sottratti a qualsiasi giurisdizione penale, nazionale o internazionale.

 

- D

 Sanzionare questo tipo di crimine attraverso l'intervento umanitario (la guerra moderna) sembra essere il trascendentale pratico, la chiave di volta che regge il costituendo arco giurisdizionale internazionale che porterebbe come iscrizione “La dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948”. Questo progetto è perseguito con sempre maggior vigore da quel "globalismo giuridico" di origine kantiana e di implementazione kelseniana che lei critica, per via della sua astrattezza ed "esiguità di indagine teorica". Quali sono i reali limiti se non addirittura le contraddizioni di una concezione che attribuisce un ruolo così importante all'applicazione del diritto penale e quindi come extrema ratio alla guerra?

 

- Zolo

Il carattere selettivo ed 'esemplare' della giustizia penale internazionale viola il principio dell'uguaglianza formale delle persone di fronte alla legge e attribuisce alla giurisdizione dei Tribunali internazionali un'arcaica funzione sacrificale. La repressione penale viene infatti applicata soltanto nei confronti di pochi soggetti ritenuti come i più responsabili sul piano politico o come i più coinvolti in attività delittuose. Questo vale in particolare per i Tribunali per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda. La loro giurisdizione viene infatti esercitata, secondo criteri normativi non definiti, soltanto nei confronti di un numero molto limitato di soggetti, individuati sulla base di valutazioni intuitive e altamente discrezionali. E si tratta di interventi repressivi quantitativamente irrisori, anche in relazione agli imponenti investimenti finanziari che comportano. E notevoli dubbi possono essere sollevati anche sulla qualità di una giustizia internazionale che viene esercitata, come è inevitabile che sia, molto al di fuori e al di sopra dei contesti sociali entro i quali hanno operato i soggetti sottoposti alle sue sanzioni. Questo vale in misura estrema per il Tribunale di Arusha, ma vale anche per il Tribunale dell'Aia, i cui membri sono stati nominati senza valutare il loro grado di conoscenza e di consapevolezza dei problemi storico-politici ed economici della ex Jugoslavia.

C'è poi il problema dell'efficacia penale e, più in generale, degli effetti 'stragiudiziari' dell'attività dei tribunali internazionali: effetti che sono stati di grande rilievo, ad esempio, nel caso dell'incriminazione del presidente jugoslavo, Slobodan Milosevic. E' stato osservato che i processi penali internazionali del secondo dopoguerra hanno mostrato un'efficacia deterrente praticamente nulla. E il giudizio potrebbe essere ripetuto per la ex Jugoslavia: l'attività repressiva svolta dal Tribunale dell'Aia nei confronti delle atrocità commesse durante la guerra di Bosnia-Erzegovina non ha svolto alcuna funzione dissuasiva nei confronti dei contendenti della guerra per il Kosovo: tutte le parti in causa -- milizie serbe, Uçk e Nato -- hanno violato, talora in forme gravissime, il diritto bellico.

In realtà, nulla garantisce che un'attività giudiziaria che irroghi sanzioni, anche le più severe, contro singoli individui responsabili di crimini internazionali incida sulle dimensioni macrostrutturali della guerra, possa cioè avere effetto sulle ragioni profonde della aggressività umana, del conflitto e della violenza armata. Si profilano anzi importanti controindicazioni: l'attività giudiziaria che venga svolta come una sorta di contrappunto penale dello scontro militare rischia di produrre un rafforzamento simbolico dei sentimenti di ostilità. E introduce rigidezze formali che operano in senso opposto rispetto alle tradizionali funzioni di mediazione -- e in definitiva di pacificazione -- svolte dalla diplomazia protocollare e non protocollare.

E non può mancare infine una considerazione filosofico-giuridica di ordine generale: ciò che lascia perplessi nella posizione dei teorici occidentali che in quest'ultimo decennio hanno sostenuto con fervore l'idea di una giurisdizione penale internazionale, è l'assenza di una riflessione, in termini di filosofia della pena e di sociologia delle istituzioni penitenziarie, sulle funzioni e sui possibili effetti di tale giurisdizione. Sorprende che sia così diffusa una visione semplificata del rapporto fra esercizio del potere giudiziario e ordine mondiale, all'insegna di un feticismo penale che applica ai rapporti internazionali un modello di giustizia punitiva che nella sua esperienza 'domestica' continua a sollevare gravi interrogativi.

 

- D.

Lo storico Paolo Prodi, in un articolo[2] che ospitiamo in questo numero, sostiene che la distinzione tra peccato e reato sia alla base della tradizione giuridica occidentale perché ha permesso di contenere in due sfere separate il diritto e la morale: un dualismo essenziale per evitare sacralismi e discriminazioni di ogni sorta. In questa direzione sembrano invece andare tutte le recenti colpevolizzazioni del nemico sia in campo giuridico sia politico, che sembrano attestare il riemergere di un'arcaica logica retributivo-vendicativa. Ma a suo avviso, invece, questa logica è sempre stata in atto, anzi, è perseguita e ravvivata proprio dal quel razionalismo giuridico moderno che sembra combatterla frontalmente, mentre la ripropone solamente 'sotto nuove vesti'. Qual è il meccanismo perverso che la animerebbe e in che direzione va la sua proposta di una rigenerata e più realista filosofia della pena e del reato?

 

- Zolo

L'esemplarità e la retributività (vendicativa) delle sanzioni è stata esaltata come un'importante caratteristica della giustizia penale internazionale. L'esemplarità delle condanne è intesa come una delle prove della superiore imparzialità e dell'austerità morale dell'assise giudiziaria. Dall'esemplarità si fa discendere inoltre l'efficacia pedagogica delle sentenze di condanna. Un autorevole esperto come C. Bassiouni, ad esempio, ha sostenuto che compito delle giurisdizioni penali internazionali è "applicare una giustizia esemplare e retributiva" per "rinforzare i valori sociali e la rettitudine individuale, educare le generazioni presenti e future e scoraggiare e prevenire la commissione di altri crimini". E di fatto il Tribunale dell'Aja ha inflitto sanzioni esemplari sia per la loro severità afflittiva (sono state più volte irrogate condanne prossime ai 50 anni di carcere), sia per la solenne formalità dei riti, sia per il rilievo e la spettacolarità della comunicazione massmediale.

Contro questo tipo di strategia e di retorica penologica si potrebbe osservare che l'esemplarità è un attributo della condanna penale caratteristico dei sistemi premoderni. In essi, al posto dell'eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge penale, valeva il criterio paternalistico-pedagogico -- si pensi al tema foucaultiano dello 'splendore del supplizio' -- dell'esecuzione (pubblica) della condanna come narrazione potestativa e rafforzamento dei sentimenti popolari di dipendenza gerarchica. E si potrebbe evocare la letteratura che nella seconda metà del secolo scorso ha rappresentato il processo penale come un rituale di degradazione dell'imputato, come una cerimonia collettiva di stigmatizzazione simbolica della sua figura, usata come strumento di conferma dei pregiudizi morali e religiosi condivisi dalla maggioranza del gruppo sociale. Il processo è tanto più degradante e stigmatizzante quanto più è 'esemplare', quanto più espone alla esecrazione popolare un soggetto che ha profanato i valori collettivi e che merita perciò una sanzione severa e solenne.

E si potrebbe richiamare anche la lezione di René Girard circa la funzione di 'capro espiatorio' che il sacrificio del capo politico (o di uno 'straniero interno') ha nelle culture 'primitive'. In situazioni di conflittualità e instabilità sociale il rito penale concentra simbolicamente il senso di  colpa del gruppo e lo scarica sulla figura della vittima, il cui sacrificio ha la funzione di riportare la pace e di riconquistare il favore degli dei. Nella 'esemplarità' della condanna penale sopravvivono dunque elementi di irrazionalità ancestrale che attribuiscono alla sanzione una funzione sacrificale e vittimaria. Questi elementi dovrebbero avere ben poco a che fare con processi di riconciliazione sociale fondati sulla decostruzione collettiva della vicenda storica del conflitto, sul compromesso politico e sulla progettazione costituzionale come 'rituali di pacificazione' dialogici e razionali, miranti alla ricostruzione della identità culturale e politica di un intero paese.

Quanto al carattere retributivo della pena, esso è uno dei più antichi, poiché risale alla tradizione biblica e alla filosofia greca ed è stato elaborato nella sua forma più caratteristica dalla teologia cattolica medioevale. Questo tipo di giustizia punitiva e afflittiva guarda ai comportamenti devianti come a violazioni di un ordine oggettivo, come lesioni dell'armonia universale del cosmo. Punire ed espiare significa ripristinare l'equilibrio ontologico leso dal comportamento immorale o illegale. La sofferenza imposta al deviante ha perciò sia un valore penitenziario -- con effetti di redenzione e di purificazione soggettiva --, sia un valore risarcitorio. Ne discende l'idea 'retributiva' secondo la quale la giustizia umana deve imporre al reo una sofferenza proporzionale alla 'gravità' della sua colpa, gravità 'oggettiva' perché misurata sulla base di parametri assoluti, di natura etico-teologica.

La penologia moderna, a partire dalla seconda metà del Settecento, si è gradualmente liberata -- almeno in linea di principio -- da questo archetipo afflittivo e penitenziario e ha abbracciato un'idea secolarizzata della sanzione penale. Si è affermato il paradigma utilitaristico della difesa sociale e della risocializzazione del reo. La sanzione penale ha la funzione di neutralizzare la pericolosità del soggetto deviante e di riammetterlo nel gruppo dopo averlo 'rieducato' alla disciplina sociale e averlo reso inoffensivo. La sofferenza procurata non è più intesa come espiazione, purificazione e redenzione. E' una sofferenza, coincidente con la limitazione carceraria della libertà, che dovrebbe svolgere una funzione correzionale e dissuasiva. Il ricordo della sofferenza patita dovrebbe dissuadere il reo dal ripetere i suoi comportamenti criminali, mentre lo spettacolo sociale della sofferenza inflitta ai soggetti devianti dovrebbe indurre la maggioranza dei cittadini al rispetto delle regole collettive che il gruppo si è liberamente dato. Dunque, il criterio centrale nella applicazione della sanzione non è di carattere 'retributivo': la pena è commisurata alla 'pericolosità sociale' del reo e tiene conto dell'evoluzione della sua personalità, predisponendo una serie di 'misure alternative' al carcere che rendono flessibile l'esecuzione penale.

 

- D.

Per concludere, inquadrando il problema da un punto di vista più ampio, lei all'imperante globalismo giuridico antepone una visione più realista del contesto internazionale: una nuova filosofia che prendendo atto dell'inevitabile impurità della sfera giuridica e politica, e dell'influenza di vari fattori extra-giuridici, si avvii a strutturare un "diritto sovranazionale minimo". In cosa consisterebbe questa nuova prospettiva?

 

- Zolo

E' stato Hedley Bull ad avanzare per primo l'idea che sia preferibile a livello internazionale puntare su un 'ordine politico minimo', mettendo da parte l'ideale di un 'ordine politico ottimo'. In questo modo Bull esprimeva diffidenza verso l'ipotesi di un'autorità mondiale alla quale venisse affidato, secondo l'ideologia dei Western globalists, il compito di garantire, oltre ad una pace stabile e universale, la giustizia distributiva, lo sviluppo economico, la protezione internazionale dei diritti soggettivi, l'equilibrio ecologico del pianeta, il contenimento della crescita demografica e così via. Un'autorità cosmopolitica di questo tipo, anche la più democratica, non avrebbe potuto che essere intensamente interventista e pervasiva e minacciare quindi l'integrità e l'autonomia delle civiltà e delle culture.

Prendendo ispirazione da questa opzione neo-groziana e realistica si può sostenere che il diritto internazionale dovrebbe mirare alla costituzione di una 'società giuridica' che sia in grado di coordinare i soggetti della politica internazionale secondo una logica di sussidiarietà normativa rispetto alle competenze degli ordinamenti statali. E cioè concedendo una quantità minima di potere propriamente sovranazionale ad organi centralizzati e consentendo un ricorso minimo a interventi coercitivi che non siano di volta in volta autorizzati dalla comunità internazionale in base al principio della 'eguale sovranità' di tutti i suoi membri.

E' in questo senso che ho usato l'espressione 'diritto sovranazionale minimo': secondo una logica federalistica applicata al rapporto fra competenze normative degli Stati nazionali e competenze normative di organi sovranazionali, questo diritto lascerebbe un ampio spazio alle funzioni della domestic jurisdiction, senza pretendere di sostituirla o di soffocarla con organismi normativi o giudiziari sovranazionali. In altre parole, l''ordine politico minimo' -- proprio per restare tale, e cioè 'minimo' -- dovrebbe fondarsi su una sorta di 'regionalizzazione policentrica' del diritto internazionale, anziché su una struttura gerarchica che rischierebbe di provocare la rivolta delle 'periferie'.

Un 'diritto sovranazionale minimo' non dovrebbe comunque significare una sorta di inerzia della comunità internazionale di fronte ai molti problemi che oggi hanno assunto una dimensione globale -- a cominciare dal problema della pace -- e di fronte ai quali i singoli Stati sono scarsamente o per nulla attrezzati. E' tuttavia a mio parere importante tenere distinta l'esigenza di un coordinamento giuridico e di una stretta collaborazione politica fra i soggetti politici internazionali dall'idea che l'accentramento del potere in organi sovranazionali sia una valida risposta ai problemi posti dai processi di globalizzazione.

 


 

* Dedico questa intervista alla memoria di mio padre, Enzo Sacco, scomparso in questi giorni, la cui figura di filosofo e direttore di riviste scientifiche ha avuto un ruolo significativo per la mia formazione e le mie diverse iniziative editoriali.

[1] Danilo Zolo è professore di Filosofia del diritto presso l’Università di Firenze e coordinatore del centro Jura Gentium, Tra le sue ultime opere si segnalano  Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano,1995; I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma 1998; Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi,Torino, 2000; Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2004. Nella nostra rivista ha pubblicato un articolo dal titolo Il riemergere della nozione di impero e l’influenza del pensiero di carl Schmitt, n. 3, 2004, p. 25 e on-line;